Squarci | lunedì 25 gennaio 2010

Aristide Abbati

Il bucato

Iolanda, una ragazza che aiutava mia zia nel disbrigo delle faccende domestiche, una volta per settimana faceva il bucato in giardino, per lavare lenzuola, tovaglie e tutta la biancheria in genere.
In quel periodo sapone e detersivi erano quasi introvabili; i panni si lavavano con la radica saponaria e il bucato consisteva nel bollire i panni con cenere di legna.
Allora il bucato si faceva in giardino; si utilizzava un barile da carburante da cui era stato tagliato via uno dei due fondi, che veniva appoggiato su due basi di mattoni ammucchiati; per coperchio c’era un grande disco d’alluminio, che sporgeva di un buon palmo dall’orlo del barile. Sotto il barile si ammucchiava legna raccogliticcia, quasi sempre umida, che rendeva laboriosissimo avviare il fuoco. Perché poi l’acqua del barile arrivasse ad ebollizione occorrevano ore e non bisognava stancarsi di soffiare, di sventolare e di rabboccare nuova legna sotto il barile.
Nei miei spostamenti in bicicletta per andare a prendere il latte, avevo visto nei campi, a lato della strada, numerose cassette di legno bianco, contenenti delle specie di grossi mattoni rivestiti di carta oleata. I campi erano stati sminati di recente e le cassette erano mine anticarro, private del detonatore e ammucchiate all’aperto in attesa di venir raccolte e portate alla loro destinazione finale; i grossi mattoni erano blocchi di tritolo.
Avevo visto dei ragazzi che, ritagliati pezzetti di tritolo da uno di quei mattoni, lo accendevano in mezzo al campo; quello iniziava a bruciare dapprima lentamente, poi ben presto più vigorosamente ed i ragazzi dovevano allontanarsi a causa del grande calore sprigionato dalla combustione; allora mi venne un’idea “luminosa”.
Raccolgo uno di quei mattoni e me lo porto a casa. Quando vedo Iolanda che faticosamente tenta di accendere il fuoco sotto il barile del bucato, prendo un bel pezzo di tritolo e lo getto sotto il barile, ma forse esagero con la quantità. Ben presto il tritolo si accende, sviluppa un’altissima fiammata che sembra non spegnersi mai, con corredo di un denso fumo nero che ci occulta alla vista il barile e quant’altro intorno.
Quando finalmente la fiammata si spegne possiamo renderci conto che il bordo sporgente del coperchio d’alluminio si è fuso ed il coperchio è caduto all’interno del barile, dove è sommerso da una cenere nerissima e grassa; l’acqua è quasi completamente consumata; la biancheria è tutta impregnata di un grasso nero e praticamente ridotta da buttar via…


Su Aristide Abbati
Nato a Rimini nel 1931, da padre ferrarese e madre viennese, entrambi medici, dopo un periodo ad Ancona nell’Istituto Tecnico Nautico ed un altro di lavori vari, è entrato nel settore nautico, con incarichi dapprima di carattere tecnico, poi commerciale. Per motivi di lavoro ha viaggiato parecchio, con particolare frequenza in Francia, Germania e Stati Uniti. Appassionato di vela, senza tuttavia aver raggiunto livelli rilevanti in tale sport. Da molti anni in pensione, nonno orgoglioso di tre splendidi nipoti, tutti all’Università, si diletta di lettura e talvolta di tradurre dispense e tesi di laurea per figli universitari di amici e dei loro amici, senza mai rinunciare ad una passeggiata di un paio d’ore prima dell’alba sul lungomare di Terracina.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.