Squarci | martedì 22 marzo 2011
Giusi Viscardi
Sulle tracce dell'orsa
“Ascoltate, cittadini, perché noi facciamo un discorso utile alla città; ed è naturale, giacché mi ha allevata nel lusso e nella bellezza. All’età di sette anni fui subito arrefora; poi a dieci anni fui aletris – macinatrice di grano – per l’archegeta; poi, indossando la veste color zafferano fui orsa alle feste Brauronie; e ormai, divenuta una bella ragazza, fui canefora – portatrice di canestro – con indosso una corona di fichi secchi”.
(Aristofane, Lisistrata, 638-647)
La città t’inghiotte come un grosso animale vorace, come l’orsa che a Brauron si doveva ammazzare.
Il viaggio è percorso e il percorso è passaggio, teoria di fanciulle che dall’Acropoli scendono a valle per le colline dell’Attica battute dal vento e in processione avanzano – lente – mimando l’orsa votata al massacro.
Perché la città ha qualcosa di divino quando si fa animale e come tale bisogna sgozzarla perché solo a sacrificio compiuto il principio divino può aspirare al sacro. La sacralizzazione del tessuto urbano è sacralizzazione di individualità sociali e l’identità sociale – ormai ne ero certa – avrei potuto acquistarla soltanto nell’attimo della protèleia, la fase finale che mi avviavo a compiere come le bambine ateniesi sulle sacre colline di Brauron.
Per questo partii.
Presi il volo transoceanico che, in processione, mi portava lontano.
L’inizio di un viaggio a suggellare il passaggio avviene quasi sempre per caso – nel caldo di un mese estivo quasi infernale – e quasi sempre per caso diviene surreale.
Inizio da copione. L’itinerario prevede l’arrivo a New York City, JFK Airport, per le tredici e trenta di un giovedì pomeriggio l’arrivo effettivo si verifica alle ventuno e trenta all’aeroporto di La Guardia, nel Queens, passando per Atlanta in sedici ore di volo per aerei persi e sostituzioni varie ed eventuali … alla destinazione finale ci arrivo completamente stordita dall’aria condizionata degli aerei e dai tre cambi effettivi effettuati nelle ultime ore in preda agli spasimi di una febbre che mi divora dall’interno.
Il resto è semplicemente già visto, bellissimo per questo o forse anche per lo stato allucinatorio e confusionale in cui mi trovo: il percorso in autobus dall’aeroporto ad Harlem, la 125ma strada, la Broadway Avenue, la Amsterdam Avenue, uptown Manhattan, l’italo-americano sessantenne, capelli brizzolati, tenore alla Santa Cecilia, mi accompagna per strade secondarie, malfamate, la bambina nera salta la corda all’angolo tra la 104ma e la 103ma, around Midnight…
È notte. Sono sdraiata sul divano a casa di Max, l’amico italiano che sta per sposare Ruth, ebrea newyorkese di Providence, ma non lo farà, questo lo so, entro dicembre sarà tutto finito (forse, perché le cose che hanno inizio e fine non finiscono mai, in realtà)…
Sono passati tre giorni dal mio arrivo qui ma non ricordo assolutamente niente, le prime settantadue ore in America le trascorro in un letto d’ostello, ad Harlem, col corpo avvinghiato dalla febbre.
Ora sono a Brooklyn. Max si prende cura di me, la mente vagabonda per strade senza senso, dimenticate dalla memoria.
Xadim, senegalese dallo sguardo d’ebano, lo conosco una settimana dopo a un telefono pubblico in Union Square all’angolo con la Brooklyn. Al sole di un lunedì mattina mentre cerco di contattare l’Italia mi chiede: in che lingua parli? Ha l’approccio diretto di chi vuole conoscere, non teme e non mi teme. In italiano – gli dico – Bella lingua! – risponde –. Prova ad articolare i miei stessi suoni, Xadim, lui suona al Central Park nei fine settimana dalle quattro a mezzanotte: tutti i neri lo fanno, suonano percussioni e strumenti a fiato, lunghi tubi di legno cavo che ripetono il rombo del tuono o lo scroscio sordo dell’acqua di ruscello in grandi feste tribali, neri che danzano con movimenti ancestrali la loro appartenenza a una realtà multiforme e varia tanto camaleontica da appartenere più all’estraneo che a se stessa. Xadim mi parla di sé per un istante, lo conosco per caso in una mattina di sole, in un istante torna alla massa alla quale appartiene. A cui tutti appartengono.
Al Central Park ci arrivai in un tardo pomeriggio domenicale, dopo aver camminato a lungo per musei e gallerie d’arte per soddisfare la solita ansia un po’ scontata di conoscere la città nei suoi aspetti intellettuali, nei suoi movimenti culturali, e tutta quell’arte aveva finito per farmi girare un po’ troppo la testa … sindrome di Stendhal, la chiamano … “Ero giunto a quel livello di emozione – ricorderà il nostro, uscendo da Santa Croce – dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati... ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”. Personalmente non ne potevo più, anche se m’ero fermata per ore estasiata a godermi il Pollock più bello e gigantesco che abbia mai visto finché la voce inglese di un altro visitatore, inglese, non mi aveva richiamato alla realtà lamentandosi, in inglese, che la mia persona, che nel frattempo si era inconsapevolmente e pericolosamente avvicinata al quadro per studiarne con sguardo microscopico i dettagli, gli impediva la visione d’insieme …
Al Central Park ci arrivai dunque esausta, avevo bisogno di aria, di verde, di musica e danze … loro erano lì a soffiare nei loro cosi d’osso, a imitare il rombo dei tuoni e delle cascate, a suonare sui tamburi di pelle di cammello o di capra, a muovere i fianchi con sguardi rapiti incastonati in folte folli chiome rasta.
Xadim distribuiva incenso e ballava, rideva e parlava “for peace love and cha cha cha”, diceva che bisognava accendere il bastoncino perché il sogno al quale inneggiava si avverasse. Bizzarro nero d’America lui sì che ci credeva e tutti quelli come lui pure benché discendevano da schiavi la cui memoria si perdeva in campi di cotone assolati provenienti dal sud più a sud del mondo che geograficamente parlando era la cosa più distante dalle verdi praterie di bisonti dell’Arkansas o dai fiumi pieni d’oro del Klondike e c’erano stati costretti ad andare dai padri dei padri che nemmeno lo volevano in una lunga storia la cui memoria si perdeva nella notte dei tempi, una storia fatta di tratte e mercanti di uomini e mano d’opera a costo zero e esseri umani ridotti a bestie e tutto questo seppur tanto lontano temporalmente da adesso riviveva come un anatema in quelle danze tribali che ora si ripetevano nel parco a ricordo di una natura altra di una cultura altra e di un’appartenenza che non riguardava quei luoghi ma che pure era riuscita a conquistarli, sottometterli e farli propri … fu in questa atmosfera di delirio culturale disomogeneo e accattivante che accadde il fatto più strano che mi sia mai fino ad oggi accaduto e ancor oggi ce l’ho stampato nella memoria come fosse stato ieri …
In mezzo ai neri africani d’America e ai loro balli invasati e al rullo assordante dei tamburi e a tutto quel fumo e quegli odori fortissimi io la vidi, vidi la bestia, l’enorme animale dalla pelliccia fulva color zafferano, attraversare da parte a parte il lato a sinistra del parco che poteva rientrare nel mio limitato campo visivo, la vidi camminare verso nord rapida e pesante a un tempo con l’incedere maestoso e barcollante della grossa fiera stanca e affamata e in fuga da tutto.
Per un istante mi si bloccò il cuore in petto e il tremito della danza si fece fremito d’ansia e dovetti necessariamente ammettere a me stessa che se non l’avessi seguita allora l’avrei persa per sempre.
Fu così che mi misi sulle tracce dell’orsa.
E la cosa che mi stupì più d’ogni altro pensiero è che non avevo paura, malgrado lo sgomento della sorpresa iniziale, ma soltanto un’inspiegabile, irrefrenabile necessità di raggiungerla.
Quel che avrei fatto dopo sarebbe venuto da sé.
Camminavo, aggirandomi furtiva per le vie del parco che andavano a nord, tra topi e scoiattoli che mi si incrociavano tra i piedi al passaggio – la città brulica di topi. Sono ratti tranquilli, enormi nella loro spropositata irruenza. Divorano i binari con la voracità di passanti abituali, manca solo che salgano sui treni pure loro viaggiando per la città da gran signori nei loro posticini numerati – .
Attraverso il parco, scoprii con stupore che stavo quasi, addirittura, correndo e che l’orsa, ormai, era scomparsa alla mia vista da un pezzo, ma io continuavo a seguire una sola direzione, una pista invisibile tracciata dal suo odore, come se sapessi benissimo dove era diretta e dove si sarebbe nascosta.
Quasi che ci fosse stato un punto preciso – ero certa – in cui si sarebbe fermata.
Ad attendermi.