Arianna Panza
Il vecchio professore
a??Mmmmma?|.. guarda lA?! No, non A?N lui. Ma dove sarA? finito?a?? Trachetetrachetetrachetetrac. a??Spero non sia morto. SarA? andato in vacanza. In pensione. Oh, eccolo. A? vivo!a??

Secondo giorno di pensione per il vecchio prof. Dopo quarant'anni in quel liceo, era finalmente andato in pensione; quarant'anni durante i quali aveva fatto sempre la stessa strada per arrivare a scuola...casa sua, Piazza Magenta, liceo. La Piazza era sempre stata per lui un passaggio; un passaggio che lo trasformava, la mattina come il pomeriggio, che gli faceva vivere cinque minuti di magia. E quindi quel giorno, il secondo giorno di pensione, non aveva resistito a passare comunque di lA?, non poteva evitare di farlo, troppo forte era il legame con quel percorso. PerciA2 si alzA2 alle sei in punto, come quando era ancora un giovane prof. (ma anche come quando era diventato "il Vecchio Prof.)" e cominciA2 a prepararsi. La sua routine mattutina era lunghissima. Dopo mezza??ora nel bagno si guardA2 allo specchio toccandosi i pelucchi rimasti dalla barba. Il suo riflesso sbilenco lo guardava male, quasi come se non fosse lui a controllarlo. Ca??era qualcosa di diverso che non tornava in quella??immagine. Non sopportava le sue spalle incassate nella schiena, il collo un po' storto, quella faccia seria che aveva davanti allo specchio. ChissA? quante volte lo avevano definito storto, sbilenco... era cosA??: alto, magro, con la faccia che spesso sembrava un po' rettangolare e le spalle, la schiena... sbilenche, appunto. Lui non sapeva neanche quando fosse diventato cosA??, da quel che ricordava lo era sempre stato. Comunque non aveva tempo per pensarci, e quindi...si arrendeva a quella strana caratteristica. Il professore, caduto in un turbine di pensieri, si diede uno schiaffetto sulla guancia, sbuffA2 e uscA?? di casa. Subito, immergendosi nella??aria pungente del mattino, il malumore che si era annidato in lui scomparve.

a??Ma non sappiamo come si chiama questo professore?a?? a??Non A?N importante. Lo chiameremo semplicemente a??Il Vecchio Prof."

Il Vecchio Prof. aveva una faccia diversa, gli mancavano parecchie cose, e inoltre non riusciva a respirare con quella mascherina sul naso. Quello che gli mancava di piA1 era la sua borsa di pelle, rigida, non troppo grande, che aveva sempre portato con sAc, caratterizzandolo: fin dal suo primo giorno in quel liceo. Per lui era come la borsa di Mary Poppins; ci metteva dentro di tutto, e i ragazzi sapevano bene che lA?? dentro il Prof. non teneva solo le loro carte, ma anche molte altre cose, ben piA1 importanti e segrete. La borsa di pelle era un simbolo per tutta la scuola, una cosa che inquietava e al tempo stesso rassicurava tutti. Il professore la portava dappertutto, come se con il suo aiuto potesse registrare quello che gli accadeva. Ecco, quel giorno, il secondo giorno di pensione, la borsa era rimasta a casa. Al suo posto, il Prof. teneva in mano una borsa di pezza comprata in un supermercato; era vuota, completamente vuota, come lui.

Una borsa vuota che aspettava di essere riempita. Ma il professore non sapeva ancora di cosa. Stava camminando nel vialetto di ghiaia accanto alla Chiesa. Osservava i ragazzi e tutte le persone che andavano e venivano, tutti con una direzione precisa, lo sguardo rivolto in avanti, e pensava che non voleva essere in pensione. PerchAc, poi? Mentre pensava a tutte queste cose sentA?? un fremito provenire dal terreno. AndA2 nel panico. PensA2 che fosse un terremoto, si pentA?? di non avere la borsa di pelle con sAc, pensA2 alle prove antisismiche del liceo, sentA?? la borsa appesantirsi, si calmA2. SentA?? una??altra scossa. E di nuovo, la scossa scatenA2 la stessa serie di azioni e pensieri. Il Vecchio Prof. andA2 avanti. a??Vecchio rimbambito che sono! Adesso ho anche le allucinazioni!a?? Stava per lasciare la Piazza per imboccare Corso Amedeo quando una??ultima scossa, piA1 forte delle altre, lo costrinse a fermarsi. a??Adesso basta. GiA1.a?? Si sedette su una panchina e chiuse gli occhi. Non appena si calmA2, accadde qualcosa di incredibile. Si sentA?? improvvisamente leggero, come se volasse, come se avesse bevuto litri e litri di Spritz (proprio lui, che mai aveva assaggiato un Campari!), come se fosse stavo svuotato da tutti i pensieri che aveva in testa. Allora capA?? che erano davvero tanti. E anche molto pesanti. Poi cominciA2 a galleggiare nel tempo, cosA??, svuotato da tutto, tranne che dal suo corpo. GalleggiA2 nel tempo e arrivA2 alla prima volta che aveva attraversato quella Piazza. Almeno quaranta??anni prima. La Piazza era giovane, come lui: anche un distratto si sarebbe accorto che era viva. Stessa cosa per sAc stesso: si rivide allegro, non ancora sbilenco (ah, allora lo era diventato!), rivide la sua borsa; sembrava leggerissima, quasi vuota. Vedeva questo giovane prof avviarsi al suo primo giorno di lavoro, e guardandosi, guardando la borsa, sentiva una fitta fortissima. Poi tutto divenne sfocato, il galleggiamento nel tempo stava finendo; vide sAc stesso chinarsi sul prato, esitare un momento, e poi tornare su con una margherita, la piA1 bella di tutte. Bianca, perfetta. La mise nella borsa. E il ricordo finA??.

Buio. Catapultato nel buio. Uno, due, tre secondi. Poi si riprese, ma aveva un fortissimo mal di testa. Si rialzA2 lentamente e riprese a camminare. Si sentiva meglio, ma aveva anche una terribile voglia di parlare. Allora cominciA2 a giocare con i pensieri piA1 leggeri di sempre: osservA2 una farfalla, calciA2 un legnetto caduto in terra, sorrise. Poi fece una cosa che da tre anni rimandava: sorrise convinto, facendole capire che era rivolto a lei, a una ragazzina con un trolley blu. E raccolse una margherita.

CominciA2 a correre, fortissimo, velocissimo, sempre di piA1, di piA1, di piA1... e cominciA2 a riempire la sua nuova borsa di pezza. RingraziA2 la Piazza, che gli aveva restituito i suoi ricordi nascosti. Adesso non si sarebbe fermato piA1.

Arianna Panza
- Il vecchio professore -
Carlo Di Legge
Le parole che non vengono dette
La??estremo autunno si veste di festa
e da??una tesa malinconia,
come se qualcosa dovesse nascere.

I giorni vengono e vanno,
noi non diciamo parole senza rimedio.
Non A?N per viltA?
che ogni pensiero si muove nella??aria e subito dilegua:
ma A?N perchAc, lo vedi, ogni furia tra noi si colora
di compassione.

Puoi esserne certa: quando quelle parole verranno dette,
sarA? tardi, eppure sembreranno premature, per sempre.
Quelle parole pensate tante volte
verrebbero da??improvviso,
improvvise come notte che nessun imbrunire addolcisca.

E, sebbene sappiamo tutte le ragioni, sarebbe senza motivo.

Ma, quando le parole saranno dette,
arderanno,
come ceppi nella??inverno che giunge,
e resterA? calore a lungo.


15.12.2014

Carlo Di Legge
- Le parole che non vengono dette -
Nicola Campanelli
Aurore boreali e anime danzanti
Da quando vivo a Berlino, seguo molto di più il ritmo naturale del tempo.
Qui non ci sono imposte, persiane o tapparelle a filtrare sole e rumori. Al mattino la luce invade le stanze della casa, e per me, che ho la finestra esposta ad est, subito comincia la giornata.

All’inizio non è stato semplice. Abituato a dormire nel buio più fitto, detestavo questa insana abitudine di svegliarsi come i galli. Nascondevo la testa sotto al cuscino oppure tiravo fin sopra al viso le coperte nel vano tentativo di restare al buio, ma né l’uno né l’altro rimedio serviva a molto. Una volta aperti gli occhi, non riuscivo più a dormire.

Questo mi ha spinto ad alzarmi sempre prima. Ho iniziato ad apprezzare l’aria frizzante del mattino presto e a scoprire la bellezza dei luoghi con le prime luci del giorno.

Ancora adesso ci sono volte in cui mentre vado in bici, sono colpito dalla striscia dorata che appare sull’acqua del canale o che ravviva il colore delle foglie del grande salice piangente sulla Paul-Lincke-Ufer, tanto da fermarmi sul ponte per farne una foto da inviare in Italia.

Non c’è da stupirsi, quindi, se in poco tempo abbia imparato ad amare questo risveglio così naturale.

Vivere in una città del nord ha cambiato decisamente le mie abitudini.
Finché ho vissuto in Italia, il fatto che ci fosse il sole o che facesse caldo, era una condizione alla quale non facevo un granché caso, ero abituato al cielo terso e al clima mite.

Ricordo, piuttosto, quanto mi infastidissero i giorni di pioggia che rendevano buio anche il mio umore.

A Berlino ho imparato a conservare il sorriso nonostante un acquazzone, a incantarmi quando la neve imbianca la città rendendola luminosa, sterminata e pulita, e a stupirmi quando un raggio di sole invernale spunta tra le nuvole.
Se inizialmente ridevo dei tedeschi che si riversano nei parchi e per le strade al primo sprazzo di luce, adesso sono proprio io a volare fuori di casa se solo il tempo lo permette.

Sembra un paradosso, ma i tedeschi mi stanno insegnando a vivere e a godere di più degli spazi aperti o di un breve momento di sole.

Adesso, malgrado la lontananza dal mare e dal panorama mozzafiato del golfo di Napoli, dal Vesuvio sino a Nisida e poi da Bagnoli sino a Capo Miseno, mi sento a più stretto contatto con la natura. Passeggio quasi tutti i giorni per i grandi parchi cittadini, respiro l’aria pulita e spesso fredda che ricordavo di montagna, sento i profumi e vedo i colori cambiare insieme alle stagioni.

In autunno, la luce è come sbiadita, il giallo del mattino o il rosso del tramonto perdono l’arroganza dei colori estivi. Anche l’acqua del canale sembra impigrirsi e scorrere più lenta. Le foglie ricoprono i viali di un tappeto anch’esso a volte giallo, altre rosso, per poi spegnersi in un malinconico color marrone che segna l’inizio dell’inverno.

Allora il sole sembra ancora più lontano e la luce arriva affaticata e neutra. Gli alberi diventano spogli e sembra che alzino in modo drammatico le loro braccia al cielo grigio.

Poi una mattina ti svegli e ogni cosa è ricoperta di neve. Tutto appare soffice e una luce bianca si irradia dalla terra verso il cielo. Il canale diventa una immobile lastra di ghiaccio e anche gli alberi perdono i loro spigoli in una spumosa chioma canuta.

E all’improvviso di nuovo le giornate iniziano a essere più lunghe, la luce diventa più calda e di nuovo i prati si riempiono dei colori delle coperte stese per i pic-nic o per prendere il sole. I profumi delle piante sono più penetranti e i cigni tornano numerosi a popolare il canale.


È solo da quando vivo a Berlino che mi sono reso conto in modo consapevole dell’importanza del sole, della luce, del calore. E se questa esigenza dipende in parte da una vera e propria necessità fisica (la luce del sole serve – per esempio – a sintetizzare la vitamina D), in parte si spiega pensando all’effetto che ha la luce – o la sua assenza – sul nostro umore.

Anche senza considerare patologie vere e proprie come i casi più gravi di meteoropatia, sono tantissime le persone i cui stati d’animo, in misura diversa, subiscono l’influenza delle variazioni del tempo.

Se alla vigilia del mio trasferimento ero terrorizzato dalle temperature glaciali del Nord Europa (non so se a Napoli il termometro sia mai andato sotto lo zero), una volta a Berlino ho scoperto che la cosa che più mi affligge è il buio, il fatto che per molti mesi la luce vada via troppo presto…

Il freddo, in realtà, è prevalentemente secco, ci si riscalda vestendosi con indumenti un po’ più pesanti, andando in bici o bevendo tea caldo o wodka.

Al freddo ci si abitua, si sopporta meglio di quel che pensassi.

In tal senso è sorprendente vedere come i bambini giochino nei KiTa (Kindergarten – giardini attrezzati per i bambini) anche d’inverno, come le persone vadano in bici durante tutto l’anno, e quanto i parchi siano pieni di persone anche con la neve più alta. Per me, oltretutto, la neve, sempre vista solo in cima al Vesuvio, come zucchero a velo su di un dolce, rappresenta una grande attrattiva. Quando iniziano a venir giù i primi fiocchi bianchi, mi entusiasmo e divento euforico senza ragione.

La luce, del resto, esprime e racchiude soltanto significati positivi.

La luce viene associata alla vita: “venire alla luce”, indica il cammino, è in contrapposizione al male.

Anche nella religione ha sempre avuto un significato fondamentale.

Basti pensare a Rha, la divinità più importante per gli antichi egizi, al culto di Helios per i greci e al Deus Sol Invictus del tardo impero per i romani.
La luce come simbolo del divino apre e chiude la Bibbia: “Sia luce! E luce fu. Dio vide che la luce era buona; e Dio separò la luce dalle tenebre… (Genesi 1:3-5) - “Non ci sarà più notte; non avranno bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio l’illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Apocalisse 22:5).

Ricordo di una gita scolastica in Sicilia, quando frequentavo il quinto ginnasio, durante la quale insieme a un piccolo gruppo di compagni di scuola, decisi di restare sveglio tutta la notte per vedere l’alba. Credo fosse il primo “viaggio” senza la mia famiglia, e proprio per questo, oltre che per l’età, lo vissi all’insegna degli eccessi e di quelle che ai tempi mi apparivano trasgressioni. Passare tutta la notte a scherzare, fumare e bere con i miei amici in attesa del mattino, era sicuramente in linea con lo spirito di quei giorni.

Sono sicuro che per diversi motivi mi fosse già capitato in più occasioni di vedere le primi luci del giorno, ma quella era la prima volta che lo decidevo con l’intenzione di goderne l’effetto.

Eravamo nella camera delle compagne con la stanza più lontana dalle orecchie dei professori che ci avevano accompagnato, il cui balcone dava direttamente sul lungomare di Letojanni, quando, dopo aver trascorso la notte condividendo racconti e vivendo qualche nuova esperienza da giovani e curiosi adolescenti, fummo finalmente sorpresi dalla luce prima pallida e lontana, poi sempre più calda e vicina di quel sole primaverile.

A differenza dei numerosissimi tramonti che, soprattutto d’estate, mi avevano sempre stregato, l’alba non riuscì a emozionarmi né a togliermi il fiato. Era troppo discreta e neutra per i miei gusti, una sinfonia in sordina. Non aveva i colori struggenti del tramonto quando il sole annega dolce nel mare; non aveva la gamma di rossi, gialli, arancioni e talvolta persino di rosa che colorano il cielo e si riflettono nelle nuvole all’imbrunire, ma soprattutto non aveva la potenza del crepuscolo dopo il tramonto, mancava della passione e della teatralità della luce rossa, sipario del giorno preludio della notte.

Dopo quell’occasione, mi è capitato di vedere l’alba tante altre volte, e sempre di più trovo interessanti le ombre e le atmosfere che talvolta si creano col sorgere del sole, ma ciò che apprezzo di più della luce mattutina è la sua gentilezza. Quei toni sbiaditi prima di caricarsi di energia e calore sembrano aver pietà delle mie notti tormentate e insonni.


Se amo il tramonto più dell’alba, a proposito di luce, di sicuro prediligo i colori caldi a quelli freddi.

Proprio per questo motivo, sebbene non abbia mai visto un’aurora boreale, posso immaginare che, una volta superato lo stupore e la meraviglia per un cielo dipinto a pennellate verdi, non mi piacerebbe svegliarmi ogni mattina in un paesaggio lunare da film di fantascienza.

Del resto, il fatto stesso che l’alba abbia questi colori soltanto al Polo, in alcune zone dei Paesi Scandinavi, del Canada o in Alaska, mi sembra ragione sufficiente a provare che la sensazione di freddo che mi provoca l’immagine dell’aurora boreale, non sia per nulla peregrina.

Quei fasci di luce verde, azzurri, a volte anche violacei o bianchi, li immagino più incredibili e più belli di qualsiasi fuoco d’artificio, ma come il più straordinario spettacolo, non possono ripetersi quotidianamente per non perdere la loro forza ipnotica.

Ovviamente sono pronto a ricredermi (l’esperienza mi ha dimostrato che talvolta la vita ti fa cambiare idea), ma credo che, se svegliarsi avvolti dalla luce verde sia una esperienza da non perdere, per conservarne la magia e il ricordo, l’esperienza debba restare circoscritta nel tempo.


In finlandese, l’aurora boreale si chiama revontulet ossia fuochi della volpe. Secondo un antico mito, sarebbe una volpe magica a dar vita all’aurora boreale.
La leggenda vuole che una volpe, correndo veloce fra le montagne imbiancate di neve, a un tratto si stancò di tener la coda alzata e l’abbassò. La coda, urtando la neve, a ogni passo provocava delle scintille che volando in alto verso il cielo diedero vita all’aurora boreale, o meglio, ai fuochi della volpe!

Gli Inuit, popolo del lungo inverno, ritengono che gli esseri umani abbiano due anime. Una è “il respiro della luce” e l'altra è l'anima vera e propria. Quando una persona muore, il “respiro della luce” scompare e l'anima giunge nell'aldilà. L'aurora boreale, per gli eschimesi, sarebbe provocata dalla danza dagli spiriti dei morti.

A me piace credere che siano le anime danzanti a colorare il cielo.

Nicola Campanelli
- Aurore boreali e anime danzanti -
Laura Canciani
CaducitA? e narrazione
Questo breve testo A?N tratto dalla parte conclusiva di una??autobiografia che sto portando a terminea?| A? dunque una??anticipazione, in cui si raccolgono le fila di un discorso di vita per trasformarle in una meditata consapevolezza o in una consapevole meditazione. Come si preferiscea?|
L. C.




La riflessione sulla caducitA? della vita incrocia e accomuna nel tempo e nello spazio interrogativi e percorsi di ricerca che riconducono a una??unica vera certezza.
La morte ci accompagna inesorabilmente, a??insonne e sorda, come un vizio assurdo o un vecchio rimorsoa??, diceva Pavese. Quando non mostra apertamente il proprio volto strappandoci gli affetti piA1 cari, si insinua nel corpo subdolamente per ricordarci il nostro destino.
Quale nitida e chiara teoria puA2 seguire la??uomo che procede incerto nella??oscuritA? del suo cammino? Quale saggezza sicura abbracciare per contrastare il dolore?
La logica sottrattiva, proposta nella spiritualitA? orientale e anche nella tradizione religiosa occidentale, tende a estinguere il desiderio, fonte di ogni sofferenza, opponendosi allo stile di vita che accumula e asseconda i piaceri terreni nella?? illusione di attutire la??inquietudine e il senso di precarietA?. Per sfuggire al pericolo della dispersione della??anima, rapita da miraggi apparentemente appaganti , si corre il rischio della chiusura in un freddo distacco, che blocchi ogni partecipazione emotiva. La paura del trapasso viene esorcizzata, senza che si aprano prospettive salvifiche convincenti.
Anche nel panorama culturale del a??900 non compaiono facili approdi, che schiudano veritA? e certezze. Di fronte alla??angoscia e al male di vivere si preferisce il silenzio, rotto solo dalla voce di chi cerca con lucida consapevolezza le ragioni profonde di tale disagio. E la religione, nata proprio in risposta al sentimento della caducitA?, perde i suoi contorni definiti, si trasforma in un flebile canto che consola: lenisce ma non salva dalla?? inesorabile destino.
Che cosa resta allora alla??uomo se non la possibilitA? di accogliere dignitosamente la propria pena, nella a??religiosaa?? fiducia che la vita abbia un valore intrinseco, nonostante tutto?
Quando il Dio della salvezza eterna sfuma nel regno della??immaginario, questa (mi) sembra una scelta accettabile.
A? possibile pensare percorsi di vita che, nella loro brevitA?, rimandino ancora a un senso di precarietA?, ma forse piA1 accettabile ? Che si configurino come espressione di una strategia oppositiva che spezzi la linea del dolore e aiuti a sopravvivere al meglio? Piccoli intervalli che diano respiro e sollievo alla??esistenza?
La??atteggiamento di fondo credo sia quello del viandante. Si cammina nelle tenebre, guidati da qualche stella o cometa; si illumina il percorso per qualche breve tratto e poi di nuovo torna il buio. Nella??attesa di una nuova luce che puA2 comparire finchAc ca??A?N vita.



Laura Canciani
- CaducitA? e narrazione -
Carlo Di Legge
Dicembre
Non A?N ancora inverno
ma la scarpata A?N piA1 ripida che mai.
SarA? duro, la??inverno.
Nebbia: un attimo,
un raggio appena tiepido di sole,
di nuovo nebbia.
Ca??A?N sempre qualcosa sul sentiero
di non voluto,
di non desiderato,
forse spietato. E pesa.
Come una colpa.
CiA2 cha??A?N stato, A?N andato,
quel che viene
sta nella terra nera.
Rallenta il passo, viaggiatore:
si vede poco:
piuttosto, ascolta la??eco.

10 dicembre 2013

Carlo Di Legge
- Dicembre -
Carlo Di Legge
Anniversario
Sei anni, sei crisantemi gialli,
stelle di pioggia.
La pianta di rose A?N ben viva,
Le radici sono al sicuro.

Sotto il cielo,
io stesso mi faccio radice,
il mio sangue scorre in altre vite.


Sa??avvicina la??inverno.
Nel cielo grigio, non uno spiraglio:
forse domani.
In quella??azzurro che immagino,
la mia libertA?.

La vita A?N dire: grazie.
La mia libertA?
A?N come un piccolo uccello
improvviso nel viale: veloce in aria,
tocca terra come una piuma.


30 novembre 2013

Carlo Di Legge
- Anniversario -
Carlo Di Legge
Sembra unita la sua storia
Le cose sembrano tornare,
Sembra unita la storia di mio padre,
a volte, alle vite di noi figli,
come una sorte che ci accompagna.
Neanche un mese
da che si seppe a??g il male lo fermA2.
Ricordo il dolore di mia madre,
i veloci giorni che seguirono.
Era dicembre, cinquanta??anni fa.
Qui, dove sono adesso,
medicine tossiche a litri
mi attraversano le membra, fermandosi ovunque;
le mie braccia sono livide da??aghi,
occhi elettronici scandagliano il mio corpo.
Anche ora A?N dicembre
ma nulla A?N identico a nulla
nella??ordine che allude e non si mostra.

Una severa parca in camice bianco mi ha detto:
a??g puoi farcela.


7. 12. 2012

Carlo Di Legge
- Sembra unita la sua storia -
Carlo Di Legge
Stanza di passaggi
Nella nostra stanza, siamo in tre.
Uno dorme da giorni sonni di morfina.
Le cellule maligne
ormai quasi inseparabili da lui
hanno preso le ossa e le carni.
La??altro sostiene le dosi terribili del farmaco
arancione.
A? migliorato di molto, in cento giorni.
Il suo lavoro stenta a??g la moglie
A?N sola con le cose.
Quando viene, discutono. A volte,
sommessamente, piangono.
LA? il dolore, qui
la speranza si alterna allo sconforto.

Essere qui, nel punto dei passaggi,
A?N vedere te stesso, e gli uomini,
come nuvole sospinte e scompigliate
dal vento.
Qualcuno passa di qui per andare,
altri resteranno.
PiA1 che il dolore, o la speranza,
sento la fratellanza.

7.12.2012

Carlo Di Legge
- Stanza di passaggi -
Carlo Di Legge
Il mio compagno
A? nella stanza, nel letto vicino alla finestra del balcone,
dal giorno del mio arrivo.
Si esprime a gesti fermi e solenni,
come un capo.
Un familiare A?N sempre accanto.

I primi giorni ha cercato di alzarsi, cadendo, imprecando
contro tutto.
Un amico muratore viene a raderlo, la sera.

Dorme ora in un mondo di sogni di morfina,
a volte lamentandosi;
forse sogna di quando, da piccolo,
costruiva aquiloni.

Giace il grande corpo abbandonato,
in cui sa?? aprono piaghe,
sotto i bracci metallici della chemio, dei lavaggi,
dei cateteri, nel caos da??interruttori e tubi,
di plastiche, infermieri e amici in visita.

Nella stanza accanto, una suora malata
a volte piange con la piccola voce bianca.

Sui tratti del volto, sovrapponi facilmente
il Cristo sofferente.
Vedi come le immagini sappiano di noi,
e come possa sollevarsi oltre la stanza da??ospedale
il compagno, che resta
qui, davanti a te.
Molta scelta non va??A?N: segui un messaggio di salvezza,
e unisciti ai fedeli, nella cappella in fondo a??g
oppure sostieni la??assurdo universo,
che qualche volta ti assale a??g e, in ogni caso, devi.

Trova un senso alle cose, che voli
come aquiloni.


Napoli, 7.12.2012

Carlo Di Legge
- Il mio compagno -
Carlo Di Legge
L'ospite
So che lui nei giorni fa progressi.
A lasciarlo fare,
sarebbe questione di tempo.
Non so quanto.
Ascolto qualunque trafittura del corpo,
combatto di posizione,
con signoria crescente dei tempi da??attesa,
ma anche da??assalto: arma bianca,
ferite, divaricatori,
sfrigolA??o, carne bruciata a??g
attacchi di chemio, a volontA?.
Vittima mansueta,
mi dispongo e ricompongo.
Qualche volta il dolore mi tocca.
PiA1 spesso, no.




16.12.2012

Carlo Di Legge
- L'ospite -
Mena Verderame
Natale di domani
Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade
Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi cosA??
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticataa?|

Quante volte Luca aveva letto quella poesia di Ungarettia?| quei versi accompagnavano i suoi pomeriggi di vigilia come un rituale svuotato della sua sacralitA?. Come quelle campane in un villaggio di contadini, che scandiscono inesorabilmente le ore di lavoro e gli attimi festivi, ma che hanno ormai un suono che si ascolta senza piA1 sentirlo.

A questo pensava Luca, in quel pomeriggio del 24, nella sua stanza al terzo piano, richiudendo il suo libro di poesie. Anche questa??anno aveva rispettato quel rito; anche stavolta aveva attraversato, con cuore dolente e con sguardo disincantato, le immagini disegnate da Ungaretti per descrivere il suo Natale. Ancora una volta, le aveva compitate nella propria animaa?| la stanchezza e il dolore del poeta erano anche suoi, la malinconia aveva steso sul suo capo un manto di ombre, nero come solo il cielo sa esserlo, e solo, paradossalmente, nelle notti da??estate.

Si sente inquieto e insoddisfatto. A? ancora davanti alla libreria dove ha riposto il suo compagno natalizio. Non riesce a muovere un passo. Le parole appena lette non gli sembrano quelle di sempre. Hanno il suono di una melodia lenta, e un ritmo monotono, come le cantilene che le mamme ripetono stancamente ai loro bambini per farli addormentare. Sempre le stesse, scandite quasi per abitudine, e senza ricordarne il significato.

Quella poesia, sempre bella, sempre struggente, sembra ora non bastargli piA1a?| Oggi la sua malinconia non ha voglia di rannicchiarsi accanto al focolare. Quel tepore renderebbe ancor piA1 fredde le sue mani senza riscaldarle. La sua stanchezza A?N ancora troppo viva per assomigliare alla quiete inerte di uno dei suoi oggetti, abbandonati sui mobili della sua stanza. PerchAc il suo dolore, non ancora sciolto, non si A?N perA2 ancora arreso.

Luca desidera tuffarsi in quel gomitolo di strade che finora sembravano soffocarloa?| Vuole perdersi in quelle serpentine di cemento, passeggiare con la sua malinconia. Non sarA? un modo per cancellarla, pensa, ma il mondo A?N sicuramente il luogo migliore in cui farla vivere. In quel momento, capisce che solo gli occhi freddi e scuri della malinconia possono restituirgli tutta la luminosa, calda e intensa bellezza della??esistere.

GiA1 in strada allora! Con la??ansia di vita che puA2 brillare cosA?? soltanto quando la??attesa A?N stata lunga, e quasi insperato il ritorno di un interesse vivo per ogni cosa. Respirando con intensitA? ogni effluvio che si spande tra la folla, che nel frattempo si A?N riversata fuori casa come un fiume impetuoso in cerca del suo mare. Quante luci, decorazioni, abeti vestiti a festa illuminano la piazza principale, e fanno la gioia di bambini che si scambiano doni, sognando che altri ne giungano da una slitta trainata da renne tintinnanti.

Canti natalizi che si susseguono ininterrottamente ritmano un tempo quasi sospeso. Agrifoglio, vischio e stelle di Natale ricoprono i davanzali delle finestre. Da ogni casa si spande un intenso profumo di dolci, mentre davanti alle chiese si preparano i ceppi per il fuoco che, crepitando, annuncerA? i vespri che celebrano la venuta del Figlio di Dio.

Tutto sembra rinascere davanti ai suoi occhi, tutto rinasce dentro i suoi occhi. Uno sguardo in cui si intrecciano candore e consapevolezza, la quiete del sempre uguale e il brivido della??ignoto, nostalgia del passato e fremito di futuro. Imparare ad essere al centro della vita, restando da essa distante di un passo: A?N il tema che scriveremo ogni giorno, ma che non finiremo mai.

Tra qualche ora sarA? Natalea?| e Natale A?N, soprattutto, una nascita, un venire alla luce, un affacciarsi alla vita, respirare una??aria nuova. Non A?N mai troppo tardi per farlo. Anzi, A?N questo il rituale da ripetere ogni giorno, per acuire lo sguardo, accendere la curiositA?, accrescere la meraviglia, e far battere il cuore piA1 forte. Abbiamo una??anima fatta di luce, non dobbiamo mai eclissarla a?|

SA??, ogni giornoa?| a cominciare, magari, dal (mio) Natale di domania?|.

Mena Verderame
- Natale di domani -
Carlo Di Legge
Trenta novembre
Sei vicino e lontano, qui e sempre altrove,
evidente e nascosto, assente atteso.
Posso pensarti influente ma inoperoso.
Nome innominabile, cifra della??indicibile.
Non materia, forse, ma anche ciA2 che chiamo materia,
perchAc vicino;
forse non spirito, ma, poichAc lo spirito ti domanda,
sei nella domanda.
Non spirito senza materia,
non vento senza spazio,
ma non la??uno nAc la??altra.
Gran dio: sei nel microscopico vivente
che comporta la domanda,
negli immensi spazi vuoti e freddi,
nei plessi umidi e ribollenti, nella??inospite
e nella??ospite,
nel respiro espansivo della??universo.
Devi essere certamente ovunque,
o posso pensare un luogo senza di te?
Nello spazio, ma senza direzioni,
e nelle direzioni senza spazio.

Come posso pensarti, posso sentirti.
Ti sento in emozione come ti avverto in pensiero,
ma non sei differenza,
e nAc emozione, nAc pensiero;
in tristezza e letizia ti sento, come in vita e morte,
e come dire che tu non sei bene nAc male,
eppure anche bene e male, insieme;
e bene e male sono nomi,
li diamo al mondo incessante e ambiguo.

Ma sei digrignare della belva che sa??avventa,
e sei ferocia,
e sei soccombere della vittima inerme,
e sei terrore.
Sei nello scellerato,
e nella??azione che combatte
la??uguale con la??uguale, nel nome del giusto:
perchAc nel pieno della??azione sei,
che scaccia la??ombra,
nella strage, nel fuoco che distrugge e purifica,
nelle grida contro i tuoi nomi,
eppure sei rifugio nella meditazione,
tregua che restituisce ombra alle cose,
azione e meditazione, insieme,
veloce cavalcatura e tenda,
e non la??una, nAc la??altra.
Sei la??onda che si solleva e si abbatte,
sei deserto che inaridisce,
sei veleno che sa??infiltra e paralizza;
e sei rifugio certo al sollevarsi della??onda,
o anche la??essere esposto,
o acqua che ristora, o non acqua,
ma la sete stessa, per eccellenza;
sei la??antidoto che salva, ma non veleno, nAc antidoto.
Dio paradosso, provvido e astratto,
non sempre ovunque nAc allo stesso modo,
eppure sempre identico,
poichAc operante, intimi ad alcuni il fare,
poichAc negligente e distratto, dici il non fare.
Calda prossimitA?, mi chiedi di amarti;
perchAc distanza, mi disponi al disamore.
Oppure, non amarti, nAc non amarti,
ma, a causa del non somigliarti, indichi
il dissomigliarti, la??ugual moneta.
Dio silenzioso e nascosto a??g niente ti si accosta,
eppure a te porta tutto ciA2 che lo spirito vede e ode.
Ti chiama nelle distanze,
dalla??alba alla notte che precede la??alba,
e non puA2 neanche cercarti.
Dio vicino e spesso dimenticato,
alla domanda risponde la??enigma,
ma il domandare insufficiente a rispondere
A?N tutto quel che ho;
sei qui, evidenza di povera gloria oscura,
ma cosA?? nascosto
che non posso neanche cercarti,
nonostante domandi di te.

Dio: non terra nella terra,
non aria dova??A?N la??aria, non forma dova??A?N forma,
ma forma della??informe,
non scrittura dova??A?N scrittura, nAc linguaggio,
eppure segno,
non nome eppure nome di tutti i nomi.
Con fervore ti cerco,
e nella mia stessa febbre ma??inganni: e mai ti colgo.


30.XI.2011

Carlo Di Legge
- Trenta novembre -
Roberto Caterina
I messaggeri degli Dei


I
messaggeri
degli Dei un tempo
giovani con i sandali d'oro
oppure aquile regali e maestose
oppure
cigniA?bianchissimi, colombe immacolate,
oggi
non piA1 vengono a comunicarci il nostro destino.
I fondi sono pochi e le divise sono logore e sdrucite, vistosamente
zoppicano i pennuti e hanno il respiro affannoso e le loro piume sono tutteA?
arruffate e sembrano tanti vecchietti lamentosi
che chiedono del pane toscano
poho hotto


Roberto Caterina
- I messaggeri degli Dei -
Lucia Vitelli
Dietro la porta d'oro
Corrono come nastri tra i capelli
i tuoi respiri.
In groppa a renne,
stelle di neve.
Dietro la porta color della??oro
sprofondiamo stagioni,
al tintinnio dei bracciali.

A? la??abisso profondo.

Voci si quietano
negli angoli dei corpi.
Un anno in ogni minuto,
la??azzurro si capovolge
al grigio della luna,
e la neve
al verde che canta.

Vorrei che le tue mani
ascrivessero
questi frammenti alla??eternitA?.

Ma le belle piume del marabA1
sono immobili nella??aria
ai biancori della??alba.

Lucia Vitelli
- Dietro la porta d'oro -
Lucia Vitelli
Solstizio d'inverno
Il solstizio da??inverno
ha intagliato un vascello
tra le rocce della montagna.
Con le stelle della sera
ne seguiamo la??orlo,
solitaria immanenza,
altitudine che dA? profilo al sogno.

Il tuo viso silenzioso rifugiato nel mio grembo
versa parole al gravido notturno.
Non odo il suono della voce,
nAc chiedo,
perchAc la mia vanitA?
non condizioni il dono che vorrei.

Margini di strada nei tuoi occhi di sabbia,
e pietre.
Si scava ogni giorno a mani nude
la??infinito, in altra forma.

Lucia Vitelli
- Solstizio d'inverno -
Carlo Di Legge
Anniversario
Da giorni diluvia.
Sono tornato al cimitero,
alla??ingresso principale, vicino ai binari,
e ho comprato fiori.
Avevo giA? notato i lavori in corso
guardando dal cancello.
Avevo visto uomini in tute giallo e arancio
fracassare muretti e tirar fuori dalla terra
i morti senza pace.
Alla tomba dei miei una patina nera era scesa
sulla pietra in verticale, quella con la loro foto.

So che due metri piA1 sotto e intorno
i morti sono tutti uguali
eppure ricerco ancora i segni distintivi della??amore
che ci lega.
Non ca??A?N una??anima,
qualcuno esce dalla cappella grande,
come mi rigiro A?N scomparso.

A sera torno alla chiesa del tuo funerale,
madre, passando per il viale sotto la casa che abitammo,
ancora uguale e vuota come per sortilegio.
Le persiane aperte a prendere aria
sui balconi senza le tue piante
e le stanze buie.

Il prete A?N lo stesso, prossimo e cordiale.
Oggi sono tre anni e per me molti di piA1.
Ancha??io ho cominciato a seppellire morti senza riuscirvi.

Attraverso ancora i luoghi e mi guardo intorno.



30.XI.2010

Carlo Di Legge
- Anniversario -
Licia Pizzi
HervAc
La??ho visto da lontano. Ne parlavano. Ma non sapevano bene cosa dire.
A? arrivato in elicottero, come una stella del cinema.
Dicono che venisse spesso. Che vivesse lA??.
Forse ero stato piccolo, ero stato dentro me stesso per troppo tempo per averci fatto attenzione, per ricordarmene.

Ho preso il motorino di mio fratello, e sono corso in fretta sul promontorio. Da lA?? vedevo la casa, da lA?? vedevo il mare.

Dove corri?

Non lo so, in realtA?.
Il vento mi getta i capelli alla??indietro. Mi sento come Orzowei. Da piccolo lo guardavamo sempre in tv, io e mio fratello. Sognavo di essere lui. Libero e forte. Ma soprattutto libero. E finalmente.
Corro da lui. A guardarlo dalla collina. Per spiarlo, per capire.

Non sarai mica frocio?

Mio fratello sorride e mi passa la mano tra i capelli. Mi sporca perchAc sta imbiancando un muro. Mi incazzo. PerchAc mi ha sporcato, soprattutto.
Lo dice ridendo, non lo pensa, non lo crede davvero. Lo dice perchAc tutti i giorni scendo al cantiere, ma non do mai una mano. Mi siedo in un posto alla??ombra, un sedile di pietra arretrato verso il giardino, con le gambe aperte, fingendo una certa disinvoltura.
Non do mai una mano, mi limito ad osservare. Le braccia muscolose, o magre e dure, le schiene che sudano. Ascolto le parolacce e le battute sconce.
Guardo, ma in realtA? sono sempre qui perchAc voglio il mio posto tra gli uomini. Voglio essere uno di loro, voglio che mi pensino come uno di loro. Lavoro, muscoli, mani ruvide.
Cerco di dimenticare i libri che ho letto. Le parole superflue che mi salgono alla bocca per descrivere concetti concreti, esili.
Sorrido con poca bocca per volta, quando mi chiamano. Guardo da una??altra parte quando mi guardano. Alcuni mi fissano addirittura. Mi esercito.

Ma da qualche giorno ho un piano diverso.
Scendo al cantiere. Faccio qualche giro ansioso, nervoso. Bevo qualche sorso dalle loro bottiglie di birra, cercando di ingaggiare una lotta di resistenza con me stesso. Frenare la??impazienza, una partita a scacchi col desiderio.
Sto imparando. Ho imparato.
Aspetto sempre la pausa pranzo, quando sono piA1 rilassati, quando si siedono, e cominciano a scartare il cibo. Allora glielo chiedo.

Una??altra volta? Ma dove devi andare?

Ma non mi dice mai di no. Io e lui siamo cresciuti insieme. Ci separano otto anni. Mi protegge ancora. A? lui mio padre.

Un giro, piccolo, qualche commissione.
Dico, faccio il vago.

Allora si avvicina, una??espressione di complicitA?.
Se hai bisogno di soldi, magari, non soa?|regali, ragazze che soa?| eh?
Dice, e mi fa la??occhiolino.

Siamo cresciuti insieme. A? lui mio padre, in definitiva. Ma non sappiamo nulla la??uno della??altro.

Metto in moto. Il suono dolce e datato del motore appena acceso mi dice che siamo pronti ad andare. Ad andare da lui.
Devo attraversare tutta la??isola.

Lo guardo da giorni.
Esce, cammina molto lentamente, come fosse di vetro. Ha un panama che solo un turista, uno straniero, potrebbe pensare di portare.
A? malato. A? trasparente. A? vestito come un fantoccio, uno spaventapasseri.
Ogni volta che mette un boccone in bocca lo vedo soffocare.
Ca??A?N un altro uomo con lui. Lo veste, lo aiuta, lo porta sulle spalle nemmeno tanto possenti quando il terreno si fa troppo accidentato per lui. Vanno al mare.
Lo guarda. Ma non come faccio io.
Il viso, le ossa del cranio prominenti, le guance lisce e scavate. Gli occhi ancora piA1 profondi, piA1 scuri del loro colore naturale, infossati e remoti.
Mi avvicino ogni volta di qualche metro, scendo. La terra arida sotto le mie scarpe si disfa in tanti trucioli secchi che scendono verso la??acqua. La terra si sfalda come la mia vergogna. Sento il pericolo, sento la??urgenza rotolarmi giA1 tra la caviglia e il mare.
Sono sempre troppo lontano, talmente lontano che non riuscirA? mai a vedermi.
O forse sA??, e per questo mi riparo dietro i bassi arbusti di cui A?N disseminata la nostra distanza. Ogni volta uno diverso.
Quando il verde Ac meno fitto, resto fermo per ore. Il sole non mi spaventa piA1.

Ho chiesto un poa?? in giro.

Chi A?N che fa che ha.

Con lo sguardo vago, la sigaretta sottile appesa alle labbra, spenta. Come tutti gli altri. Non voglio che ci siano differenze tra di noi. La domanda sarA? una come tante.

Chi sa qualcosa, risponde

Viene da anni
A? un frocio francese
A? un frocio tedesco
Ha la sifilide
Ha il cancro
Ha una malattia da frocio
Dovranno bruciare la casa, dopo
Quando hanno i soldi, fanno quello che vogliono
Che te ne frega
Non ci va nessuno, nessuno ci mette piA1 piede lA??
Quella??altro frocio gli fa la spesa, gli faa?|tuttoa?|capisci?

Allora non chiedo piA1.
Sorrido alle loro parole, familiarizzo con il loro modo di fare ripetendo io stesso le loro frasi, con un accento finale in risalita, come un risucchio che indica Ho capito, lo so, che ci vuoi fare, A?N uno schifo.
Mi esercito sin da quando avevo undici anni. Mi viene naturale.

Non mi sono mai vestito da donna. Non mi sono mai truccato nAc ho indossato le scarpe di mia madre. Non ho mai odiato mio padre. Nemmeno dopo che se na??era andato. La??ho capito, in veritA?. Al posto suo avrei fatto lo stesso. Ho pensato spesso che fosse innaturale per uno come me, per uno a cui piacciono le cose che piacciono a me.
Ma cosa A?N naturale per uno come me.
Naturale.
La??Elba A?N naturale. Ca??A?N talmente tanta natura da soffocarmi, da farmi sentire un estraneo.
Da piccolo mia madre mi portava al mare per insegnarmi a nuotare. Urlavo, avevo paura della??acqua. Gli scogli acuminati mi minacciavano. La sabbia grossa tra le dita mi straniva. Mio fratello ne rideva.
Col tempo ho imparato a fidarmi, ma mai a sentirmi a casa.
Ogni minuto che passa, rifiuto un poa?? di piA1. Rifiuto il verde, rifiuto la??aria. Fumo per imbottirmi i polmoni di cittA?.
La mia libertA? A?N nel cemento, colate grigiastre che odorano di ospedale e metropoli. La mia libertA? A?N nel rumore che stride con il silenzio di questa natura. Con le notti che vomitano stelle.

Eppure lui viene. Qui.
Lui ha vissuto la sua libertA?. Viene qui per riposarsene, per risanarsi.
Scrive. Ha una macchina fotografica. Ha un videocamera.
Riprende tutto, riprende se stesso, soprattutto. A? soddisfatto di riguardarsi, di sapere che esiste ancora, nonostante svanisca minuto dopo minuto. Nonostante la carne non esista piA1 e la pelle si sbucci via dalle ossa. Deve essersi amato sopra ogni cosa.

La??altro gli porta della??acqua. In silenzio. Gli porta del cibo. Lo guarda, ma ha uno sguardo troppo bruno che non riesco a decifrare.
Non lo guarda come lo guardo io.
Quegli abiti troppo larghi mi fanno pensare al suo torace, a come doveva essere, alle sue cosce prima della malattia.
Nelle sue mani si vede ancora come le avrebbe mosse per prendere una sigaretta e portarla alle labbra. Per accarezzare, per passarsele tra i capelli che gli cadono ora a ciuffi.

A casa, mimo i suoi gesti. Mimo la sua pesantezza nei movimenti, imito la sua deglutizione difficile. Il suo sorriso strabico. Mi fotografo con una vecchia polaroid, un regalo di compleanno.
La??effetto non A?N quello che mi aspetto. Sono troppo abbronzato, troppo vivente.
Non ritrovo la trasparenza, la??assenza di colore, il tratto flebile. Mi fotografo pensando a lui, ma non lo sono. La vita A?N ancora troppo lontana dal mio corpo. La libertA?.
Mio fratello trova le foto.
Per una ragazza? Per Grazia, lo so che A?N lei. Dovresti sorridere di piA1, credo. Questa??aria incazzata non ti dona. O sono per il cinema? Artistaa?|
Ride.
Rido anche io e gliele strappo di mano.

Torno di nuovo da lui. Torno tutti i giorni.
A volte aspetto per ore che esca. A volte lo fa a volte no.
Oggi ca??A?N solo la??altro.
Sistema delle cose, rassetta, riempie delle buste. Forse stanno per partire.
A questo pensiero il mio cuore si ferma e poi batte sempre piA1 forte e sempre piA1 veloce. Mi siedo, per calmarmi mi accendo una sigaretta. Qualche zolla di terra rotola giA1.
La??altro alza gli occhi e mi vede, forse la piccola frana, forse il fumo.
Mi vede. Stringe gli occhi per capire se mi conosce. Poi raddrizza il collo e mi fa cenno di scendere.
Io non mi muovo. Non so piA1 muovermi.
Agita ancora il braccio, mi chiama.
Allora mi muovo. Mi alzo, mi scrollo la terra secca dai pantaloni di lino accartocciati. Spengo la sigaretta. Prendo tempo. Mi arrotolo le maniche della maglietta come solo Marlon Brando nei suoi film da bullo.
Alzo la mano e lo saluto. Giro le spalle.
Sento che mi chiama, ma che poi si trattiene. Il suono si ferma a metA?, al centro della gola.
Dopo qualche passo mi giro e non ca??A?N piA1. Continuo ad andarmene.
Me ne vado, rinuncio, come faccio sempre di fronte ad una cosa che voglio troppo ma che non so maneggiare.

Si A?N alzato il vento, ma il sole A?N ancora troppo caldo.
Accendo il motorino. Non penso, non mi muovo con fluiditA?.
Qualcuno mi prende per il braccio. La mano A?N calda e sudaticcia.
A? la??altro. La??infermiere. Ha il fiatone. Deve essere venuto di corsa da una strada che non conosco per arrivare qui cosA?? in fretta.
Mi sorride. Si china e poggia le mani sulle ginocchia per riprendere fiato.
Ha una??aria simpatica. Anche lui A?N troppo abbronzato, troppo vivente come me.
Mi dice qualcosa in francese, suppongo.
Non capisco. Accendo una??altra sigaretta. Lo guardo scrollando il capo. Non emetto suono.
In un italiano morso, tagliato, mi chiede il mio nome.

Sante.

Mi chiede di ripetere

Ripeto SAN TE.

Lo ripete SantAc, SantAc un accento finale ridicolo. Ride e mi allunga la mano.
Marc.
Stringe troppo forte. Con tutti i muscoli del braccio e della mano.
Annuisco. Poi chiedo E lui?

Lui chi?
Lui, ripeto indicando la casa che ci guarda dal basso. Dal mare.

Ah, lui. HervAc.
HervAc Guibert. A? uno scrittore. Veniamo da Parigi.
Fa la faccia triste, ma subito dimentica.

Non so ripetere il suo nome. Non so pronunciarlo. Ho paura di sbagliare.
Vorrei scriverlo da qualche parte, sulle mani, per non dimenticarlo subito.
Marc continua a parlare, ma io non posso piA1 sentire le sue parole. Se stia facendo delle domande, se mi stia invitando da qualche parte piA1 tardi, non lo so.
Ripeto il suo nome, il nome di lui, HervAcHervAcHervAc HervAcHervAcHervAc per non scordarmene.
Mi passo le mani nei capelli. HervAcHervAcHervAc.
Saluto Marc, mentre ancora sta parlando. HervAcHervAcHervAc.
Ea?? stupito. Io so giA? che non mi permetterebbe mai di scendere. Di arrivare alla casa. Di guardarlo.
Metto in moto. HervAcHervAcHervAc.
La mia libertA?. Il mio cemento ha un nome.
Due nomi.
HervAc.
Parigi.
Tre. Marc.

Tornando a casa vado piano. Tengo il motorino al minimo.
Per pensare. Per pensarci meglio.

Licia Pizzi
- HervAc -
Carlo Di Legge
Per un attimo la tua figura
A volte, passo vicino alla casa di un tempo.

Fermavo l'auto, poi percorrevo il vialetto. Salivo

le scale buie. So

che la casa A?N disabitata, come un corpo senz'anima.

La strada, i luoghi, sono intatti.

Mi aspetto per un attimo che la tua figura

bianca e curva

appaia, lenta nella salita.

Questo luogo A?N un vuoto, una

mancanza.

Insieme, mi assale il ricordo di quella

tua umile fierezza,

che consisteva nel non chiedere.

Un anno dopo, so che eri la mia stessa vita.

Mi sembrano sempre impossibili

il tuo viso freddo,

il saluto definitivo.

CosA?? vanno le cose, naturalmente, e non

eri tu, era la morte.

Ti so presente,

e non posso piA1 incontrarti al mondo.




Nocera Inferiore, 30.11.2008


Carlo Di Legge
- Per un attimo la tua figura -
Carlo Di Legge
Riscrittura (scritture, cancellature)
FA? come l'universo, se vuoi, nel tuo

minuscolo universo. Nei registri della vita,

decide l'istante. Tu stesso puoi,

nell'istante, riscrivere le cose: allora, un convento a

mezza costa

ali e vele dispiega nella notte e sfolgoranti finestroni

di prora; all'alba, il galeone si cancella.

Ma ora non sei tu: non so chi scrive l'ora,

che la brughiera A?N gialla, il cielo cupo azzurro,

nAc si ripete

questa luce perdibile dell'ora.



Non A?N nube, per quanto

fitta, che non dilegui, davanti alle ferme

montagne - la realtA? A?N un trascorrere di nuvole, sulle

montagne ferme,

e peraltro non puoi

pensare montagna che non scorra,

cancellandosi (consistenza di fumo, la roccia,

piA1 forte A?N la scrittura).

Il corpo, una serie di scritture,

in cerca d'esegeta. Ogni scrittura A?N palinsesto di antichi

materiali.


Inquieti

e vivi sono gli universi. L'amore scrive, la

morte cancella.






Nocera Inferiore, 25.11.2008


Carlo Di Legge
- Riscrittura (scritture, cancellature) -
Lucia Vitelli
Inverno
A? il primo sabato di dicembre.
Nella??aria,
la gelata della notte.
- Non essere triste - cosA?? hai sussurrato
prima di sgocciolare la??inverno.

Tutto puA2 essere spiegabile, basta scoprirsi
un poa?? indovini, leggere segni,
abituarsi alla??affannoso saliscendi di scale
climatiche. Nivali, temperate, mediterranee..
Stagioni e gradi,
corrispondenza di terra e mutamenti.

NAc bene. NAc male. Non vediamo con
gli occhi ciA2 che sappiamo.
La??inverno umilia, e allo stesso dona vita.

A? il primo sabato di dicembre.
Nella??aria,
la collera effondo liberamente. Io appartengo
al mondo.

Lucia Vitelli
- Inverno -
Lucia Vitelli
La??esame
Riordino pensieri
che mi abitano da anni.
Radici, ancorea?|
Ma il disegno A?N confuso.
Fantasmi vecchi e nuovi
premono dietro porte chiuse.

Contraccambio ogni sillaba,
ma le mie parole
non rispondono
al desiderio della??altro.

Uso qualche erre in piA1.
Penso al rosso del rossetto,
forse troppo volgare.
Una imperfezione puA2 bastare
per non essere
alla??altezza della??esame.

PuA2 consolare
la??illusoria filosofia,
non so di chi, che
la vita deva??essere leggera?

E tuttavia,
senza pensarci troppo su,
la vita uccide.

Lucia Vitelli
- La??esame -
Carlo Di Legge
Dicembre
Il melograno A?N giallo, sembra secco.

Strada di pietre nere levigate, altissime
arcate. Il cielo A?N azzurro e
terso, la??isola si taglia
nel mare da??oro, il lago parla.

Dolce e gelido cielo, neancha??io so
cosa fare di ciA2 che mi
viene: mi limito a ricevere, raccolgo.
Le figure sono come porte chiuse.
La??antica strada conduce alle parole, le
parole sono chiavi.

Delle tue strade, nessuna porta a me.
La
chiave delle chiavi non si trova.
Sei remota e presente come il lago, e
la??arco.
Necessaria e cruda come un mito.

Raccolgo figure, le lascio
riposare. Non mi do pena: questa terra
A?N potente. Poi
pensieri su pensieri
gettano radici su radici
nel ventre freddo e gonfio di dicembre.



Cuma, dicembre 2006

Carlo Di Legge
- Dicembre -
Carlo Di Legge
Per la tua mente che non riposa
Penso a te perchAc gioisci di me,
ti rattristi per me. Per il sortilegio della vicinanza,
per la??abissale differenza.
Per la tua rabbia, la discrezione, gli
appuntamenti rinviati per me. PerchAc
non ti sento mia nAc puoi esserlo.
Per i regali, per le sorprese, per la
tua mente che non riposa.
PerchAc di niente sono certo, ma del tuo amore
potrei.

Dicembre 2006

Carlo Di Legge
- Per la tua mente che non riposa -
Carlo Di Legge
Vita
Cose da nulla sorreggono la vita. CosA?? gusti
la vita: come se fossi nato ieri. Conserva il
bambino, cura la??uomo: la??uno e la??altro, insieme.
Alfabeti e nuove lingue, porte, nuove strade.
Ami la vita. Anche un ticket del posteggio
significa. Un colore delicato o violento, lo
zucchero e un grano di sale.
Ti emoziona la maestA? delle montagne. Le gobbe
prone sotto il tempo. La fierezza dei picchi. I
boschi, il muschio, i fiori e le piA1 piccole farfalle.
Il mare caldo ti attira da non poterne uscire.
CuriositA? del nuovo. La moda. Viaggi, partenze,
luoghi lontani:
alfabeti e nuove lingue, porte,
nuove strade. Una??ondata irresistibile che avvolge.
Il volto altrui che si presenta. Il corpo, la prova
delle passioni. La festa, la folla,
amicizia e contesa. Vendere e acquistare.

Ogni cosa A?N luogo, ogni luogo, mappa. Mappe
di realtA?, mappe di fantasia. Ogni parte del tutto
vale tutto. Tieni fermo e libera il bambino,
paragonati al bambino: ama la vita.



Dicembre 2006

Carlo Di Legge
- Vita -
Roberto Caterina
Fiori di Ibisco
La ricerca di un amore
deve essere lieve.
E cercare
non vuol dire
vedere
sperare
tornare
incantati dal nulla
ma
solo porgere l'orecchio
dove il vento A?N lontano
e non riporta
inascoltate
le parole che vorremmo
ci fossero dette
dove la sabbia
A?N umida
e i fiori dell'ibisco
accendono di rosso
i pensieri.
Durano solo un giorno
che gli amori lievi
a volte
sanno trovare.

Roberto Caterina
- Fiori di Ibisco -
WIP

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