Squarci | lunedì 12 dicembre 2005

Rosaria de Marco

Storie di pietra

Margherita segue con i polpastrelli una crepa nel muro di pietra della sua cella e con il pensiero quella dentro di lei.
Si sente al capolinea del proprio fallimento. Lontana da ideali, vuota di desideri. Nessuna speranza risuona in lei. Ha solo un amore piantato giusto al centro dell’anima. Un amore di cui porta la responsabilità, ma che ha vita propria e capelli scuri. Ha occhi nuovi e impazienza scontrosa. La sua assenza le fa male come fa male una gamba amputata.
Margherita potrebbe pensare infinite cose. Altre potrebbe ripensarle. Magari pentirsene o difenderle contro il tempo che le cambia, le trasfigura. Potrebbe leggere libri o lamentarsi di non poter che leggere libri. Ha tempo per qualsiasi cosa e pochissime cose per tutto questo tempo. E tutte troppo uguali. Ha troppa energia, troppo corpo per uno spazio così piccolo. Gambe troppo sane per questo vuoto di scale, di strade, di salite. L’attività inesausta delle sue cellule riempie di inutilità i pochi metri quadri di pietra in cui è rinchiusa.

Irene segue con i polpastrelli un’ipotesi lungo un muro di mattoni in tufo. Le sue dita hanno fiutato la traccia di un’incongruenza. Il cartellino con la descrizione rassicura i visitatori e placa le ansie classificatorie della soprintendenza. Ma lei è in buoni rapporti con il dubbio. È abituata alla tendenza della terra a nascondere, a confondere. Si ferma a pensarci. Le dita sospese su una fenditura segreta. La penombra degli scavi è una condizione estesa di miopia, una menomazione dell’abitudine che può essere compensata solo da un’attenzione interiore. Un’attenzione fluida, come un’acqua che si insinua tra le pietre e nella grana della terra, in profondità. E apre strade nuove, prospettive inverse, altri possibili. Bisogna solo darsi un tempo diverso. Essere capaci di pausa, di arresto.

Margherita ha il permesso di tenere il computer in cella. Il delitto per il quale è stata condannata è vecchio di venticinque anni e lei non è una criminale abituale, perciò non c’è pericolo che le sue e-mail infettino la società di fuori o tengano in caldo qualche complice. In ogni caso, questa storia del computer è una specie di privilegio, un’eccezione al regolamento che le permette di essere accompagnata ogni sera nell’ufficio della direttrice dove, per cinque minuti, può collegarsi a una presa del telefono e spedire e ricevere posta. Margherita non ha fatto niente per meritarsi questo trattamento di riguardo, non sorride, non regala pacchetti di sigarette, parla poco. In realtà continua a meravigliarsi di questa cosa ed è terrorizzata dall’idea che da un momento all’altro, per una recrudescenza di scrupolo procedurale, possano impedirle di comunicare con sua figlia. Quando entra nell’ufficio ha sempre l’aria di un animale randagio che fiuta il pericolo di un cambiamento di umore. La direttrice è a disagio, pensa che abbia poco senso mettere in carcere una donna dopo venticinque anni. Venticinque anni sono una generazione, è come condannare la figlia per l’omicidio commesso dalla madre. È condannare un’altra persona. E per di più, con certezze processuali che quasi a tutti sono sembrate insufficienti. Ma questi non sono pensieri convenienti alla direttrice di un carcere. Così le rivolge un sorriso asciutto, sempre lo stesso, falsamente impersonale. Poi svia lo sguardo, quella donna reclusa lì la fa sentire una carceriera, non una semplice funzionaria dello Stato.
«Che novità da sua figlia?».
«Cose di figli. I corsi all’università, gli esami…».
«E i ragazzi…».
«Già».
Invece, nelle e-mail non c’è quasi altro che una ripetizione ossessiva: «Chiedi la grazia». Margherita non risponde mai in maniera diretta. Le scrive a lungo, sugli argomenti più vari. A volte le trascrive intere poesie o frammenti densi con cui le parla di sé e, molto più spesso, di lei, del suo futuro.
«Perché continui a scrivermi di tutte le tue riflessioni politiche, le conosco a memoria, è una vita che te le sento ripetere, è tutta roba vecchia! Non vedi che non ci pensa più nessuno?».
«Hai ragione, non c’è nulla di nuovo, sono tutti pensieri che avevo. È che sto cercando di smettere».
«Tu stai smettendo di ragionare! Devi chiedere la grazia, mamma, che te ne importa di quello che significa e di cosa penseranno tutti? L’unica possibilità di uscire è chiedere la grazia. Devi farlo se ti importa di me».
«Sai bene che tu sei l’unica cosa al mondo di cui mi importi. È per questo che non posso farlo. “Nel cielo senza luce c’è un vago desiderio”».
«Non so che farmene delle tue poesie, mamma».
«Ti sbagli, figlia, la poesia serve. Sempre».

Intorno al carcere femminile la città batte il suo tempo incoerente. Il ritmo è quello irregolare della coesistenza di epoche diverse, mai archiviate nella solidità del passato. Bocche di terra si aprono all’improvviso a restituire vestigia di pietra che nuovi ponti di ferro e cemento cercano di occultare. Il traffico di auto invade ogni strada come una colata lavica. I mercati si aprono con le luci del giorno e si richiudono con il buio come il lento boccheggiare di un pesce eternamente agonico. I traghetti salpano dal porto per altrove troppo vicini e ritorni in giornata.
Due donne dagli occhi dello stesso colore camminano lungo le larghe curve del teatro romano, la più giovane distribuisce l’inquietudine sui gradini muovendo passi verticali. L’altra le racconta dell’anfiteatro.
«Fu fatto costruire da Vespasiano per ringraziare la città dell’appoggio offertogli contro il rivale Vitellio. È in opus reticulatum ed è il terzo in Italia per dimensioni…».
Tace. La confidenza con le pietre non l’ha resa meno sensibile agli umani. Prende per mano la ragazza che non si sorprende e si affida al suo corpo piangendo con rabbia.
«Perché si rifiuta di chiedere la grazia? Tu sei sua sorella, devi convincerla. Dimmi perché».
Ancora silenzio per qualche attimo. Poi:
«Per accostarti a un altro mondo, devi fermarti un attimo. Rallenta e poi fermati. So che non è facile alla tua età. È una cosa che si impara, se si impara, vivendo un po’ più a lungo di quanto abbia fatto tu finora».
Lei si scioglie dall’abbraccio della zia e corre per l’intero perimetro della cavea con furore mitologico. La donna dagli occhi uguali la guarda allontanarsi e poi tornare, si siede ad aspettare. Quando la ragazza la raggiunge, i suoi occhi sono asciutti. Le si siede accanto, senza fiato.
«Sono pronta adesso. Sono ferma».
«Ci sono grandi delusioni o grandi errori nella vita che possono farti perdere l’interesse verso te stessa».
La ragazza annuisce, ma Irene sa che è solo un gesto anticipato, un’intenzione di ascolto e niente di più.
«Tutti noi ci muoviamo nella vita come un compasso, facendo centro su noi stessi. E allarghiamo il braccio quanto basta a toccare le persone di cui ci importa».
La ragazza annuisce più lentamente, è assorta. Cerca di capire. La punta dell’indice sottile si insinua in una scanalatura della pietra, tra una striscia di muschio e un passato remoto.
«Alcuni provano ad allargare il raggio al massimo per includere nel cerchio della propria esistenza quanti più altri possibile. Sono quelli che fanno politica, quelli che ci credono. Quelli che hanno sogni in cui c’è spazio per tutti e dove tutti hanno uno spazio. Quelli a cui può capitare, quando si svegliano, di non trovare più il loro spazio».
La ragazza non annuisce più, forse comincia a capire.
«Tra questi ci sono quelli che hanno creduto alla giustizia come al modo migliore per stare insieme nello stesso cerchio, ma che sono caduti in un sogno sbagliato di violenza. E oggi tanto gli basta per accettare la punizione, anche se questa li colpisce per un errore della legge degli uomini. Per queste persone la giustizia non sta nei codici, ma in una certa coscienza di sé. Per qualcuno, la stupidità è una colpa immedicabile. Questa condanna era solo un castigo disponibile che Margherita ha adottato per il suo vero delitto. Forse per lei tutto è più chiaro che per noi. Nel “Mito di Sisifo”, a un certo punto, Camus dice “…capisco che si può voler morire perché più nulla ha importanza rispetto a una certa trasparenza della vita…”.
Margherita non è mai stata come la voleva qualcun altro, una madre, un marito, che so, un professore. Però è come se a un certo punto non fosse stata più neanche come si voleva lei. E forse ha visto questo in trasparenza, attraverso il cumulo d’anni, di persone, di oggetti, di fatti che ammassiamo per tutta la vita. Capisci?».
La ragazza guarda dritto in quegli occhi uguali ai suoi e piange, tranquillamente. No, non capisce, non si può a vent’anni. È solo nel suono delle parole che le sembra arrivino da un altro mondo che intuisce una spiegazione possibile. Questa nuova calma la sfibra, non smette di piangere.
Improvvisamente, il respiro della città si rompe in un singhiozzo di terra. I gradini dell’anfiteatro vibrano come tasti di uno xilofono spastico. Le cime dei pini ondeggiano senza vento. I palazzi oscillano per incertezza atavica, incapaci di decidere se resistere o cedere finalmente alla vertigine dell’abbandono. Un treno fermo in stazione si muove su un orizzonte instabile.
Un boato sordo, non si sa se d’acqua o di pietra, buca l’aria.
Il vecchio carcere borbonico partecipa al sabba tellurico spandendo intorno grosse briciole di sé. Le sbarre di metallo trattengono nella stessa misura le vecchie mura e le detenute. Strano a dirsi, ma qui, le voci della paura non sono urla. Le urla sono tutte all’esterno, nei mercati, nel porto, nelle case, nelle strade. Qui le donne sconfitte non si scompongono, non possono. Sono tutto quel che hanno. Le sorveglianti corrono ad aprire le celle per far scendere le detenute nel cortile, al sicuro. Margherita ha dimenticato il computer, torna indietro di corsa sfuggendo all’ordine della guardia che cerca di raggiungerla a distanza.
E la sua cella la colpisce con una grossa briciola di tufo che si stacca dal soffitto.

Irene è sul promontorio dell’antico quartiere svuotato da secoli di bradisismo e rinnovato da poco, in attesa di nuovi abitanti. Guarda lontano. Camus, compagno di inquietudine e solarità da tutta la vita, le accarezza l’anima. «Il mare mi porta la tranquillità di ciò che non muore». Ma neanche in questa tranquillità può trovare una sola, piccola risposta. Facciamo infinite cose nella nostra vita, ma sono gli sbagli che la segnano. Perché?

«Ho visto l’inferno laggiù e mi sarà permesso di possedere la verità in un’anima e un corpo».
Ma non sarà per questa volta. Non così semplicemente. Margherita è viva. Sdraiata sul letto dell’infermeria del carcere, guarda fuori, oltre il riquadro della finestra rigato di ferro. Dalla sua posizione può vedere solo l’azzurro immobile e indifferente del cielo. Almeno adesso il corpo le serve a rimarginare la ferita alla testa. Per poi farne cosa, non sa. Ma, in ogni modo, non tocca a lei decidere. È così che vanno le cose. E lei, se lo è già dimostrato, non può cambiarle. Non sa. Pensa a sua figlia, un po’ meno libera ogni giorno, costretta dall’assenza a pensare a sua madre infinitamente di più di quanto faccia una qualunque altra ragazza. Un arresto domiciliare sentimentale: può andare all’università, studiare, vedere gli amici, divertirsi, ma poi deve sempre ritornare al pensiero della madre in carcere. Il disordine delle madri ordina prima e diversamente la vita delle figlie. Margherita riconosce che sono strani questi pensieri che la attraversano. Fluidi. Piuttosto una corrente che veri e propri pensieri. È come se la sua mente si muovesse in uno spazio nuovo dove le abituali categorie hanno una densità diversa, diluite in soluzioni inaspettate. E sente di poter andar dietro a ogni rivolo di pensiero, alla ricerca di nuove, minute, verità provvisorie che cadenzino il tempo dilatato della riflessione privata del corpo. Fuori dai corpi le idee svaporano. Fuori dal carcere i corpi liberi svaporano in idee dure.
È un buon momento per addormentarsi.


Aprile 2005


Su Rosaria de Marco
ROSARIA DE MARCO è nata a Napoli nel 1959. È dottore di ricerca in Letterature romanze comparate e attualmente svolge un corso di lingua portoghese e uno su “Telenovelas brasiliane e identità nazionale” presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Ha tradotto dal portoghese racconti e poesie raccolti in varie pubblicazioni, e i romanzi Jornada de África di Manuel Alegre (Il Filo, 2010) e Mentre Salazar dormiva di D. Amaral (Cavallo di Ferro, 2013).

Ha pubblicato recensioni e articoli su riviste e in volumi collettanei e, nel 2012, il saggio Saramagico. Elementi e funzioni del fantastico nel romanzo filosofico di José Saramago (ETS), oltre a due titoli di narrativa: Il gioco della luna e del vento (oxp, 2006) e Blu oltremadre (Dante &Descartes, 2008).

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

L’altra faccia della telenovela brasiliana, di Rosaria de Marco (Fuori Collana, 2018)
Il gioco della luna e del vento, di Rosaria de Marco (I Coltelli, 2006)