Squarci | mercoledì 28 dicembre 2005

Rosaria de Marco

Vuoto di sonno

Caro papà, natale ci ha raggiunti ancora una volta. Inesorabile, col suo carico di disperata letizia ed eccessi alimentari.
L’ultimo natale della mia vita è stato diciannove anni fa. E cadde il 23 dicembre.
Ricordi? La mostra sul Caravaggio e le tartine con la mousse di salmone. Anche quest’anno c’è stata una mostra sul Caravaggio dal luttuoso sottotitolo “l’ultimo tempo”. Ma la mousse di salmone, oggi, mi disgusta. Come ogni altra cosa fatta col burro. O quasi.
In quel natale del 23 dicembre 1985, invece, le dita di tutti scivolavano allegre e affamate sulle tue tartine al salmone, alle acciughe, al prosciutto e maionese, si tuffavano nelle ciotole di olive bianche, nere, e schiacciate col peperoncino, razziavano mandorle salate e anacardi.
I miei amici di quel natale ti piacevano in modo speciale perché bevevano molto e bene, alcuni perché veneti, altri perché solo più adulti di me che, a quel tempo, intrattenevo con l’alcol rapporti immaturi e discontinui. Deludenti, per te. E intorno al tavolo con la tovaglia, rossa come la bandiera, i racconti di tutti si intrecciavano nella coloritura delle diverse inflessioni regionali. La mostra, che allora esibiva il sontuoso titolo “I Seicento Napoletani”, aveva esaltato i miei amici che non smettevano di parlarne. Tu ed io ci guardavamo sorridenti e orgogliosi quasi fosse merito nostro.
Se non della mostra, però, di quella straordinaria serata un po’ di merito ce l’avevamo. Tu, in special modo, che avevi avuto la fantastica idea di giocare il tempo e dichiarare il natale con due giorni d’anticipo. Io perché gli amici erano miei. L’indomani sarei partita con loro per un viaggio lungo e scomodo, di quelli che amano i giovani perché assomigliano ai loro sogni. Tu ti eri ormai adattato ad aggiustare la realtà, il quotidiano. Anche con qualche trucco, se necessario. Come avrei presto capito.
A volte penso che tu abbia accelerato il mio apprendistato di vita.
Non ne abbiamo mai parlato, ma mi piace pensare che anche tu ricordi il giorno esatto in cui, per caso, iniziasti il mio svezzamento.
Avevo quindici anni e durante le vacanze di natale venivo in ufficio da te a mettere in ordine l’archivio. Mi piaceva moltissimo condividere il tuo spazio fuori casa, anche se allora non l’avrei messa in questi termini. Mi comportavo con un certo sussiego, una specie di maschera per una ragazzina timida e impacciata. E, soprattutto, ansiosa di piacerti.
Tu eri proprio come il Che, sapevi esser duro senza mai perdere la tenerezza. Almeno è quello che amo ricordare. Mi insegnavi cose sempre con una certa impazienza, lasciando che mi arrangiassi da sola per colmare i buchi di informazioni che, a volte, minacciavano di risucchiarmi. Mi insegnasti una cosa fondamentale allora, ma oggi trascurata dall’uso comune: nell’ordine alfabetico i cognomi con “D apostrofo” precedono i “De”, i “Di” e tutte le altre versioni articolate. È buffo, ma mi viene in mente ogni volta che consulto un catalogo, uno schedario, un elenco del telefono.
Poi mi insegnasti qualcosa a cui non ero preparata.
In quei giorni l’ufficio era un delirio, il pubblico affollava il salone, gli impiegati, pre-computerizzati, dattiloscrivevano documenti su qualsiasi macchina disponibile, occupando tutte le scrivanie. Stavo entrando nella tua stanza, in cerca d’asilo, con il cassetto delle E / F da ordinare, quando ti sentii schioccare stupidi bacini nella cornetta del telefono. Un attimo dopo vidi le tue belle labbra sporgere dal riparo dei baffi alla ricerca di un insano contatto con la bachelite traforata. Davvero non so perché, ma neanche per un istante pensai che dall’altro capo del filo ci fosse mamma.
Forse perché sono di razza adulta, per quelli così l’età anagrafica conta poco.
Le E e le F furono scosse da un sussulto tellurico, inutile.
Per anni ho rimpianto di non aver cercato di ferirti almeno col rumore del cassetto lasciato cadere.
Lo tenni ben saldo, invece, e lo appoggiai su di una scrivania libera e, per tenere salda anche me, ti voltai le spalle. Il tuo silenzio, al momento e per sempre, mi fece capire che si trattava di un’altra lacuna che avrei dovuto riempire da sola.
Come quando, la sera della vigilia di natale, sfilasti da un pacco tra gli altri un bellissimo cardigan di lana spessa e morbida, azzurro e marrone. Ti serviva fargli fare l’ingresso ufficiale tra le tue cose, così lo presentasti come regalo dei colleghi d’ufficio.
Io, che ero stata presente allo scambio di doni della mattina, stavo imparando a tacere.
Quasi dieci anni dopo, saresti stato tu a dover tacere per me. Neanche tu mi sorridesti. Non c’era approvazione nel tuo silenzio più di quanta ce ne fosse nel mio, ormai annoso. Non una complicità, piuttosto una sobria solidarietà tra mostri dal volto umano. Sì, sorrido, naturalmente. Non ho mai pensato a te come ad un mostro, né mi sono mai sentita io così. Eppure, tecnicamente…
Ma no, una delle cose che ho imparato da te è stata considerare ogni persona come una forma geometricamente complessa, anche se, posti i tuoi rapporti con la geometria, tu non avresti mai usato questa espressione.
E, in realtà, su molti argomenti tu non hai usato nessuna espressione. Non di parole, almeno. Le parole, tra noi, erano per la politica, lo studio, il lavoro. Per il resto ci siamo comportati come un romanzo e il suo lettore. Tu lasciavi scorrere la tua vita sotto i miei occhi, allusioni alle zone d’ombra comprese, ed io ti leggevo. Con attenzione, con amore, con la curiosità di sapere come andavi a finire. E, magari, per similitudine, provare a immaginare come sarei andata a finire io. Tutte le molteplici io.
Da te ho imparato che è doveroso indignarsi, incazzarsi, combattere e onesto giudicare con parsimonia, preferibilmente, in via provvisoria. Ti sei battuto tutta la vita per non morire democristiano e poi hai voluto che a celebrare il mio matrimonio fosse il tuo amico democristiano. E io, ancora acerba di certezze giovanili, mi sorpresi a guardarmi e guardarvi commossi.
Ogni persona è tante persone e non dobbiamo mica prendercele tutte, né odiarle tutte, né per sempre, leggevo nelle tue azioni. E, soprattutto, non dobbiamo cercare di far stare ad ogni costo una persona dentro le parole che conosciamo.
Infine, credo che la cosa più importante che tu mi abbia insegnato, il vero segreto che mi hai svelato, sia stato il silenzio. Quel vuoto di parole dentro cui risuona la vita.
Se ti capita, papà, torna qualche volta.
Nel silenzio di un sogno, in una notte di natale.


Su Rosaria de Marco
ROSARIA DE MARCO è nata a Napoli nel 1959. È dottore di ricerca in Letterature romanze comparate e attualmente svolge un corso di lingua portoghese e uno su “Telenovelas brasiliane e identità nazionale” presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Ha tradotto dal portoghese racconti e poesie raccolti in varie pubblicazioni, e i romanzi Jornada de África di Manuel Alegre (Il Filo, 2010) e Mentre Salazar dormiva di D. Amaral (Cavallo di Ferro, 2013).

Ha pubblicato recensioni e articoli su riviste e in volumi collettanei e, nel 2012, il saggio Saramagico. Elementi e funzioni del fantastico nel romanzo filosofico di José Saramago (ETS), oltre a due titoli di narrativa: Il gioco della luna e del vento (oxp, 2006) e Blu oltremadre (Dante &Descartes, 2008).

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

L’altra faccia della telenovela brasiliana, di Rosaria de Marco (Fuori Collana, 2018)
Il gioco della luna e del vento, di Rosaria de Marco (I Coltelli, 2006)