Squarci | giovedì 26 maggio 2011

Sara Colò

Tra vita e morte

Era contro ogni logica. Era davvero contro ogni più giusto ragionamento, contro il buonsenso che mi teneva sempre ancorata alla realtà.
Perché non avrebbe dovuto essere lì.
Non avrebbe dovuto andare in quel modo.
Una parte del mio cervello – che sembrava proprio aver smesso di funzionare – guardava la scena dall’esterno, come un ospite indesiderato che scuote la testa con aria di superiorità e pacatezza. La pacatezza di chi ha sempre tenuto tutto sotto il più totale controllo, di chi sa coma va il mondo perché impara dagli errori della gente e ricorda che no, per lui non sarà così. Per lui sarà diverso, tutto avverrà con i tempi immaginati, tutto seguirà uno schema tracciato consapevolmente. Con lucida volontà.
Ma c’era una parte della mia testa, più grande e pulsante, a cui non importava nulla di tutto ciò.
Se era sbagliato, era anche giusto.
In fondo, perché “sbagliato” e “giusto” non possono andare insieme? Me lo chiedevo per la prima volta in quel momento… Ma quello non era un buon momento.
Non ci avevo mai fatto caso: che cos’è? Avevano litigato? D’altra parte, tutti litigano. Anche nella coppia perfetta ci sarà sempre un motivo per discutere. Che sia per il colore delle tendine della cucina per il quale lei va pazza ma che a lui ricorda troppo quello delle lenzuola della suocera; o che sia per lo sport che dovrà praticare la loro bambina… Danza o ginnastica artistica? E perché non “danza-e-ginnastica-artistica”? Perché l’uomo deve sempre scegliere? Perché in ciò che è sbagliato c’è sempre un po’ di ciò che è giusto? Così non andava, pensai. Deve esserci qualcosa di giusto e qualcosa di sbagliato. Mescolare le carte è meschino. Essere costretta lì, occhi negli occhi del ragazzo che hai appena baciato, è crudele.
Erano così profondi. Proprio mentre li guardavo, avevo una strana sensazione. Come se non avesse più importanza tutto l’odio che provavo verso di lui, tutta la rabbia verso ciò che aveva fatto, i suoi sbagli, il suo essere immaturo e inaffidabile, capace di farti passare il sabato sera sospesa tra la voglia di bere per dimenticare e quella di insultarlo per dimostrare che hai ragione.

Non avevo notato che, mentre riflettevo sulla relatività di ogni morale umana, grosse lacrime mi rigavano il viso. Non ne capivo il motivo, sinceramente. Dovevo provare ad essere felice, perché lo sentivo, sapevo che da qualche parte lo ero realmente. Ma forse un qualche istinto primordiale mi mandava segnali d’allarme troppo rumorosi per essere ignorati.
Ah. Ah, già, stavo per morire.
Tutto questo caos per ricordarmi una cosa che non avevo certo dimenticato. La razionalità mi impediva di godere anche degli ultimi istanti della mia vita. Gli ultimi istanti che valevano per una vita intera.

Ormai sveglia dal torpore del bacio, staccai a fatica gli occhi dai suoi.
Guardai davanti a me, pronta. Pronta ad aspettarla lì, accecante e soffocante.
Ma c’era un particolare che mi distrasse dalla fine. No, lui non doveva piangere. Rovinava tutto. Era stato sempre narcisista per tutto il tempo e persisteva nel suo peccato fino all’ultimo. Cercai di sorridere, ma tutto suonò falso. Perché all’improvviso scoprii di avere paura. Paura di perdere ciò che avevo appena trovato. Perché tutto deve arrivare all’ultimo minuto, come quando in vacanza ti fai degli amici solo un attimo prima di salire in macchina e tornare a casa?
Dopo la paura, stava arrivando il dolore. Una costola rotta, forse due. Mi schiacciavano il petto, mozzandomi il respiro. E forse avevo anche perso molto sangue. Non volevo pensarci, ero sempre stata troppo impressionabile. Cercai rifugio in lui, di nuovo. Ma che senso aveva? Lui non poteva farci niente. Aveva già fatto troppo. Non meritavo ancora un altro bacio. Ma la sua bocca cercò di nuovo la mia. Le sue labbra sapevano di sale, come quello delle lacrime.
Invece di chiudere gli occhi, mi sforzai di tenerli aperti. Ero sempre stata testarda. Ciò che vidi non mi piacque. I suoi occhi, un attimo prima vivi e meravigliosi, erano vuoti e opachi. Come se stesse perdendo una parte di sé. Come se fosse partecipe alla sorda sofferenza che sopportavo. Come se non fossi io quella a morire, ma lui.
Provai un ultimo forte tremito, uno spasmo alle gambe, al pensiero della sua morte.
Della mia forse non m’interessava poi tanto, non era mai stata così egocentrica. Lui capì, perché tentò di ridere, ma la sua risata era roca; la sua voce, consumata dalle urla precedenti, era distorta. Tentai di imprimermene il ricordo, semmai avessi potuto dimenticarla.
Il mostro aveva investito me, e non te, gli ricordai. Tu sei ancora qui, e non fartene una colpa, per favore. Per una volta ascoltami.
La stanchezza cominciava a farsi sentire, pesante. Non la tolleravo. Con un ultimo disperato sforzo cercai di guardarmi attorno, stranita.
Guardai le stelle, immobili.
Guardai il mio corpo, spezzato.
Distolsi lo sguardo, nauseata, e chiusi gli occhi.
Nessuno seppe mai, neanche lui, che prima di andarmene del tutto, la mia bocca mimò lentamente (per fermare un attimo il tempo) la parola “grazie”.

Si svegliò, sentendosi del tutto sballato. Come se avesse corso tutta la notte e bevuto allo stesso tempo. Ma non era andata così, ricordò. Chiuse di nuovo gli occhi. Non era sofferenza. Non era odio. Non era rabbia. Era amore, amore morto. Amore che giaceva lì, come un cadavere, sul fondo della memoria. E ora chi lo portava via?
Lei era morta.
Niente aveva più un senso logico.
Prima pensava che con lei tutto seguisse una certa razionalità. Pensava che ci fosse davvero ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ma lei era morta, non esisteva niente di giusto. Esisteva solo la realtà, con le sue menzogne. La realtà che uccide la brava gente. Che ha ucciso lei. Lei non era la brava gente, si corresse.
Lei era lei.
Niente aveva più senso.
Si alzò, si fece una doccia, ritornò a letto, ancora bagnato. Pianse. Dopodiché, ripeté tutto tre volte. Alla quarta era straziato dal dolore. I funerali erano previsti per l’indomani.
Si alzò, questa volta per davvero. Scese le scale. Si accorse di aver addosso la camicia di ieri. Con un terribile presentimento, abbassò gli occhi per fissarla. L’estremità era sporca di sangue rappreso.
Il suo sangue.
Scaraventò la camicia al suolo. Poi si rese conto d’essere patetico. Inveire contro la morte di qualcuno che era lì con lui. L’accarezzò, le annusò i capelli, la guardò negli occhi. Esitò sulle sue labbra. Forse l’avrebbe anche baciata. Forse sono solo impazzito, pensò. Perché lei è morta, di questo sono sicuro.
Lo sento.
Perché è come se fossi morto anch’io.
E mentre pensava, lei sparì. Come la luce proiettata sul pavimento, che si era spostata dall’armadio al tavolo. Chissà che ora era, si chiese. Ma importava davvero?
Lei era morta.
Alzò lo sguardo. Gli occhi gli bruciavano. Si ricordò che fin da bambino gli avevano detto che quando perdi una persona cara non riesci a crederci, in un primo momento. Ma lui ci credeva, eccome. Lei era morta. Poteva dirlo a chiunque in qualunque momento. Non voleva che le togliessero la dignità della morte. E non se ne era andata, era morta. Andarsene è un’altra cosa. Vuol dire che può ritornare. Lei non sarebbe mai ritornata. Se anche avesse potuto, sarebbe stata troppo orgogliosa per farlo.
Tirò un pugno al muro, graffiandosi le nocche. Non pensò che avrebbe dovuto morire lui al posto suo. Odiava chi faceva speculazioni dopo che qualcosa era avvenuto. Inesorabilmente. È successo, punto. Anche se non era giusto.
Lei era morta.
Si toccò il petto, provando un senso di infinito soffocamento. Udì il rimbombo del suo cuore, cercando di restare lucido e di non far riaffiorare alla mente certe immagini. Vennero comunque a galla; e pensò che forse lei non aveva poi così pietà di lui, dal momento che aveva deciso di mostrargliele tranquillamente.
Si toccò il petto, perché voleva sentire il battere del cuore.
Tum, tum, tum.
Lì, dove la sua vita continuava, la vita di lei era finita.

Pensò che anche questo non era giusto. Doveva fare una lista, pensò. Di ciò che era giusto e ciò che invece era sbagliato. L’avrebbe portata in un campo, letta ad alta voce e poi strappata. Letta ad alta voce: così lei avrebbe potuto ascoltare. E l’avrebbe strappata perché non esisteva né giusto né sbagliato. Esistevano la vita e la morte. E lei era morta. E questa, pensò, sarà la prima cosa che scriverò, a caratteri cubitali, in cima alla lista. E questo non si potrà mai cancellare, né strappare.
Perché è la verità. E la verità esiste.
Sempre.








Sulla rubrica Squarci
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