Viaggi e scritture di viaggio | domenica 6 novembre 2011

Mena Verderame

L’inchiostro dello scrivere è la vita

«Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri». Nelle Memorie di Adriano, nate dalla possente e raffinata penna di Marguerite Yourcenar, si incontra anche questa verità. In molti la condividono, perché per molti l’accostarsi ai libri ha significato una nuova nascita, la più importante. Iniziarsi alla lettura è cominciare a mettere radici dentro se stessi.

Non si è più quel bambino che, guardando il suo riflesso, va a cercarsi dietro lo specchio; da quel momento si riconoscerà quello sguardo come il proprio sguardo, e una leggera inquietudine sarà il segno che una parte di sé non è in quella superficie riflettente. Le idee, i pensieri, le emozioni, i sentimenti sfuggono alla capacità mimetica dello specchio, sono quell’invisibile di noi che per tutta la vita cercheremo di decifrare.

I libri fanno da spartiacque. Nel succedersi sempre uguale dei nostri giorni separano un ‘prima’ e un ‘dopo’. Si procede, anche il tempo procede, ‘finché non si scorge dinanzi a noi una sottile linea d’ombra’: la prima pagina letta è già un passo oltre quel confine. E non importa se questo evento, spesso, è come un’irruzione; accade con la forza e l’impetuosità di un vento che sbatte le imposte e spalanca le finestre, portando disordine e confusione tra i nostri fogli immobili e silenziosi, addormentati sullo scrittoio.

Nella regione sconosciuta e labirintica in cui la lettura inevitabilmente conduce, ci sentiamo però come ‘a casa’. Perché ciò a cui si va incontro non è un disorientamento il cui rischio è la deriva, ma è la possibilità stessa di attraversare il labirinto della vita, di renderlo praticabile. E, soprattutto, è forse dai libri che si impara a percorrere, con intensità e passione, tutti i sentieri che riusciremo a disegnare. A camminare con passo leggero ma deciso, ad amare quelle vie, anche se dovremo abbandonarle, quando all’improvviso si giungerà in una strada senza uscita.

In quest’affascinante topografia dell’anima, i libri possono diventare luogo natio, e patria di ogni cammino. Un legame indissolubile e immediato unisce alla lettura, che diventa il sottofondo, ininterrotto e costante, delle nostre giornate. Nel libro si cercano risposte, ma con la speranza che esse si sovvertano presto in nuove domande. Il libro sa dar voce alla forza delle passioni, a ciò che per essenza è muto ma che ha bisogno di esser detto, raccontato, e condiviso. Il libro istruisce, insegna, guida, acuisce lo sguardo e, come un caleidoscopio, moltiplica le prospettive, perché la verità non è una sola, e non è mai la stessa.

E, non ultimo, ogni libro è sempre una lunga meditazione su se stessi, quando si impara a compitare nella propria interiorità le parole che hanno preso vita sulla carta. E, soprattutto, importante è leggere tra le righe, decifrare lo spazio bianco, le pause, il non detto, i silenzi della pagina. Per far questo, occorre un alfabeto interiore, che non si apprende, ma che affiora, emergendo come una terra sommersa, dal multiforme paesaggio del nostro io.


Non è lo stesso con lo scrivere. La scrittura non possiede l’immediatezza della lettura. Tra il foglio bianco e le parole, c’è la nostra persona, la nostra storia, il limite della nostra individualità. Spesso, troppo impegnata a vivere per poter raccontare, e raccontarsi. “Perché scrivere, allora? Che senso avrebbe?”, ci si chiede. Mentre si lascia cadere la penna, si spegne il cursore del mouse, per non correre il pericolo di essere troppo particolari, troppo legati a se stessi; perché l’autore non diventi, paradossalmente, un personaggio immaginario, che si inventa per raccontare le proprie finzioni.

Timori sbagliati, questi, obiezioni che non rispondono alla realtà delle cose. La forza della scrittura sta proprio nella ricchezza e nella fragilità della vita di chi racconta. Scrivere può anche rispondere al bisogno di rivelarsi, a volte tanto forte come quello di respirare; ma quando si traducono in parole pensieri ed emozioni, e si fa uscire dalla penombra ciò che si è sentito, prende avvio un percorso verso l’esterno di se stessi, si getta un ponte verso l’altro. Si apre uno spazio di condivisione.

Scrivere è una trasfigurazione di se stessi e del proprio vissuto, che chiama il lettore come testimone delle vicende raccontate e delle emozioni provate. Vicende ed emozioni che, seppur non ha vissuto in prima persona, di certo può riconoscere come proprie possibilità, che il passato ha già realizzato, o di cui il futuro potrebbe rivestirsi. L’inchiostro dello scrivere è la vita.

Lo ha spiegato molto bene Claudio Magris: «Scrivere è trascrivere. Anche quando inventa, uno scrittore trascrive storie e cose di cui la vita lo ha reso partecipe: senza certi volti, certi eventi grandi o minimi, certi personaggi, certe luci, certe ombre, certi paesaggi, certi momenti di felicità e disperazione, tante pagine non sarebbero nate» (dal discorso alla cerimonia di consegna del Premio Principe delle Asturie, 22 ottobre 2004; citato nel Corriere della sera, 23 ottobre 2004).

Qualche sera fa, ad un programma su Rai Tre (Chetempochefa, 29 ottobre), interviene Alessandro Baricco, con un meraviglioso monologo sul perché si scrive. A questa domanda risponde parafrasando un passo di Henri Focillon, che spiegava ai suoi contemporanei francesi come accostarsi alle stampe di Hokusai (1760-1849), pittore e incisore giapponese, che quindi apparteneva ad una cultura lontana da quella francese ottocentesca.

A chi avrebbe voluto trovare in quelle incisioni insegnamenti, un senso morale, o una qualsiasi forma di assoluto, Focillon precisava: «Quando un giapponese sfoglia una raccolta di stampe, quello che fa è guardare una scelta di quanto nell’universo c’è di più raro, e nell’uomo sensibile di più caro, forgiato in un materiale affascinante per l’unico scopo di testimoniare il genio umano e il gusto di un maestro». Come a dire: nelle stampe è in scena il miracolo dell’istante, del qui ed ora, vivificato dal gesto e dal cuore dell’artista.

Riprendendo Focillon, Baricco afferma: «Scriviamo libri, e quel che facciamo è scegliere tra quanto di più raro c’è nell’universo e di più caro c’è nel nostro animo. E lo lavoriamo con le mani in un materiale affascinante che è la lingua, le parole, il suono delle parole, il respiro della storia. E tutto questo solo perché vogliamo testimoniare ciò di cui è capace un certo genio umano, e per esprimere, in qualche modo, il gusto di un maestro che, in quel momento, siamo noi. Niente più di questo, ma niente, niente meno di questo».

Ma la scrittura non è solo questo. La pagina bianca può diventare lo spazio in cui ricostruire i segmenti della propria esistenza, e ricomporre frammenti del proprio tempo interiore. Scrivere è invitare al dialogo le regioni più remote dell’io, è porsi in ascolto di suoni e melodie che il frastuono del mondo mette a tacere. È annotare ogni movimento dell’anima, registrare la flânerie dei pensieri, tracciare i voli dell’immaginazione. Scrivere è conversare con se stessi; è un desiderio, forse un bisogno, ma è da questo colloquio intimo che nascono le pagine più belle. Quelle che colorano di vita vissuta ogni storia raccontata, e che danno intensità e spessore ai personaggi di cui si inventa la vita.

La scrittura è fatta di mille e più corsi d’acqua, ciascuno con una propria sorgente, ma tutti giungono al mare del racconto. Per alcuni autori, e Baricco ne è un esempio, la rarità e la bellezza della storia narrata sono espressione del genio umano. Chi invece scrive su carta molto più leggera, e con una penna meno importante, si sente più vicino all’imperatore Adriano, così come descritto dalla Yourcenar nella meditazione dedicata ai suoi ricordi, e da cui hanno preso le mosse queste riflessioni. La sua affermazione è di una bellezza senza pari: «La parola scritta m’ha insegnato ad ascoltare la voce umana, press’a poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m’hanno insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini. Viceversa, con l’andar del tempo, la vita m’ha chiarito i libri».

Nelle pagine scritte, imparo ad ascoltare la mia voce, quella di chi mi sta accanto, forse anche quella di chi non c’è ancora. Forse, un giorno, anche a me la vita illuminerà i libri.


Sulla rubrica Viaggi e scritture di viaggio
All’inizio dell’ Odissea è l’invocazione del cantore alla musa affinché narri dell’eroe multiforme che “tanto vagò”, “di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri” e “molti dolori patì sul mare nell’animo suo” (Odissea, I, 1-3). Viaggio e narrazione, viaggio e scrittura, sono qui apparentati, e diventano un unico modo per dire il movimento dell’eroe. Le avventure nello spazio servono a oggettivare e a rendere visibile l’avventura della mente e del cuore. L’iniziale invocazione del poeta trova una sua duplicazione nella reggia di Alcinoo, quando la regina chiede all’eroe di dire chi sia e da quale stirpe discenda. Alla domanda sulla sua identità Odisseo risponde: “Difficile raccontare, o regina, dal principio alla fine”: a ribadire che ogni viaggio è anche un racconto e che ogni racconto è anche il senso dei viaggi che ognuno compie fuori e dentro di sé. L’Odissea è il racconto di un narratore che “racconta come il viaggiatore racconta” (J.-L. Moreau, Odyssées, nel volume collettivo Écrire le voyage, Paris 1994, p. 37). Chi viaggia ha dentro di sé e davanti a sé la propria storia (nel doppio senso dell’accadere e del racconto), come colui che racconta è un vero e proprio viaggiatore nello spazio e nel tempo: “la letteratura non è che un racconto di viaggio. Essa consiste nell’esplorare le possibilità di narrazione…” (J. Roudaut, Encyclopædia Universalis, 1995 - XIX). "I più grandi geni hanno sentito la necessità di viaggiare; hanno compreso che era il miglior modo per perfezionare le proprie conoscenze" (J.-B. de Boyer, marquis d'Argens, Critique du Siècle, ou Lettres sur divers sujets, par l'Auteur des Lettres juives, chez Pierre Paupie, La Haye 1755, t. I, p. 194).

Enzo Cocco