Squarci | martedì 6 luglio 2010

Alessandro W. Mavilio

Lettera a Pietro Taricone

Caro Pietro,

lasci questo nostro mondo con la stessa velocità con la quale in passato ti sei lasciato dietro altri mondi più piccoli. Ci lasci nel dolore e nell’incredulità ma questa tua morte, che noi sulla Terra velocemente definiamo prematura, è in realtà il tuo estremo tentativo di correre avanti, di lasciarti gli altri dietro.
Tu ora sai ciò che nessuno di noi sa.

Quante volte nei vuoti della televisione ci siamo chiesti che cosa stavi pensando, tramando, preparando… Non è la prima volta che lasci le persone nelle domande, nelle congetture…

Chi non ti ha conosciuto non può capire quella sensazione… come di trovarsi in una turbolenza di scia.

Non credo di poter dire che siamo stati amici. Nel dire “conoscenti” mi sembra però di tradire qualcosa… Volavi, orbitavi, già prima di salire su un aereo. I ricordi che ho di te sono di un ragazzo in perenne movimento. Non credo di averti mai visto fermo da qualche parte. Eri sempre di passaggio, i nostri discorsi di ragazzi sono sempre avvenuti in quegli attimi simili all’incontro di due treni. Il tuo simbolo fisico sarebbe stata una freccia.

Da uomo a uomo: non era possibile provare invidia per te, anche in quell’età in qui gli uomini prendono la forma e segnano il territorio, anche quando hai cominciato a gonfiarti da Willi Gym. E ancora non capisco perché ti chiamino “guerriero”. Non eri un combattente, non un soldato, tu avevi da sempre la stoffa del lavoratore, del politico, del politico ideale, quello che nessuna società ha avuto l’onore di trattenere a lungo. La tua politica era quella dell’assimilazione di persone e di àmbiti eterogenei, la politica del sorriso e della sincerità a ogni costo, del lavoro (e non della guerra) portato al massimo livello di perfezione.

Al solito, io tornavo e tu uscivi. Mi chiedesti conferma di che cosa significasse il tatuaggio che ti eri appena fatto fare. Io, il ‘giapponese’ (questa la lingua che avevo scelto di studiare), dissi a te, che saresti diventato – nell’immaginario collettivo – il ‘guerriero’: “fulmine, tuono!” E tu: “fulmine o tuono? Sono due cose diverse!”; e io: “tutti e due!”.
Poi mi chiedesti del mio tatuaggio. Io ti risposi: “nulla, niente, vuoto”.

Eri un astro già molto prima di partire per il Grande Fratello, avevi un’orbita tutta tua, difficile da calcolare ma certamente regolare. Ampia e tuttavia veloce.

Credo tu sia stato il primo giovane amministratore del nostro condominio, ineguagliato dai precedenti e dai successivi. Bello e improbabile come può esserlo quello di una fiction di Canale 5. Ma vero, reale, bravo, bravo e bravo. La gente deve sapere che oltre alla cura del tuo aspetto avevi una tendenza naturale al mantenimento e al miglioramento delle cose. Forse potenziavi i tuoi muscoli (e nulla si può dire a un ragazzo che curi il proprio corpo) ma allo stesso tempo ampliavi anche le tue conoscenze. Sono certo che l’esperienza di amministratore – con carte, timbri e millesimi – non sia stata casuale: anni dopo, hai dimostrato in televisione l’amore per il calcolo, la previsione, il controllo. Bravo.

Un pomeriggio tornavo a casa con mio padre e ti abbiamo trovato giù ai garage. Avevi sollevato da solo la lunga e pesante grata di una fognatura. Le maniche alzate e le braccia nella melma, per ripulire lo scarico. Ricordo che mio padre e io restammo ‘folgorati’ da te, da quel tuo lavoro necessario e improvvisato, stupiti dal fine controllo che avevi dello stabile. Eri responsabile, perché ti incaricavi anche di cose oltre le tue mansioni. Ne parlammo ancora nei giorni a venire.

Eri un corto circuito vivente: il sorriso malandrino e la voce compassionevole. Quando bussavi alla porta avresti potuto venderci un elefante rosa. E quando hai bussato per l’ultima volta, per congedarti dal tuo incarico, hai dimostrato concretamente come è fatto un italiano educato, come vive una persona che ha a cuore gli altri. Un altro avrebbe messo una fotocopia in ogni cassetta postale.

Poi un giorno dei miei venticinque anni io ho ricevuto la cartolina del servizio militare. E tu ne hai ricevuta un’altra. Mi hai chiesto chi fosse il mio dentista. Dovevi ‘urgentemente’ fare una pulizia dei denti. Io ti ho mandato dal buon Omero.
Il condominio è piccolo e tutti sapevamo dove stavi correndo.

Io ero stato spedito ad Avellino e tu a Cinecittà. Io in caserma e tu nella Casa. Ti guardavo la sera con tutti i commilitoni alla TV dello spaccio. Non ti riconoscevo: era lampante che tu stessi recitando una parte. Non ti avevo mai sentito parlare in quel dialetto strano e men che meno avere una logica di quel (basso) tipo. Ma si sa, la televisione impone pesanti semplificazioni, specie in un format nuovo dove è necessario distinguere bene i concorrenti in gioco.
Notavo che non facevi presa sugli strati bassi della ciurma. C’era tifo per te ed eccitazione per la nuova trasmissione, ma non eri diventato l’idolo di quella meridionalità falsa che rappresentavi. È stata la tua miglior mossa: la caricatura spinta del meridionale arretrato e senza cervello ti ha protetto dai meridionali arretrati e senza cervello. Ma con quel ruolo hai divelto le porte della televisione nazionale. Ecco il calcolo: rinunciare al facile per ottenere il difficile, al poco per il molto. Se non lo hai fatto coscientemente, allora presumo che tu abbia avuto nel sangue il risultato più che il calcolo: una visione avanzata delle cose.

Lo spettacolo stava diventando il tuo lavoro quotidiano. Era ovvio che avessi scelto una tale strada ben prima di entrare nella casa. Sono sicuro di poter dire che il Grande Fratello è stata un’occasione facile e giunta al momento opportuno (aspettavano solo te!), ma ti avremmo avuto ugualmente sugli schermi, proprio come attore, in un modo o nell’altro.

Molti artisti vivono lo spettacolo come uno sciopero, parlano e sentenziano come sindacalisti. Tu eri un nuovo modello di “lavoratore dello spettacolo”. Avevi deciso di essere un professionista completo e dimostravi a tutti – increduli – che anche in quest’epoca di veline improvvisate occorre studiare per resistere, e per essere apprezzati su larga scala. Come un David Bowie nostrano ci avevi fatto capire che “le masse creano e distruggono gli idoli”.

Perdonaci. Pochi sanno che tu eri un giovane di altri tempi. È ovvio che lo sport estremo, fatto con passione e naturalezza da un attore di calibro crescente non è lo scarica-stress di un impiegato. È chiaro che il paracadutismo fosse per te un ulteriore campo dove formarti proprio come attore e magari diventare il nuovo Jean-Paul Belmondo d’Italia. Perdonaci se la televisione ci ha impigrito e resi miopi.

La vita è strana.
Un anno dopo il Grande Fratello eri scomparso dalle scene e evidentemente ti preparavi al prossimo futuro: studiavi e facevi il “numero zero” di alcune trasmissioni. Il destino ha voluto che fossi proprio io a farti una proposta.

Ho un triste ricordo di quella cena a Roma. È stata l’ultima volta che ci siamo visti.
Eri confuso e potevo capirlo bene. Non ci si abitua subito al successo nazionale, tantomeno se si ha la tua struttura generale e la tua educazione al lavoro e ai risultati.
Quella cena fu triste, perché venisti con due guardie del corpo e con un'agente (donna) che ti controllavano quasi totalmente.
Si vedeva lontano un miglio che non era questo il tipo di "successo" che desideravi.
Ti saresti protetto da solo e avresti pensato volentieri da solo a che cosa fare della tua vita.
Poi credo che successivamente tu ti sia liberato dei tuoi "tutori" opprimenti e abbia cominciato ad agire in maggiore autonomia e comprensione dello star system.

Quella sera, soprattutto, devi avermi guardato con sospetto e anche pensato: “che ci fa qui il figlio del signor Mavilio?”. Una casa di produzione londinese e una famosa compagnia aerea ti volevano per una trasmissione che avvicinasse le persone al volo. Ti avremmo insegnato prima a volare da buon passeggero e infine anche a pilotare un Super80. Nell’ultima puntata, con adeguata istruzione e ovviamente in “tandem” ti saresti dovuto lanciare col paracadute da un piccolo aereo, forse a Pontecagnano. Ricordo che a sentire queste cose hai storto il muso, e noi pensammo di rivolgerci a Natasha Stefanenko, che aveva già qualche esperienza di paracadutismo.

Non se ne fece più nulla. La Stefanenko aveva appena avuto una bambina e l’11 settembre aveva improvvisamente falciato i bilanci delle compagnie aeree e inquinato tutti i discorsi della televisione. Qualcuno aveva deciso che gli eroi del quotidiano dovevano morire in massa.

Dopo quasi 10 anni mi sveglio, una mattina, con la notizia del tuo incidente. Sei già morto ma ancora prego per te perché le notizie in Giappone mi raggiungono a grandi chicchi, disordinate e cariche di un’apprensione che non si era mai vista negli ultimi anni.

Mi si ferma il cuore: l’ultimo discorso che avevamo fatto era sul paracadutismo...

Ho cercato di capire la dinamica del tuo incidente.
Come al solito, tutto ciò che riguarda l’aria non gode di scientifico approfondimento nei telegiornali. Il lancio è stato buono, la vela si è spiegata bene, la discesa è stata buona.
Qualcuno ha parlato di una folata di vento.
Qualcun altro ha parlato del segnale acustico dei cento metri, che forse non hai sentito. Ma credo che dopo quattrocento lanci tu abbia imparato a sentire la prossimità della terra.
Fatto sta che già in sottovento ti hanno visto ritardare la frenata. Qualunque cosa possa essere successa… a un errore umano si è sommato qualcosa di un errore sovraumano.
La mia domanda è: “perché hai voluto ad ogni costo chiudere la virata base?”. Un paracadutista può atterrare praticamente ovunque. Con un ritardo nella frenata avresti dovuto ignorare la procedura e fare il “flare” fuori pista, cioè addolcire il contatto con la terra in una parte qualunque del campo… Io temo che il tuo amore per la forma e per la regola d’arte ti sia stato fatale in quella virata per il finale.

Per quel po’ che ti ho conosciuto sei sempre stato una domanda. Per tutta Italia sei stato una domanda. E con una domanda ci lasci.

La tua morte ha rivelato e liberato tutta l’energia del tuo moto. La tua vita privata è un esempio di rettitudine, la tua intelligente tenacia è una scuola che resterà viva a lungo. Il Paese ha avuto un contraccolpo, e qualcuno ha comparato lo strazio silente delle morti sul lavoro con la morte di un attore soddisfatto e ‘fortunato’.
Perdona, ora che puoi, l’ondeggiare confuso di chi non coglie l’essenza e l’unità delle cose. La tua morte non è diversa da quella di un operaio, entrambe ci gettano nello sconforto più totale. Entrambe rappresentano un’ingiustizia immeritata.

Sono contento di averti inquadrato – in questa mia lettera – come un "lavoratore" e per quel poco che so direttamente di te sono convinto che tu sia morto "sul lavoro". Il paracadutismo come ricerca dell'eccellenza per il tuo futuro di attore di film di azione.
Che si siano visti video dove eccitato ti lanciavi con tua moglie non vuol dire che eri un ragazzo che si divertiva all'eccesso, in barba ai poveri operai che muoiono in fabbrica...
Non mi è piaciuta questa contrapposizione "Taricone-operai" che è nata sul web.

Un Taricone che nella sua cerchia ristretta era già un esempio prima di diventare famoso, e che era umile e naturale anche dopo essere diventato famoso, deve ricordarci che in Italia esistono ancora persone tenaci, con programmi di crescita, idee chiare e voglia di lavorare.
Raggiungere il lavoro che si desidera e farlo con entusiasta partecipazione non può passare per un peccato di vanità solo perché c'è gente che non sa vivere, che non sa scegliere, che non sa prendersi cura del proprio quotidiano.

Tu eri un lavoratore... famoso. Famoso perché intelligente, simpatico e in gamba.
Non è vero che chiunque abbia la chance del Grande Fratello sia destinato a restare famoso.
Ci vuole altro per vivere nel cuore della gente.

Tu sei morto, forse per il perfezionismo del tuo carattere unito a un momento operativo difficile... ma potevi silenziosamente insegnare, e hai insegnato, come si vive e come ci si amministra.

Tu sei stato uno bravo, non un fortunato.
Un operaio dello spettacolo.
Cosa rara. E bella quanto rara.


Su Alessandro W. Mavilio
Orientalista, scrittore, cineasta. Laureato in Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, Alessandro Mavilio ha insegnato per più di un decennio all’Università Industriale di Kyoto. Nell’àmbito del progetto “Taoist Movies” è autore anche di numerosi cortometraggi sperimentali girati in Giappone.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone, di Alessandro W. Mavilio (Gli Ibischi, 2015)