Squarci | venerdì 11 novembre 2005

Licia Pizzi

Insieme

Insieme. Sempre insieme. Avevamo deciso tutto. Come doveva essere la nostra casa, come doveva essere la nostra vita. Io avevo scelto il colore delle pareti, lei quello delle mattonelle, io la consistenza delle porte, lei quella degli archi.

Insieme. Sempre insieme.

Decidemmo di trasferirci a ottobre, nel pieno del confortevole e intimo autunno, e portammo su al quarto piano tutte le nostre cose per guardare finalmente la vita dall’alto dei nostri balconi.

Quando fu il suo momento, ero annientato dal desiderio. Ne volevo uno bello, di un colore nuovo e antico insieme. Che ricordasse la mia infanzia ma che mi proiettasse in un avveniristico futuro. Volevo da lui quello che ero stato e quello che sarei diventato. Volevo lo specchio della mia vita, e volevo pagarlo a rate.

Lei non voleva venire. Mi disse:

Potrebbe sembrare che lo voglio anch’io, che lo abbiamo voluto insieme.

Le risposi:

Noi vogliamo tutto insieme.

Lei storse le labbra. Mi credette. Mi accompagnò.

Mi sentivo come un bambino al primo giorno di scuola.
Aspettativa. Eccitazione. Paura.
Dentro il negozio di elettrodomestici puntai presto il dito con fermezza.
Lui, il mio televisore era davanti a me. Avrei quasi detto che mi guardava.
Non so perché, mascherai la mia decisione con una domanda.

Che ne diresti di quello, mi sembra abbastanza adatto.

Dentro di me bruciavo di desiderio. Non capitava mai che mi sentissi così. Me ne vergognavo così tanto che abbassai persino gli occhi.
Da quando eravamo insieme lei e io cambiavo, e ogni giorno, e mi sentivo più forte, pensai.

Ma più forte e più in fretta e di più pensai:

Che non se ne accorga che non se ne accorga che non se ne accorga.

Mi guardò e sorrise, un po’ materna come quando sapeva di darmela vinta. Ma era uno dei nostri giochi, dopotutto.

Prendilo, è tuo. È nostro.

L’avrei voluto impacchettato, infiocchettato. Tra le mie braccia. Era il mio primo, il mio solo. Con quella faccia decrepita e un’anima nuova fiammante.

Schermo al plasma. Mi tremavano le cosce.

Ebbe il posto d’onore. La mia attenzione crescente, la parca benevolenza di lei.

Restavo incantato a guardarlo persino quando era spento, gli lanciavo occhiate d’intesa quando passavo da una stanza all’altra e ne incrociavo il profilo netto come una lama.
Avevo sempre più voglia di tornarmene a casa. In ufficio non facevo più gli straordinari, con gli amici trovavo più di una scusa per evitare il bicchiere della staffa.

Tutti malignavano, occhiolini e gomitate.

La ragazza lo tiene in pugno. Vedrai che adesso si sposa pure, magari in chiesa.

Risate e gomitate ancora.

Qualcuno mi prendeva pure per la nuca e mi fissava, occhi annacquati negli occhi come a dirmi durerà poco la favola, goditela finché puoi.

Io non badavo più a niente, a nessuno. Sapevo che la mia favola poteva essere eterna.

Con lui preferivo mettermi in libertà, e sapevo che a lui piaceva. Massimo comfort, si capisce.
Un pantaloncino e una maglietta e la nostra notte poteva cominciare. Era la notte che preferivo.
Guardavo di tutto, senza preferenze, senza distinzione, attraverso il suo sguardo pulito.
Non avevo mai visto niente di simile. Alta definizione, si capisce.

Poi smisi di uscire del tutto. Parlare mi stancava e mi annoiava a morte. I discorsi erano tutti già stati fatti, le parole già dette.
A lei, al mio ritorno dall’ufficio, quando la trovavo vestita e truccata, dicevo solo divertiti e a un certo punto non dissi nemmeno più quello.

Ora le cose sono cambiate. È passato un anno, ed è passato in fretta, e mi restano pochi confusi ricordi.
Noi due non stiamo più insieme, non facciamo più tutto insieme. Altri guardano la vita dall’alto dei nostri balconi al quarto piano.
Quella sera in cui se ne andò, aveva in mano le sue borse di pelle rossa lucida, il cappotto ripiegato sul braccio e le labbra morse.

Ascolta, me ne vado.

Le sue parole, milioni di parole, tutte quelle che conosceva, vorticavano nella stanza. Io ero sul divano, davanti allo schermo, inerte, con i miei calzoncini preferiti.
Il volume era alto ma la mia mano non si allungava verso il telecomando. Ero come paralizzato. Sarebbe bastato un attimo, un gesto. Mi persi tutto il discorso.

Quando venne la pubblicità, la tensione si abbassò. Mi rilassai quasi.
Potevo dedicarmi a raccogliere i frammenti di ciò che aveva appena detto, e ricomporli in frasi.
Voltai la testa piano verso di lei, cercando un sorriso convincente.


Su Licia Pizzi
Classe 1974, è laureata in Lingue e Civiltà Orientali presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel 1999 il racconto “L’amante” compare nella raccolta “Dall’asilo dell’invisibile”, pubblicata dall’associazione culturale “33,3 periodico” in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”. Nel 2004 il suo racconto “Insieme" partecipa alla collettiva “Televisione: Arma di DistrAzione di massa”, organizzata dal Goethe Institut in collaborazione con il Comune di Napoli. Scrive dunque, si occupa di cinema e viaggia. Di continuo.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Del fare e del disfare. Un preludio biografico, di Licia Pizzi (Fuori Collana, 2017)
Scrivi per me, di Licia Pizzi (I Coltelli, 2005)