Squarci | sabato 30 aprile 2011
Annarita Lamberti
Fichi d'India
Fichi d’India
Raggiunsi rapidamente il Sentierone e imboccai via XX settembre. Era una giornata piovosa di metà novembre e cominciava a fare freddo. Non c’era molta gente per strada e io, come sempre in questi momenti di libertà, in cui mi prendo davvero una piccola vacanza nel bel mezzo della settimana, mi sentivo una privilegiata: tutta Bergamo lavorava e io, invece, ero una signora sfaccendata e senza pensieri.
Ma qualcosa andò storto, una vetrina e un ricordo inopportuno, sempre in agguato…non mi andava più l’idea di una giornata tutta per me, di piccoli peccati veniali. Decisi di fare la spesa: niente peccati solo una buona organizzazione familiare, come si conviene a una vera sciura.
Mi diressi nel negozio di frutta e verdura biologica nella piazza. Una volta entrata mi guardai attorno, gli scaffali carichi di frutti, disposti in ordine, in bella mostra. Presi in mano una mela rossa e grande, la odorai ad occhi chiusi, aveva un profumo dolce e delicato, ne presi un chilo e aggiunsi tarocchi, mandarini - avevano le foglie attaccate e immaginai di bruciarle insieme alle bucce nel camino, l’aroma di agrumi si sarebbe diffuso nel salotto. Mi dirigevo alla cassa quando vidi dei fichi d’India.
Associo sempre i fichi d’India a una esperienza romantica di cui sono stata protagonista in Israele. Con quella strana armatura chiodata a difesa di una polpa dolcissima non so bene se sono un’allegoria di una femminilità nascosta e difficile da conquistare, e da far emergere, o della dolcezza virile, nascosta sotto modi bruschi, talvolta, e da certe asperità superficiali.
Un’allegoria di me o di lui?
Ne presi un cestino.
Una volta a casa portai la busta in cucina e cominciai a sistemare la frutta, ma arrivato il turno dei fichi d’India me ne venne una gran voglia. Una strana fame, fisica ed emotiva. Posai il cestino sul tavolo e presi un piatto, coltello e forchetta. Incisi l’armatura in due tratti longitudinali, uniti in cima e in fondo, ne staccai la placca larga, allargai le labbra di quella che mi sembrava una ferita umida e palpitante, vi affondai le dita e, staccatone il cuore polposo, lo portai alla bocca. Era dolcissimo. Ripetei lo stesso procedimento quattro volte.
All’Helena Rubinstein Muzeon avevo visto un film sulla vecchia piccola Tel Aviv in cui un ragazzino intraprendente offriva all’amata, una ragazzina dall’aria romantica, la polpa di un fico d’India dopo averlo sbucciato a mani nude. Anche a me era stata offerta ai margini di un vigneto poco distante da Latrun, mondata con la stessa modalità. Per un israeliano era l’allegoria dell’amore: lo zabar si offriva all’amata dolce e disarmato.
Quando eravamo stati alle Egadi avevo mangiato una gran quantità di fichi d’India e li aveva sbucciati tutti lui. La prima volta glielo avevo chiesto esplicitamente.
- Devo sbucciarteli io? Non mi sembra tanto difficile!
Mentre formulava quel commento, contro la mia eccessiva pigrizia o imbranataggine, procedeva a sbucciarlo e a porgermi la polpa, io la mangiai direttamente dalle sue mani, leccandogli e succhiandogli le dita. Continuò così per tutto il tempo della vacanza, senza altri commenti.