Squarci | domenica 18 luglio 2010
Anna Maria Basso
Assenze
1. Primo amore
Era un bel giorno di primavera, nei miei ricordi, ed ero euforica per la libertà che mi sembrava di respirare al solo pensiero di rivederlo, dopo una così lunga attesa. Indossavo il vestito più bello e mi avvinghiavo all’idea del suo ritorno, cadenzato dal ritmo dei suoi passi trascinati, immaginando la sua strana figura delinearsi sul primo piano di un orizzonte nebbioso e rarefatto, senza contorni.
Non so come sia capitato di innamorarmi di lui, e del suo odore stagnante di palude, odore di morte.
La ribellione adolescente contro i moralismi di famiglia, l’attrazione verso i gorghi, una vertigine sull’orlo del buio, non so.
Però era affascinante nella sua aura di dissipazione decadente, ed io ero poco più di una bambina. Leggeva poesie profumate di hashish, e guardavo le sue mani tra i capelli, e sapevo sognare.
E lui era sempre altrove nei pensieri, correndo via sulla sua vecchia auto di un improbabile color del tramonto.
Io aspettavo, seduta tra i libri e il telefono, un suo cenno che talvolta tardava mesi, ma poi arrivava, mai puntuale, mai prevedibile.
Sì, ho smesso la pazienza con gli anni, e tante altre cose, ma allora il tempo sospeso lasciava spazio al sogno, all’edificazione di mondi paralleli in cui vivere vite fantastiche, come quelle sbirciate dai vetri della finestra, tra luci lontane di città impossibili, nelle mie ricostruzioni geografiche immaginarie.
Studiavo e scrivevo poesie sull’agenda, in segreto, tra le frasi melense ricopiate dall’antologia e gli aforismi stantii che lui usava ripetermi, come se concentrassero in poche parole tutta la saggezza dell’universo.
Quel giorno l’appuntamento era all’ingresso dell’ospedale, con l’impressione che ritrovarsi tra la folla dei visitatori impazienti fosse più facile che nelle nostre solitudini silenziose. L’ho scorto insolitamente sorridente nel parcheggio antistante e gli ho detto in un abbraccio parole taciute per mesi, ormai senza forma, come aria.
Non ha compreso, e mi ha fatto ripetere e ripetere ancora cos’era accaduto in quel tempo di distanza, e cos’era cambiato. Perché qualcosa era cambiato da prima, sfumature impercettibili a un primo sguardo, una luce di sfida che non avevo la consapevolezza di possedere.
Sarà stato, credo, l’incontro con Franz a interrompere per la durata di una sera il filo dell’attesa, a far baluginare esiti nuovi, nuovi orizzonti. Poi tutto è tornato come prima, forse.
L’ho creduto, finché ho letto nei suoi occhi un’incertezza cupa e rabbiosa, un cedimento.
A casa ha esplorato il mio mondo dentro la finestra, i libri, la scrivania, i poster, i dischi. Ha spiato tra i miei vestiti e tra le mie collane, ha letto le mie lettere d’amore. Poi abbiamo cenato, giocando alla coppia di vecchi coniugi, io affaccendata ai fornelli, lui gli occhi fissi sul piatto.
Dopo si è alzato e ha acceso una sigaretta e la tv, sbeffeggiando l’idiozia dei balletti del sabato sera.
Ha spento la luce e mi ha preso per mano, quasi con tenerezza.
Nel buio distinguevo dal rettangolo della finestra le luci della città che davano corpo alla sua ombra e al candore dei suoi denti. Alla sua voce sussurrata.
D’un tratto, ho percepito una rigidità nelle sue braccia e un silenzio sospeso, agghiacciante.
Le sue mani sono diventate aggressive e brutali di fronte ai miei tentativi di resistenza. Di quei momenti ho ricordi confusi, ma la sensazione paralizzante d’incredulità è limpida ancora oggi. Proprio questo gli ha dato un vantaggio: lo stupore assoluto di chi scopre di non avere capito niente. Poi è arrivata la rabbia, una rabbia immensa, a guidare una forza che non sapevo di avere.
Lui ha raccolto le sue cose e se n’è andato come se non fosse accaduto niente.
Io mi sono guardata allo specchio, a lungo, toccando le strisce viola che solcavano trasversalmente il collo, per radicare l’evento nella realtà.
I segni sul corpo sono spariti in pochi giorni, nascosti da maglioni e foulards.
Poi è scomparso il dolore.
2. Vento
Lui se ne va sbattendo la porta, lasciando indietro un’eco di tuono e di voci spezzate.
Lei si stringe le braccia intorno, a proteggersi dal dolore che l’assale. Il gesto cristallizza le lacrime all’istante, e nulla resta se non un frammento di rabbia conficcato in fondo alla gola.
La casa delle castagne ci vide arrivare di novembre, in un giorno fitto di pioggia e di nuvole basse. Era la mia infanzia che allargava le braccia tirando dentro anche te, non più estraneo a quel mondo di ombre fatate. Sapevi di erba bagnata e di legna mentre narravi di luoghi perduti nello spazio e nel tempo. Ti lasciavo ripetere all’infinito la litania dei ricordi, guardandoti esplorare le stanze affollate di assenze, e di pezzi rimasti lì, abbandonati.
Scende le scale di corsa, col solo pensiero della strada davanti. Il clic della chiave infilata nel cruscotto della moto, il casco, i guanti, la necessità di aumentare la distanza velocemente, verso qualunque altro luogo, qualunque luogo che non sia quello.
Lei respira contando i battiti del suo cuore. Il divano è una barca alla deriva.
Cucinavi per me, allora, e i nostri baci avevano il sapore del novello che bevevamo a sorsi lunghi davanti al fuoco del camino. A due passi il mare in tempesta, i cui echi arrivavano come una musica lontana. E le tue mani grandi e i miei sorrisi intrisi di vino. E la tovaglia a quadri grossi e la sedia su cui facevamo l’amore, e le ombre lunghe del pomeriggio distese tra le pagine del libro aperto sul tavolo.
Corre nel vento, la giacca rigonfia, il corpo allungato in avanti. Nessun pensiero, la strada di fronte e dietro il nulla a seguirlo. L’altrove unica meta del viaggio.
Gli occhi spalancati a fissare il soffitto, solo limite alle stelle, un braccio piegato sul seno, una mano abbandonata verso il pavimento. Le fughe sognate l’hanno sempre ricondotta al suo microcosmo dalle pareti rosso nostalgia e sa che non potrà lasciarle senza morire di rimpianto. Lui stavolta non tornerà a dipingerne le sbarre.
Uscivamo nel giardino delle rose appassite, incuranti della pioggia e del freddo. Accarezzavo le foglie del fico dal tronco ritorto. Ero felice. Portavamo grossi cesti per le pigne, e un telo per la spiaggia, come sperando in un miracolo di sole. Ed era bello cercare sassi dalle forme strane, e rami corrosi dalla salsedine.
Giorgio rallenta, tagliando le corsie in diagonale. Ha bisogno di camminare, di riflettere, di una sigaretta. Niente autogrill, decide. Esce dall’autostrada, attratto da un richiamo.
Le uniche suppellettili che mi appartenevano erano pietre e pezzi di legno, metafore di radici e di ancore dolorose. Tu eri d’aria e di vento. Amavi che ti rincorressi, ed io fingevo affanno per non ferirti i polsi in una morsa. Respiravo il tuo sogno di eterna libertà, sapendo di desiderare molto di meno. Mi sembrava bastassi tu.
La strada che conduce al cimitero è un viottolo di campagna tra pesanti cancelli di case coloniche. Parcheggia, e compra un mazzo di crisantemi gialli. La tomba del padre è in cima ad una ripida salita. La percorre lentamente, scorgendo ai lati le file di lapidi tutte uguali, coperte di fiori colorati.
Non so quando ho smesso di ascoltarti. D’improvviso non sei bastato più. Guardavo sul divano l’impronta che mi lasciavi per compagnia quando andavi chissà dove e la cancellavo passandoci una mano. È allora che sono iniziati i capogiri. Improvvisi. Devastanti. Restavo prostrata un tempo indefinibile, cercando appigli nel panorama noto della stanza. E tu non c’eri mai a raccogliermi.
Giorgio osserva la foto nella cornice ovale, il volto mite e ruvido. Rassegnato. Due date, ed al centro un deserto di fatica e di infelicità.
Quando Andrea è nato eri a Dubai. Hai ricevuto la notizia via mail da mia sorella perché non eri raggiungibile al telefono. Un fagotto scuro e arrabbiato che si calmava solo tra le mie braccia. Passavamo intere notti a parlare di te. Si dormiva di giorno, io seduta, lui con la testa abbandonata sul mio seno.
Miriam si siede, sistemando il cuscino accanto al bracciolo, un vertice puntato al pavimento, l’altro a indicare il triangolo di cielo nel vano della finestra. Il pensiero è un grumo pesante, da raccogliere nella cesta dei fallimenti poggiata sul tavolino nero al centro della stanza. Pulviscoli iridescenti roteano gioiosi nella luce, e lei ne segue la danza con lo sguardo.
La diagnosi ti ha raggiunto a Herat. Non sapevo come dirti che tu e il tuo bambino non vi sareste mai conosciuti. Volevano trattenerlo in ospedale, io l’ho portato a casa. Speravo potesse andarsene tenendo negli occhi me, e il suo piccolo mondo di fiabe incantate.
Giorgio accende la moto e parte. Guida piano, la fretta è svanita. C’è tempo davanti: la vita intera.
Miriam si affaccia alla finestra.
La strada è un oceano.
3. Tra parentesi
Ci si avvolgeva in spirali di parole
nella tristezza del vino e dell’assenza.
Nell’attesa lascio scorrere la sabbia tra le dita come in una clessidra, non a segnare il tempo, ma a ingannarlo nelle ruvide frizioni dei granelli sulla pelle, i palmi aperti in una preghiera.
Poi il mare smette di cantare.
Arrivi senza scarpe, sorridente. Mi sfiori la guancia con le dita e ti siedi misurando lo spazio della nostra distanza nello spessore della tua valigetta.
Continui il racconto come se non fosse trascorso un mese dall’ultima volta, come se questo tempo che ci dedichiamo non fosse una pausa sottratta alle scadenze della vita reale.
Leggi, ed io ti ascolto con assorta attenzione.
Lo fai con lentezza, isolando le parole in un recinto definito, invalicabile. È una storia che non narra di te – eppure tu ci sei, e ci sono anch’io, forse – e la bevo e la assorbo e la sento circolare nel sangue al ritmo delle pause della tua voce. E sottolineo, persino, immaginando la traccia delle matite rosso-blu che mi hai regalato avvolte in carta di giornale e che mai mi hai consentito di usare sulle tue pagine.
Cerco qualcosa di te, un’immagine, una sfumatura di sentimento, una freccia che arrivi a ferirmi, a scuotermi dal torpore che mi inchioda qui, adesso. Cerco anche di me, nei silenzi soprattutto, ma non mi trovo se non come specchio della tua vanità.
Un’onda lambisce l’orlo dei miei jeans e rido. Uno sguardo severo mi riporta alla tua scrittura spiraliforme, che scava, maciulla, disperde frammenti e frammenti senza ricomporre mai.
Ascolto, ascolto ad occhi chiusi – un tempo azzerato, sospeso fra le parole.
Non lasciarmi andare via, non lasciarmi andare via, non lasciarmi andare.
Ti ho guardato per la prima volta un pomeriggio d’inverno fuori dai corridoi del tribunale dove ci siamo incrociati un’infinità di volte tra una causa e l’altra.
Camminavi lento in un vicolo grigio traboccante di persone in fuga, chiuso nel tuo cappotto verde-oliva, curvo di tristezza, barricato in una teca di solitudine trasparente, smascherato dalla fierezza sicura ed arrogante, vagamente seduttiva, che indossi sul lavoro.
Ti ho salutato rallentando la mia corsa verso casa e tu hai risposto con una cortesia formale, raddrizzando impercettibilmente la curva della schiena.
Ho amato da subito la tua distanza triste, il tuo strano rapporto con lo spazio, compresso in perimetri di difesa dal contatto fra corpi, unità di separazione da un’impossibile intimità. Il tuo corpo da proteggere, la scrittura come schermo a celarne la fragilità: avrei intuito poi.
Il tempo di un caffè, di un paio di reincontri quasi casuali, e i meccanismi del gioco si sono definiti nella scoperta delle possibilità di esplorazione di un territorio lecito, quello della letteratura, da cui non mi hai mai reso attuabile alcuna occasione di sconfinamento
Una sola volta, forse, per un bicchiere di vino di troppo, ho azzardato un bacio, scivolando tra la tua chiusura e il tuo silenzio.
Però poi sei tornato a comprimermi tra gli impegni di lavoro, non sapendo rinunciare a questa clandestinità di letture e chiacchiere, paradigma di una sublimazione dolorosa.
Io ti amo con tranquillità, sapendo che questo nulla cambierà di ciò che mi circonda. Sei lo sfondo che mi sono scelta e tutto ciò che accade è permeato di te, che inconsapevolmente vivi un altro tipo di vita che non sa di superlavoro né di impegni familiari.
Sa di noi-fuori-dalla-realtà, dei tuoi libri, dei tuoi vecchi gatti e di caffè.
Una vita dove non arrivano sensi di colpa a tirare le maniche del buonsenso, dove è lecito dimenticare le bollette da pagare nei cassetti, dove si possono fare brindisi ai futuri possibili senza ammalarsi di nostalgia.
Oggi, l’incontro al mare è una trasgressione alle luci artificiali che deformano i nostri colori, quelli cupi dei tuoi abiti, quelli sgargianti dei miei. Alla luce del sole è permesso uscire dal labirinto della ritualità rassicurante. Ci si può guardare contando le rughe. Ci si può distrarre. Si può rischiare di essere visti insieme. Si possono persino cambiare le prospettive esistenziali.
La ventiquattrore la consegnerei volentieri all’acqua e poggerei la testa sulle tue ginocchia. Svestirei una volta per tutte i panni della signora ragionevole e composta, potrei ballare al suono delle onde, girare girare girare fino a non avere più coordinate, a non riconoscere più il cielo e la terra. La caduta sarebbe lieve di risate. Nessun dolore.
La tua voce mi arriva direttamente all’altezza del diaframma, seguendo un suo percorso alternativo. La storia che hai scritto è un po’ anche mia, e non lo è.
Ti interrompi in una lunga pausa, poi dici dei sensi di colpa verso tua moglie, che non comprenderebbe questa strana relazione tra noi, innocente – ai miei occhi – , se innocente può dirsi la cerebralità di un erotismo non consumato. Dici della necessità di allontanarsi, per non seminare dolore, perché il tuo cuore malato non debba subirne conseguenze. Io credo che il male sia solo mio, ma non lo dico, mi limito a guardarti - lo stupore mi curva le spalle.
Mi tolgo le scarpe bagnate, raccolgo la borsa, mi alzo con calma. Respiro.
Il mare riprende a cantare.
4. L’approdo
Si è allontanato di nuovo.
Silvia è compressa tra una miriade di corpi sulla metropolitana delle sette e trenta. Un leggero dolore sotto il seno le fa compagnia come un ricordo. Il male dell’assenza, un’ombra che segue i suoi passi da venticinque giorni e qualche ora.
Alla fermata, di corsa nel sottopassaggio, segue il fiume di gente diretta alla coincidenza per la stazione centrale, evitando il tapis roulant e la coda di impiegati dall’aria stanca. Devia verso il corridoio centrale, tra i due tappeti a percorsi inversi, e affretta il passo, controcorrente.
Tutto procede anche senza di lui, la sveglia all’alba, il tragitto casa - scuola, le lezioni, la vita. Ma il segno non si cancella, impronta di un dito su un vetro in controluce.
Vincenzo, 22 anni, stamani è in vena di sfide. Si agita freneticamente nel banco, si alza, la guarda, si risiede. Lei legge Baudelaire e lui si calma all’istante: le sue ali di albatro sono state spezzate da suo padre, dai suoi vicini, dal quartiere di periferia in cui vive, e lui ne nasconde il peso dietro ostinati sorrisi.
Siamo tutti albatri, professoré. Non tutti, Vincenzo, non tutti.
Alberto non lo è.
Le manca, e la traccia del vuoto è sabbia levigata dal mare tra impronte di passi, come una sospensione.
Lo immagina alla scrivania, curvo sui libri, oppure fasciato nel plaid sul divano davanti alla tv.
Avvolto già nella sua scia di assenza, intangibile come luce.
Vincenzo si dondola sulla sedia, resta in bilico con i piedi sospesi, le mani aggrappate ai lati del banco. La sfida con una tenerezza arruffata, lui che non ha parole sufficienti a tradurre il suo immenso bisogno d’amore. Le chiede libri che legge di nascosto. Vuole comprendere l’incomprensibile di una vita incastrata tra un padre pregiudicato e due fratelli minori da mantenere col suo lavoro di pizzaiolo.
Il silenzio è una successione di battiti che ritmano lo spazio vuoto che lui, Alberto, occupava dentro casa, a volte solo con la consistenza dello sguardo. Quel ritmo Silvia lo porta dentro, orologio della distanza, orologio dell’attesa.
I ragazzi ascoltano il racconto della vita maledetta del poeta, lo immaginano uno di loro. L’ennui è una cappa da alleggerire nei troppi cuba libre del sabato sera, nelle corse in moto a sfidare la sorte e la paura.
Vincenzo sa fiutare il dolore, sa accoglierlo, se ne fida. Sceglie Silvia e le regala la sua ora di studio quotidiana, sottraendola alla famiglia, al lavoro, al volontariato in chiesa che lo allontana dalla tentazione. Perché lui in galera c’è stato, e non vuole tornarci.
Silvia non sa perché Alberto la lascia sola. Il suo andare è una bolla d’aria in cui annaspare dicendosi liberi. Dalla libertà alla solitudine c’è un passo incerto, un inciampo, una manciata di terra tra i denti da ingoiare. E nessuna lacrima.
Vincè scrivi l’assegno.
Poi la pioggia, e la corsa sotto l’acqua fino alla pensilina del binario due. Il rientro in città è più lento, il semaforo all’ingresso della stazione segna rosso, il cielo è a macchie.
Silvia apre la porta e il ritmo del silenzio si spegne.
È lui. È tornato a casa.