Squarci | sabato 27 dicembre 2008

Licia Pizzi

Hervé

L’ho visto da lontano. Ne parlavano. Ma non sapevano bene cosa dire.
È arrivato in elicottero, come una stella del cinema.
Dicono che venisse spesso. Che vivesse lì.
Forse ero stato piccolo, ero stato dentro me stesso per troppo tempo per averci fatto attenzione, per ricordarmene.

Ho preso il motorino di mio fratello, e sono corso in fretta sul promontorio. Da lì vedevo la casa, da lì vedevo il mare.

Dove corri?

Non lo so, in realtà.
Il vento mi getta i capelli all’indietro. Mi sento come Orzowei. Da piccolo lo guardavamo sempre in tv, io e mio fratello. Sognavo di essere lui. Libero e forte. Ma soprattutto libero. E finalmente.
Corro da lui. A guardarlo dalla collina. Per spiarlo, per capire.

Non sarai mica frocio?

Mio fratello sorride e mi passa la mano tra i capelli. Mi sporca perché sta imbiancando un muro. Mi incazzo. Perché mi ha sporcato, soprattutto.
Lo dice ridendo, non lo pensa, non lo crede davvero. Lo dice perché tutti i giorni scendo al cantiere, ma non do mai una mano. Mi siedo in un posto all’ombra, un sedile di pietra arretrato verso il giardino, con le gambe aperte, fingendo una certa disinvoltura.
Non do mai una mano, mi limito ad osservare. Le braccia muscolose, o magre e dure, le schiene che sudano. Ascolto le parolacce e le battute sconce.
Guardo, ma in realtà sono sempre qui perché voglio il mio posto tra gli uomini. Voglio essere uno di loro, voglio che mi pensino come uno di loro. Lavoro, muscoli, mani ruvide.
Cerco di dimenticare i libri che ho letto. Le parole superflue che mi salgono alla bocca per descrivere concetti concreti, esili.
Sorrido con poca bocca per volta, quando mi chiamano. Guardo da un’altra parte quando mi guardano. Alcuni mi fissano addirittura. Mi esercito.

Ma da qualche giorno ho un piano diverso.
Scendo al cantiere. Faccio qualche giro ansioso, nervoso. Bevo qualche sorso dalle loro bottiglie di birra, cercando di ingaggiare una lotta di resistenza con me stesso. Frenare l’impazienza, una partita a scacchi col desiderio.
Sto imparando. Ho imparato.
Aspetto sempre la pausa pranzo, quando sono più rilassati, quando si siedono, e cominciano a scartare il cibo. Allora glielo chiedo.

Un’altra volta? Ma dove devi andare?

Ma non mi dice mai di no. Io e lui siamo cresciuti insieme. Ci separano otto anni. Mi protegge ancora. È lui mio padre.

Un giro, piccolo, qualche commissione.
Dico, faccio il vago.

Allora si avvicina, un’espressione di complicità.
Se hai bisogno di soldi, magari, non so…regali, ragazze che so… eh?
Dice, e mi fa l’occhiolino.

Siamo cresciuti insieme. È lui mio padre, in definitiva. Ma non sappiamo nulla l’uno dell’altro.

Metto in moto. Il suono dolce e datato del motore appena acceso mi dice che siamo pronti ad andare. Ad andare da lui.
Devo attraversare tutta l’isola.

Lo guardo da giorni.
Esce, cammina molto lentamente, come fosse di vetro. Ha un panama che solo un turista, uno straniero, potrebbe pensare di portare.
È malato. È trasparente. È vestito come un fantoccio, uno spaventapasseri.
Ogni volta che mette un boccone in bocca lo vedo soffocare.
C’è un altro uomo con lui. Lo veste, lo aiuta, lo porta sulle spalle nemmeno tanto possenti quando il terreno si fa troppo accidentato per lui. Vanno al mare.
Lo guarda. Ma non come faccio io.
Il viso, le ossa del cranio prominenti, le guance lisce e scavate. Gli occhi ancora più profondi, più scuri del loro colore naturale, infossati e remoti.
Mi avvicino ogni volta di qualche metro, scendo. La terra arida sotto le mie scarpe si disfa in tanti trucioli secchi che scendono verso l’acqua. La terra si sfalda come la mia vergogna. Sento il pericolo, sento l’urgenza rotolarmi giù tra la caviglia e il mare.
Sono sempre troppo lontano, talmente lontano che non riuscirà mai a vedermi.
O forse sì, e per questo mi riparo dietro i bassi arbusti di cui è disseminata la nostra distanza. Ogni volta uno diverso.
Quando il verde é meno fitto, resto fermo per ore. Il sole non mi spaventa più.

Ho chiesto un po’ in giro.

Chi è che fa che ha.

Con lo sguardo vago, la sigaretta sottile appesa alle labbra, spenta. Come tutti gli altri. Non voglio che ci siano differenze tra di noi. La domanda sarà una come tante.

Chi sa qualcosa, risponde

Viene da anni
È un frocio francese
È un frocio tedesco
Ha la sifilide
Ha il cancro
Ha una malattia da frocio
Dovranno bruciare la casa, dopo
Quando hanno i soldi, fanno quello che vogliono
Che te ne frega
Non ci va nessuno, nessuno ci mette più piede lì
Quell’altro frocio gli fa la spesa, gli fa…tutto…capisci?

Allora non chiedo più.
Sorrido alle loro parole, familiarizzo con il loro modo di fare ripetendo io stesso le loro frasi, con un accento finale in risalita, come un risucchio che indica Ho capito, lo so, che ci vuoi fare, è uno schifo.
Mi esercito sin da quando avevo undici anni. Mi viene naturale.

Non mi sono mai vestito da donna. Non mi sono mai truccato né ho indossato le scarpe di mia madre. Non ho mai odiato mio padre. Nemmeno dopo che se n’era andato. L’ho capito, in verità. Al posto suo avrei fatto lo stesso. Ho pensato spesso che fosse innaturale per uno come me, per uno a cui piacciono le cose che piacciono a me.
Ma cosa è naturale per uno come me.
Naturale.
L’Elba è naturale. C’è talmente tanta natura da soffocarmi, da farmi sentire un estraneo.
Da piccolo mia madre mi portava al mare per insegnarmi a nuotare. Urlavo, avevo paura dell’acqua. Gli scogli acuminati mi minacciavano. La sabbia grossa tra le dita mi straniva. Mio fratello ne rideva.
Col tempo ho imparato a fidarmi, ma mai a sentirmi a casa.
Ogni minuto che passa, rifiuto un po’ di più. Rifiuto il verde, rifiuto l’aria. Fumo per imbottirmi i polmoni di città.
La mia libertà è nel cemento, colate grigiastre che odorano di ospedale e metropoli. La mia libertà è nel rumore che stride con il silenzio di questa natura. Con le notti che vomitano stelle.

Eppure lui viene. Qui.
Lui ha vissuto la sua libertà. Viene qui per riposarsene, per risanarsi.
Scrive. Ha una macchina fotografica. Ha un videocamera.
Riprende tutto, riprende se stesso, soprattutto. È soddisfatto di riguardarsi, di sapere che esiste ancora, nonostante svanisca minuto dopo minuto. Nonostante la carne non esista più e la pelle si sbucci via dalle ossa. Deve essersi amato sopra ogni cosa.

L’altro gli porta dell’acqua. In silenzio. Gli porta del cibo. Lo guarda, ma ha uno sguardo troppo bruno che non riesco a decifrare.
Non lo guarda come lo guardo io.
Quegli abiti troppo larghi mi fanno pensare al suo torace, a come doveva essere, alle sue cosce prima della malattia.
Nelle sue mani si vede ancora come le avrebbe mosse per prendere una sigaretta e portarla alle labbra. Per accarezzare, per passarsele tra i capelli che gli cadono ora a ciuffi.

A casa, mimo i suoi gesti. Mimo la sua pesantezza nei movimenti, imito la sua deglutizione difficile. Il suo sorriso strabico. Mi fotografo con una vecchia polaroid, un regalo di compleanno.
L’effetto non è quello che mi aspetto. Sono troppo abbronzato, troppo vivente.
Non ritrovo la trasparenza, l’assenza di colore, il tratto flebile. Mi fotografo pensando a lui, ma non lo sono. La vita è ancora troppo lontana dal mio corpo. La libertà.
Mio fratello trova le foto.
Per una ragazza? Per Grazia, lo so che è lei. Dovresti sorridere di più, credo. Quest’aria incazzata non ti dona. O sono per il cinema? Artista…
Ride.
Rido anche io e gliele strappo di mano.

Torno di nuovo da lui. Torno tutti i giorni.
A volte aspetto per ore che esca. A volte lo fa a volte no.
Oggi c’è solo l’altro.
Sistema delle cose, rassetta, riempie delle buste. Forse stanno per partire.
A questo pensiero il mio cuore si ferma e poi batte sempre più forte e sempre più veloce. Mi siedo, per calmarmi mi accendo una sigaretta. Qualche zolla di terra rotola giù.
L’altro alza gli occhi e mi vede, forse la piccola frana, forse il fumo.
Mi vede. Stringe gli occhi per capire se mi conosce. Poi raddrizza il collo e mi fa cenno di scendere.
Io non mi muovo. Non so più muovermi.
Agita ancora il braccio, mi chiama.
Allora mi muovo. Mi alzo, mi scrollo la terra secca dai pantaloni di lino accartocciati. Spengo la sigaretta. Prendo tempo. Mi arrotolo le maniche della maglietta come solo Marlon Brando nei suoi film da bullo.
Alzo la mano e lo saluto. Giro le spalle.
Sento che mi chiama, ma che poi si trattiene. Il suono si ferma a metà, al centro della gola.
Dopo qualche passo mi giro e non c’è più. Continuo ad andarmene.
Me ne vado, rinuncio, come faccio sempre di fronte ad una cosa che voglio troppo ma che non so maneggiare.

Si è alzato il vento, ma il sole è ancora troppo caldo.
Accendo il motorino. Non penso, non mi muovo con fluidità.
Qualcuno mi prende per il braccio. La mano è calda e sudaticcia.
È l’altro. L’infermiere. Ha il fiatone. Deve essere venuto di corsa da una strada che non conosco per arrivare qui così in fretta.
Mi sorride. Si china e poggia le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
Ha un’aria simpatica. Anche lui è troppo abbronzato, troppo vivente come me.
Mi dice qualcosa in francese, suppongo.
Non capisco. Accendo un’altra sigaretta. Lo guardo scrollando il capo. Non emetto suono.
In un italiano morso, tagliato, mi chiede il mio nome.

Sante.

Mi chiede di ripetere

Ripeto SAN TE.

Lo ripete Santé, Santé un accento finale ridicolo. Ride e mi allunga la mano.
Marc.
Stringe troppo forte. Con tutti i muscoli del braccio e della mano.
Annuisco. Poi chiedo E lui?

Lui chi?
Lui, ripeto indicando la casa che ci guarda dal basso. Dal mare.

Ah, lui. Hervé.
Hervé Guibert. È uno scrittore. Veniamo da Parigi.
Fa la faccia triste, ma subito dimentica.

Non so ripetere il suo nome. Non so pronunciarlo. Ho paura di sbagliare.
Vorrei scriverlo da qualche parte, sulle mani, per non dimenticarlo subito.
Marc continua a parlare, ma io non posso più sentire le sue parole. Se stia facendo delle domande, se mi stia invitando da qualche parte più tardi, non lo so.
Ripeto il suo nome, il nome di lui, HervéHervéHervé HervéHervéHervé per non scordarmene.
Mi passo le mani nei capelli. HervéHervéHervé.
Saluto Marc, mentre ancora sta parlando. HervéHervéHervé.
E’ stupito. Io so già che non mi permetterebbe mai di scendere. Di arrivare alla casa. Di guardarlo.
Metto in moto. HervéHervéHervé.
La mia libertà. Il mio cemento ha un nome.
Due nomi.
Hervé.
Parigi.
Tre. Marc.

Tornando a casa vado piano. Tengo il motorino al minimo.
Per pensare. Per pensarci meglio.


Su Licia Pizzi
Classe 1974, è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel 1999 il racconto “L’amante” compare nella raccolta “Dall’asilo dell’invisibile”, pubblicata dall’associazione culturale “33,3 periodico” in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel 2004 il suo racconto “Insieme" partecipa alla collettiva “Televisione: Arma di DistrAzione di massa”, organizzata dal Goethe Institut in collaborazione con il Comune di Napoli. Scrive dunque, si occupa di cinema e viaggia. Di continuo.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Del fare e del disfare. Un preludio biografico, di Licia Pizzi (Fuori Collana, 2017)
Scrivi per me, di Licia Pizzi (I Coltelli, 2005)