Poesie | giovedì 7 febbraio 2008

Carlo Di Legge

La compassione e il nulla


Dopo che la disgrazia l’ebbe trovato (la sventura
annunciata) restò muto, in attesa che il tempo lavorasse.
Scrisse a volte, come venivano parole, cercando
e spiegando, forse per consentire
una risoluzione a se stesso. Ma non è concepibile che si
nasca, e non è spiegabile che si muoia.
Sentì lo smisurato farsi urgente e incombere sotto
l’aspetto di cielo. Sapeva che i turni vanno rispettati e
peraltro, come tutti, credeva di dover vivere. Attese
a familiari, semplici devozioni.
Ne diffidava, trovandosi nella devastazione, ma vi si
affidò.
La casa era ormai vuota. Dunque la svuotò.
La casa a cui apparteneva, l’aveva lasciata da tempo, ma
si avvide di lasciarla di nuovo.
E tutto era già accaduto.
Ma tentò di salvare significati nel corpo delle cose,
e, non badando a spese, conservò casa per qualche mese.
Le operazioni di trasporto dei grandi oggetti furono
affidate a estranei, che li fecero a pezzi.
Assisté alle distruzioni. Dentro ebbe sfasci e rovine.
Ma progettava di salvare il grande e il piccolo. Qualche
mobile dotato di personalità e di milioni di ricordi,
qualche piccolo oggetto, di altrettanta potenza.
Qualcosa, non volendo, andò perduto o rovinato nella
catastrofe.

Per custodire cose in una città lontana percorse
grandi distanze. Ogni giorno tornò, ordinava i resti,
selezionava, portava via.
Nelle stanze lo accompagnava l’eco dei passi. Guardava
da finestre e balconi. Gli tornavano prospettive di perdita.
Conservava ciò che non abbisogna di spazio; peraltro
quasi non distingueva più ciò ch’è materiale. Realizzava
sempre più la stranezza del consueto, e
l’autentico mistero del tempo.
Nella casa, si soffermava sempre per pochi secondi a
guardare il luogo del passaggio.
Qui fu deposto, fino agli
ultimi giorni,
un piccolo, fragile vaso di vetro, con qualche fiore. Poi fu
portato
con estrema cura
in salvo.
Gli ultimi pacchi si ammucchiarono nella stanza
d’ingresso.
In attesa di salvezza, gli ultimi quattro mobili. Salutò
la montagna e il mare. Volendo conservare
la possibilità di vederle, ancora fotografò le stanze vuote.

Nella sua casa, gli oggetti aumentavano. Divenne una
centrale operativa del ricordo. Si dedicò per breve tempo al
riordino dei documenti da conservare. Tutte le pratiche
furono risolte, gli adempimenti vennero sbrigati. La nuova
casa mutò per effetto dell’antica.
La mente ospitava dettagli tornati in essere.
Fu la volta del rame, dell’ottone, degli alluminî. Un’antica
caldaia fu ripulita e risplendeva nella luce, l’altra fu riposta
in attesa.
I catini smaltati venivano
richiesti da altri ma furono conservati. In quei giorni
l’inutile assunse una vera importanza.
La tinozza zincata in cui da piccolo faceva il bagno fu a sua
volta custodita, e il logoro cestino di vimini, che dicevano
culla dei primi giorni.
Operazione difficile e paziente, il riordino delle foto. Il
passato ribolliva e riemergeva, insidioso come sempre il tempo
che ritorna, un animale magico, un drago. Cercava di rabbonirlo,
parlandogli, ma restava in guardia. Le immagini gridavano e
tumultuavano. Qualunque aspetto, per quanto insignificante,
faceva resistenza e richiedeva considerazione e cura.
Dicevano: non puoi disfarti di me, io sono te: se mi distruggi,
anche tu svanirai (non poteva evitare di pensare che, peraltro,
quelle stesse cose gli potevano sopravvivere, purché altri
le curasse).
Una sera di quiete, le figure di sconosciuti lo riportarono
indietro, oltre il secolo. Trovò i nomi e li identificò. Alcune foto
resistevano. Guardò e confrontò. A volte si dichiararono, e
l’occhio cucì relazioni.
Una specie di ricompensa. Immagini perdute per sempre
tornavano. Incredibili attimi precedenti la sua nascita. Innocenti:
madre e padre, e le loro madri e i padri, palpitavano alla luce,
in una ingiallita parvenza, eppure in un loro attimo di vita.

Forse la vita, come per l’antico sapiente, è una processione
di figure in uno specchio.
Sospese il riordino delle foto.
Erano trascorsi più di due mesi.
Vide la compassione e il nulla. Stava forse entrando in
convalescenza.
Poté finalmente ammalarsi.


Gennaio 2008


Su Carlo Di Legge
È stato a lungo in Puglia ma è nato per puro caso a Salerno, poi ha trascorso gli anni a trasferirsi per l’Italia. Serba uno scrigno incantato del passato e inventa cattedrali benevole per l’avvenire. Spera di essere, in questo, come tutti. Negli ultimi tempi dice d’essersi iscritto alla scuola del presente. Scrive di filosofia, di tango e di poesia, è vero, bisogna ammetterlo.

Sulla rubrica Poesie
A volte c’è un bisogno di sospensione. Di densità diversa. Di tempo trasognato. Di spazio poco arredato. Di un posto delle fragole nell’anima. Di silenzi gentili che non sono di solitudine, ma di rade presenze discrete. A volte c’è un bisogno di sorpresa, di lampi improvvisi, accensioni impreviste. C’è un bisogno di respiro irregolare, di battito lento. Di ricerca segreta tra le pieghe del sogno e le unghie della realtà. A volte c’è un bisogno di attesa. Di ricordo. Di sguardo lontano, distante. Di confini indistinti, di profili scontornati, nuovi. A volte c’è un bisogno di poesia. In quest’angolo di rivista se ne trova di nuova, di inedita, di molto famosa, di nascosta, di quella che addolora e di quella che consola. Basta cercare. Basta aver voglia di scoprire parole segrete. Basta trovare un piccolo tempo anche per la poesia.

Sentire il tango argentino. Dieci lettere e una poesia, di Carlo Di Legge (Fuori Collana, 2011)
Il candore e il vento, di Carlo Di Legge (Fuori Collana, 2008)