Squarci | martedì 22 marzo 2011
Giusi Viscardi
Senza titolo
“Parla la tua lingua, l’americano, e c’è una luce nel suo sguardo che è una mezza speranza. È un giorno di scuola, naturalmente, ma lui non c’è proprio, in classe. Preferisce star qui, invece, all’ombra di questa specie di vecchia carcassa arrugginita, e non si può dargli torto – questa metropoli di acciaio, cemento e vernice scrostata, di erba tosata ed enormi pacchetti di Chesterfield di sghimbescio sui tabelloni segnapunti, con un paio di sigarette che sbucano da ciascuno. Sono i desideri su vasta scala a fare la storia”.
(Don De Lillo, Underworld, New York, 1997, trad. it. Torino, Einaudi, 1999)
Il sogno americano l’abbiamo da sempre un po’ tutti nel sangue.
Solo, non abbiamo più sangue, o non sappiamo più che sangue abbiamo.
L’America io me la ricordo. Avevo diciott’ anni. Certo non era l’America, quella con la “a” maiuscola, per intenderci, ma era pur sempre l’america. No, l’America, quella con la “a” maiuscola, New York, la grande mela, gli Stati Uniti, non l’avevo ancora vista, allora, ma c’ero passata accanto, l’avevo sfiorata col pensiero, come un sogno, come un’utopia.
Quaranta giorni. Avevo diciott’anni, non ancora compiuti. L’estate delle freeways, che solo quando ti ci trovi sopra, sperduto e completamente disorientato, ti rendi conto del perché gli americani chiamano le loro strade in maniera così stravagante … la libertà, l’angoscia della libertà, lo spiazzamento della libertà, la voglia di mandarla al diavolo tutta quella libertà che rischia di farti perdere finanche quel po’ di cognizione di te che ti resta, la magnifica libertà americana la scopri d’impatto, in una mattina d’Agosto, con tutta la violenza dell’inaspettato, su quelle enormi freeways a dieci corsie, che si perdono all’orizzonte e attraversano il paese in lungo e in largo e si percorrono solo con potenti automezzi e mai al di sotto delle cento miglia orarie e sembrano non avere mai inizio né fine.
Spettacolari. Ecco come sono le freeways americane: semplicemente spettacolari. Ci puoi perdere la testa. Diventare matto. Assolutamente spettacolari, come la società che le ha create, che le ha partorite e anche contestate. Perché sono prepotenti. Prepotenti e voraci. Vorace manifestazione della hybris umana. Altro che Colonne di Ercole e Nostoi odissiaci.
Un po’ come le torri, te le ricordi le torri? Le Twins, le gemelle, che tempi quelli in cui svettavano alte, più alte di ogni umano desiderio, di ogni eccesso, di ogni bisogno, di ogni incubo terreno. Segni precari di umana presenza. Abbattute come castelli di carte, fuscelli.
Lei porta capelli rigorosamente tagliati. Corti, cortissimi, da non poterli accarezzare. Le donne occidentali li portano lunghi e fondamentalmente sciolti, folte chiome rosse, o bionde, o nere. Le donne musulmane li tengono raccolti, tenacemente avvolti dai veli, perché gli uomini sono gelosi dei capelli delle loro donne, lo sanno bene, loro, l’impudico desiderio che accendono. Perché nessun uomo possa essere geloso, perché nessuno possa mai infierire sui suoi capelli, o forse perché spesso bisogna tagliare i capelli per zittire i pensieri, per questo lei tagliava sempre i capelli e con i capelli lunghi proprio non si riconosceva.
Lei me lo diceva sempre, di scrivere, quando veniva per la terapia, il martedì mattina – scrivere, sai cosa vuol dire, no? – Ti alzi una mattina, prepari la macchinetta del caffè, accendi la fiamma e aspetti che l’acqua emetta il suo gorgoglio abituale, con gli occhi socchiusi la guardi lavorare … il suo gorgoglio abituale … e a te non sale neanche una parola, un suono, un rumore meccanico, un mugolio da bestie. Niente. Il cervello è spento. Per questo non riesci a parlare. L’espressione linguistica è pensiero articolato e complesso, ci dà il senso di noi, è la prova verbale della nostra esistenza. Quando non riusciamo ad articolare parola neghiamo noi stessi. È come se non esistessimo.
Il caffè caldo – nero bollente – di primo mattino – ancora notte, quasi giorno – stretto nelle mani. Lei è seduta al tavolo di fronte alla porta-finestra che dà sul giardino. Fuori è freddo. Il freddo agita le foglie, ma l’aria è limpida e tersa. La mente s’acquieta. Lei scrive. Ha mani piccole ed agili, le dita sottili, la linea quadrata. Scrive qualcosa, come le è stato suggerito di fare. Una cosa qualsiasi, tanto per cominciare. Per tentare di ricostruirsi, ricomporre frammenti di sé – un’ottima terapia, sai, per ritrovare il bandolo della matassa – andare oltre se stessi per riappropriarsi di un io disgregato – perplesso e disorientato – agitato e inquieto come gli alberi riflessi sul vetro in cui lei stessa è riflessa. Alberi che intrecciano i rami – come un velo – attorno al suo volto. Abbattuto come castello di carta, fuscello. Troppo libera, la sua mente a dieci corsie. Scrive: il sogno americano … come continuava? … non sappiamo più che sogni abbiamo.