Squarci | mercoledì 11 luglio 2018

Carlo Di Legge

Mistero d'evidenza

A volte mi alzo nel cuore della notte
e fermo tutti gli orologi.
Hofmannstahl



Non era la divinità, affatto, era
poco più di un sussurro alle prime pendici della collina,

era sul punto, su quella porta sempre difficile del sonno: e prese a dire:

ti descrivo
la vita d’ogni giorno, che nasce dall’impallidire dell’oscurità,
e di ogni notte, che si genera dallo sbiadire del giorno,
ti dico dell’ovvietà apparente dei giorni e delle notti, che viene a mancare
ai compagni andati
lungo la strada,
presto o tardi,
del comparire e dello scomparire, di chi va e di chi viene.

Ti porto
i luoghi visitati per lungo tempo, poi lasciati per nuova vita,
di nomadi attendati sulle carovaniere in attesa del buio;
dei deserti fioriti con la pioggia e di piazze affollate,
che sono deserti,
di città messe a ferro e fuoco, abbandonati relitti che affiorano,
tutte queste cose ti ricordo, nulla che tu già non debba sapere.

E poi non disse,
e pure mi giungeva, e non dormendo ascoltavo: sono
angolo di mondo, casuale
e prodigioso
evento d’atomi.

Dico di questa notte, in cui l’insonnia è ricompensa a sé stessa,
tormento di nascita,
spiaggia malferma a cui si affollano i versi
come un mare d’anime che invochino scrittura, come se scrivere fosse tornare
o restare,
e dico del tempo del silenzio.

Descrivo i giardini dove non si entra e da cui non si esce,

di come un nulla possa farsi distanza, come l’immenso si annienti,
ti dico: e, nell’immenso, dell’irrimediabile perdere,
dell’inatteso ritrovare e dell’essere ritrovato.

Il cuore sa il prodigio del mondo,
mistero d’evidenza, l’inganno necessario, continuità che appare ed essendo non è,
le figure della ruota che gira, del vettore che orienta, nulla
su cui non ti sia
interrogato.


Nulla che tu non sappia, ora: la bellezza e il dolore,
la ricerca di dio, l’evidenza del nascosto,
la ricerca dell’assenza,
le parallele incalcolabili delle parole e delle cose,
come innumerevoli stelle nel cielo terso della notte d’estate, o come
notte che nel lago si rispecchi.

E la notte si fece sovrana,
e l’eco si perse.



10 luglio 2018


Su Carlo Di Legge
È stato a lungo in Puglia ma è nato per puro caso a Salerno, poi ha trascorso gli anni a trasferirsi per l’Italia. Serba uno scrigno incantato del passato e inventa cattedrali benevole per l’avvenire. Spera di essere, in questo, come tutti. Negli ultimi tempi dice d’essersi iscritto alla scuola del presente. Scrive di filosofia, di tango e di poesia, è vero, bisogna ammetterlo.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Sentire il tango argentino. Dieci lettere e una poesia, di Carlo Di Legge (Fuori Collana, 2011)
Il candore e il vento, di Carlo Di Legge (Fuori Collana, 2008)