Raggiunsi rapidamente il Sentierone e imboccai via XX settembre. Era una giornata piovosa di metA? novembre e cominciava a fare freddo. Non ca??era molta gente per strada e io, come sempre in questi momenti di libertA?, in cui mi prendo davvero una piccola vacanza nel bel mezzo della settimana, mi sentivo una privilegiata: tutta Bergamo lavorava e io, invece, ero una signora sfaccendata e senza pensieri.
Ma qualcosa andA2 storto, una vetrina e un ricordo inopportuno, sempre in agguatoa?|non mi andava piA1 la??idea di una giornata tutta per me, di piccoli peccati veniali. Decisi di fare la spesa: niente peccati solo una buona organizzazione familiare, come si conviene a una vera sciura.
Mi diressi nel negozio di frutta e verdura biologica nella piazza. Una volta entrata mi guardai attorno, gli scaffali carichi di frutti, disposti in ordine, in bella mostra. Presi in mano una mela rossa e grande, la odorai ad occhi chiusi, aveva un profumo dolce e delicato, ne presi un chilo e aggiunsi tarocchi, mandarini - avevano le foglie attaccate e immaginai di bruciarle insieme alle bucce nel camino, la??aroma di agrumi si sarebbe diffuso nel salotto. Mi dirigevo alla cassa quando vidi dei fichi da??India.
Associo sempre i fichi da??India a una esperienza romantica di cui sono stata protagonista in Israele. Con quella strana armatura chiodata a difesa di una polpa dolcissima non so bene se sono una??allegoria di una femminilitA? nascosta e difficile da conquistare, e da far emergere, o della dolcezza virile, nascosta sotto modi bruschi, talvolta, e da certe asperitA? superficiali.
Una??allegoria di me o di lui?
Ne presi un cestino.
Una volta a casa portai la busta in cucina e cominciai a sistemare la frutta, ma arrivato il turno dei fichi da??India me ne venne una gran voglia. Una strana fame, fisica ed emotiva. Posai il cestino sul tavolo e presi un piatto, coltello e forchetta. Incisi la??armatura in due tratti longitudinali, uniti in cima e in fondo, ne staccai la placca larga, allargai le labbra di quella che mi sembrava una ferita umida e palpitante, vi affondai le dita e, staccatone il cuore polposo, lo portai alla bocca. Era dolcissimo. Ripetei lo stesso procedimento quattro volte.
Alla??Helena Rubinstein Muzeon avevo visto un film sulla vecchia piccola Tel Aviv in cui un ragazzino intraprendente offriva alla??amata, una ragazzina dalla??aria romantica, la polpa di un fico da??India dopo averlo sbucciato a mani nude. Anche a me era stata offerta ai margini di un vigneto poco distante da Latrun, mondata con la stessa modalitA?. Per un israeliano era la??allegoria della??amore: lo zabar si offriva alla??amata dolce e disarmato.
Quando eravamo stati alle Egadi avevo mangiato una gran quantitA? di fichi da??India e li aveva sbucciati tutti lui. La prima volta glielo avevo chiesto esplicitamente.
- Devo sbucciarteli io? Non mi sembra tanto difficile!
Mentre formulava quel commento, contro la mia eccessiva pigrizia o imbranataggine, procedeva a sbucciarlo e a porgermi la polpa, io la mangiai direttamente dalle sue mani, leccandogli e succhiandogli le dita. ContinuA2 cosA?? per tutto il tempo della vacanza, senza altri commenti.