Da Kyoto | martedì 3 gennaio 2006

Francesco De Sio Lazzari

Il Cinema taoista di Alessandro Mavilio

Il testo che segue è il risultato di una lunga conversazione con Alessandro Mavilio, ex studente dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli, laureato in “Lingue e civiltà orientali”, studioso di lingua e letteratura giapponese e attualmente lettore presso alcune Università giapponesi del Kansai.
Nel 2004 Alessandro Mavilio ha iniziato un’interessante sperimentazione che si muove tra cinema e documentario, ispirandosi, in qualche modo, all’antico testo cinese attribuito a Lao Tse: il Tao- Te- Ching, il celebre “Libro della Via e della Virtù” (dal quale sono tratte le citazioni contenute nel testo).
Le parti in corsivo sono le risposte dello stesso Mavilio ad alcune domande che gli ho posto.Francesco Lazzari, 2005


Un bel CD raccoglie gli Street Movies di Alessandro Mavilio, storie girate in strada, con gente comune, che non sa di essere oggetto di una ripresa.

Questi brevi film dimostrano che si può fare un film su chiunque, con chiunque. 

Basta sapere dove caricare di sensazioni, e come agganciare lo spettatore, stimolare il suo interesse e la sua sensibilità.

Alessandro Mavilio non ama la "scena artistica": questo è evidente. Per una persona come Mavilio, la “scena artistica” è piena di persone che per emergere devono sottrarre energie al processo creativo. 

E spesso i riconoscimenti mondani sono solo il risultato del rispetto di codici sociali ben precisi, o di una particolare bravura nelle relazioni, e perciò durano una settimana e poi sfumano via... Nessuno ricorda più l’opera e il premiato.

Ben diversa l’ispirazione di questi brevi film di Mavilio. Sono opera di un solitario, che ha lasciato l’Italia per il Giappone, dove vive insegnando italiano a Kyoto. Nel tempo libero dal lavoro Mavilio gira per le strade con camera, cavalletto e occhio attento. La sua sensibilità gli permette d’intuire e di cogliere, nei prevedibili pattern quotidiani della gente comune, le intense sfumature di un viso, o i movimenti di un corpo, carichi di messaggi che spesso nessuno coglie.

Gan, uno dei cortometraggi di Mavilio, è parte di una tetralogia dal taglio sperimentale, ed è lo Street Movie per eccellenza, almeno nella sua visione di "film della strada, film taoisti". L'attore (un avventore ovviamente inconsapevole) è stupendo, una figura singolare e potente. E il filmino è un piccolo miracolo. Gan significa "cancro", ed è il titolo di un famoso romanzo giapponese. 

Mavilio ha estrapolato da una ripresa irripetibile un "piano-sequenza" di ben cinque minuti, con un uomo in movimento (e non con “materiale inerte”), mentre la camera ha fatto le necessarie carrellate lineari e curve in quasi perfetta simbiosi con l'attore. 

L'attore va verso casa, e il suo andare in bicicletta è scandito da una serie di pensieri. Parla di una infermiera grassa, dice "tutti sono stati gentili con me", pensa a come organizzarsi la vita una volta rientrato nella propria abitazione. Soltanto con l’ultima battuta si scopre che è destinato a morire entro poco tempo, e questa scoperta getta una luce nuova su tutto ciò che si è visto nelle sequenze precedenti. Sembra di intuire che - seppur nella finzione filmica - le cose non siano andate come il protagonista le ha ricordate, ma ch’egli sia in una condizione psicologica tale da voler vedere gentilezza anche dove non ce n’è stata. 

Nelle brevi scene di cui è fatto Gan, le semplici didascalie – che scandiscono il ritorno a casa dall’ospedale – sono un rivivere l’esperienza della malattia e dell’ospedale cercando di cogliervi un segno positivo: umano, e patetico, tentativo di negare che la morte sta venendo. 

Emerge in Gan - dai discorsi un po' a vanvera e un po' infantili, simulazione del flusso di pensieri - una persona alla quale lo spettatore si lega in pochissimi minuti. E sarebbe stato meno interessante un filmino dove il protagonista non facesse altro che dire "come sono triste, morirò! Perché io?". 

Con tocchi leggeri, Mavilio dà tutta la consistenza di un dramma. Senza disperazioni, senza magniloquenza. Immagini, poche parole, la verità finale, e si può vedere una seconda volta Gan con la sensazione che sia un piccolo dramma, essenziale nella sua estrema sobrietà, perché isola quell’unica sequenza densa di significato, importante sia per il protagonista che per i suoi spettatori, risparmiando inutili prologhi ed epiloghi.

Gan ha uno strano inizio, complice la musica molto bella: Oborozukiyo [Notte di luna pallida] di Nakashima Mika. 
C’è una lunga inquadratura di una macchina bianca. All'inizio, questa sosta sulla macchina bianca può apparire immotivata, e può stupire o stancare lo spettatore abituato ad altri ritmi, a lungometraggi che aderiscono a manierismi ormai affermati o a cortometraggi che lottano contro i limiti imposti dal tempo. In realtà – mentre la musica, prima di entrare nel suo fuoco, ha una lunga introduzione – Mavilio non aveva altro da filmare in quel momento. Filmava la macchina bianca perché “non aveva altro da filmare”. Molti film di Mavilio, infatti, tradiscono un inizio che è preparazione alla visione e alla ripresa stessa. Come se regista, camera e spettatore avessero bisogno di un tempo per calarsi nella modalità necessaria alla “visione”, alla corretta apertura al mondo reale, alle sue vicende, ai suoi drammi. Quando ha iniziato a filmare Gan, lo stesso Mavilio non aveva ancora visto lo sfondo né si era accorto dell'attore in bicicletta. Soltanto dopo molti secondi arriva nel quadro il protagonista, una sagoma lontana e curva che sembra reclamare attenzione, fuoco, quadro.
Poi, comincia una lunga e lenta carrellata verso sinistra. Carrellando cominciano i sottotitoli, ma ancora non si vede nessuno nel quadro. C’è quasi un attimo d’incertezza, di smarrimento, che rende più efficace l’inizio della storia, la ricerca della storia. Si capisce al volo che chi parla (pensa) è quella piccola silhouette in bicicletta, sullo sfondo, dall'altra parte del fiume. Da quella silhouette, colta al suo primo apparire, si sviluppa tutto il film (“Percepire ciò che è piccolo vuol dire avere la visione”, cap. LII). E’ una lenta carrellata di quasi 50 metri, che segue alla stessa velocità un elemento a più di cento metri, con un largo fiume di mezzo! Per 50 metri camera e attore hanno avuto la stessa velocità.
Con questa lenta carrellata si capisce che ci si trova di fronte a un film dove almeno la camera segue, o cerca di seguire, le consuetudini del vero cinema.
Quando l'attore si muove sulla salita, anche la camera lo segue. Quando arriva al ponte e fa per attraversarlo, la camera si ferma per riprendere il protagonista, in una prospettiva accidentale, mentre percorre il ponte. La pausa nella carrellata – dunque l’assenza di un movimento di macchina - permette allo spettatore di concentrarsi sul testo, la storia del protagonista.

Mentre la musica suggerisce in diversi punti, e sottolinea alcuni passaggi, il protagonista arriva finalmente vicino alla camera, col suo viso stupendo. L' "attore" su cui lavora Mavilio è uno sconosciuto realmente pensieroso e preoccupato per qualcosa. Quando è fermo all'angolo di strada, lo si può vedere che muove anche la bocca come se dicesse a se stesso alcune parole: pensieri troppo forti per essere trattenuti...
Sempre con lo splendido sottofondo musicale di Nakashima, comincia un'altra carrellata, stavolta semicircolare, mentre il protagonista fuma una sigaretta nella mattina fredda. La carrellata circolare amplifica le azioni vuote dell’attore, la momentanea mancanza di pensieri-sottotitoli, i suoi gesti, e fa vedere lo sfondo, il fumo di sigaretta in controluce, la verde e bella natura di Kyoto e soprattutto... permette di notare che l'attore, dopo aver fatto un tratto in salita in bici e fumando, si è fermato all'inizio di un tratto in discesa, dove la strada è libera. E' chiaro, pur nell’assenza di parole, che egli è stato preso da qualche pensiero particolarmente grave.
In Gan si ha spesso la sensazione di essere soli con il protagonista nonostante i movimenti di macchina, la presenza di una strada affollata e altre figure nel quadro. Mavilio è riuscito a ospitare attore e spettatore sullo stesso mezzo, a isolarli dal “rumore” circostante. Le lunghe e complesse carrellate, tanto importanti per l’effetto generale di Gan, non erano per nulla controllate da Mavilio che viaggiava a bordo di un autobus municipale. Tuttavia questa singolare e inattesa sintonia tra scena, attore e movimento fa dire a Mavilio che il suo è un “cinema taoista". 
Non si dice al mondo che cosa deve fare, ma si filma il mondo mentre le cose avvengono. E poi, al limite, si ritocca qua e là. Senza mai fare violenza alle immagini. 
(Ma su ciò si tornerà in seguito, per qualche riflessione sulla fase del montaggio e del lettering...)
Mavilio è bravissimo nel cercare di cogliere ogni particolare nell'attore e nello spazio in cui si muove, ogni dettaglio che possa aiutare a capire chi potrebbe essere e che cosa potrebbe raccontare. Utilizza la geografia dei posti, la strada che i protagonisti percorrono e come la percorrono, per aiutare le immagini originali a imporre alla nostra attenzione il significato che esse portano comunque con sé.
Quando il protagonista di Gan attraversa il ponte, egli incrocia un'altra bicicletta. Spesso i marciapiedi dei ponti sono stretti, e due bici non possono sfrecciare senza che una della due si fermi. Non ci sono regole, si ferma chi ha meno fretta, chi è più impacciato o più debole. Il protagonista di Gan si fermò, e questo particolare, nella fase di montaggio, mi ha aiutato a capire che tipo di persona potesse essere, per cucirgli una storia addosso. Fu il momento dell’illuminazione. Ecco la storia avrebbe potuto essere questa ...
In alcuni momenti, sembra che Mavilio filmi gli uomini nella città così come si dovrebbero filmare gli animali in una foresta o in una savana dell’Africa. Ne L'anatra questo tipo di sguardo è particolarmente accentuato. 
Il regista si avvicina piano piano a due ragazzi senza che essi ne siano infastiditi e senza che modifichino il loro comportamento. I dialoghi sono quelli originali.
Se si sa come fare, le tigri non ti assalgono e, anzi, vengono a partorire i cuccioli sotto la tua telecamera. Più taoista di così?
Itami è un esperimento nell'esperimento. Itami è il nome dell'aeroporto cittadino di Osaka, ma "itami" in giapponese vuol dire anche "dolore". 
Mavilio filma un’amica (una persona consapevole della sua presenza e della sua telecamera) così come avrebbe filmato una sconosciuta, secondo il cliché dei suoi film taoisti: improvvisando - con l’attrice sempre di spalle, in controluce, facendo vedere poco il viso e molto di più l'ambiente circostante. In questo modo, chi dall'inizio ha creduto di vedere il solito street movie rimane stupito quando, alla fine, la ragazza non solo sorride al regista, ma addirittura gli oscura l'obiettivo.
Dal punto di vista di Mavilio, Itami è la prova che esiste un modo non violento, non esigente, per filmare le persone e trarne una storia, anche se - e persino se -sono consapevoli della ripresa. Se una persona è consapevole della ripresa, ciò non vuol dire che debba essere filmata nello stesso modo in cui, da sempre, si riprendono gli attori in senso stretto. 
Splendido, infine, La mano di Asadoya. Kouta, il protagonista maschile, è una figura eccezionale, e Mavilio è in stato di grazia. E’ una storia allegra, straziante, e di grande delicatezza. 
Il film ricalca l’antica vicenda di Asadoya, una ragazza di Okinawa che osò rifiutare uno sposo promesso e ricco per un amore vero ma non degno di lei. E’ un piccolo capolavoro di questo cinema “taoista”. 
Senza nulla fare, si fa il film. Solo osservare (e filmare) e permettere una qualche relazione tra due o più elementi.
Si è accennato, più volte, al cinema “taoista”. Mavilio osserva che, mentre si può parlare di cinema buddhista, non si parla di cinema taoista. C'è il cinema cinese, quello di Hong Kong, un certo cinema pornografico che, per suggerire la presenza di attrici cinesi, usa talvolta il termine “taoista”, ma non esiste un cinema taoista che si basi realmente sui dettami di tale tipo di filosofia. Mavilio ha coniato il termine scegliendo DOEI, che in giapponese, lingua del Paese in cui opera, vuol dire proprio "cinema del Tao", ma anche “cinema/film/riflesso/luccichio/rivelazione della strada", perché Tao è "la Via, la strada". 
Tutti i brevi film di Mavilio, nella loro povertà di mezzi, nascono infatti per strada, e della strada intendono esaltare la ricchezza. Il suo stile è quello che il Tao-te-ching definirebbe della “visione sottile": “Questo è ciò che si chiama una visione sottile: il molle e il debole vincono il duro e il forte” (cap. XXXVI, ma vedi anche il cap. XL: “La debolezza è il metodo della Via”). 
Minimi ma efficaci i movimenti del regista, e la sua presenza ... equa, discreta, non invadente. Mavilio riduce al minimo la propria azione. Non è un regista nel senso occidentale del termine, e neanche come tanti registi orientali di taglio occidentale. Egli sembra persuaso che “ talvolta gli esseri subiscono un accrescimento grazie a una perdita, talvolta una perdita a causa di un accrescimento” (cap. XLII). E diventa così un regista che “non agisce” (cap. XLIII). La sua pratica di regista lo conduce a “diminuirsi ogni giorno” fin quasi ad arrivare a una sorta di “non-agire” – e si sa che “non agendo, non esiste niente che non si faccia” (cap. XLVIII).
I suoi film, brevi e preziosi, rivelano tutte le potenzialità di un tipo di riprese che seguano l’andamento della vita, in un determinato momento e luogo. Egli dice che 
Il mondo è dinamico e risponde in misura precisa alle nostre azioni fisiche ma anche a quelle "mentali". Un regista vero e normale vuole, chiede o pretende che quel bambino si muova così, che una donna faccia quel gesto, che nessun camion si fermi davanti al soggetto. Il cinema ‘normale’ richiede il totale controllo sulla realtà.

Taoisticamente, Mavilio non vuole e non ha bisogno di questo controllo, perché con la sua “visione sottile” mira a fare - del tempo delle riprese - un momento di concentrazione e di esercizio spirituale. E solo del tempo del montaggio e della scrittura dei sottotitoli un momento di creatività effettiva.
La differenza tra me e un regista “normale” è certamente la mancanza di soggetto e sceneggiatura. Io non posso neanche avere una idea di base. Ho dunque bisogno di iniziare la registrazione dopo aver raggiunto un notevole vuoto di fine. Tutte le volte che ho sperato di riprendere un nibbio al fiume non l’ho mai trovato. Tutte le volte che ho sperato che una vecchietta cambiasse strada a favore della telecamera non lo ha mai fatto… Tutte le volte che in fondo al cuore non ho mai davvero avuto alcuna richiesta ho assistito io stesso a piccoli miracoli.
Per chi non ha copione, la fase del montaggio sembrerebbe dover essere assolutamente essenziale per tagliare gli elementi di disturbo o le riprese venute male. Ma secondo Mavilio nessuna immagine, in realtà, è di reale disturbo, o incoerente rispetto alla storia, purché non si abbia nessuna visione "violenta", pre-stabilita, rigida, del risultato finale. Tutte le immagini sono buone, se si sa accoglierle e leggerle a fondo.
Con la sua camera Mavilio si trasforma in occhio, puro occhio che osserva, quasi avesse raggiunto, in alcuni momenti, “il vuoto estremo” (cap. XVI). Non cerca di controllare le cose, ma le registra mentre fluiscono. Non si oppone allo sviluppo naturale di una situazione, ma si limita a seguirla, come se si fosse svuotato del proprio io. Si potrebbe dire ch’egli riprende con la camera “in conformità con la Via”, perché “s’identifica con la Via” (cap. XXIII)
Certo, rispetto a un punto di vista che sia rigorosamente taoista, la fase del montaggio pone invece un grosso problema. Se le riprese sono aderenti alla realtà, e fissano alcuni momenti del suo fluire, il regista interviene necessariamente per ridurre il filmato e ricondurre il materiale entro determinati limiti.
Nel montaggio mi limito spesso a tagliare le parti che giudico ridondanti. E con questo sto attento a non uniformarmi a una precisa maniera: se c’è da annoiarsi, lascio che il film annoi. Se c’è da stupirsi, lascio che lo spettatore si stupisca. Tuttavia, combattuto tra una sorta di rispetto per i miei attori e una sorta di benevolenza per i miei spettatori, mi trovo spesso al cospetto di bivi imbarazzanti. A sbrogliare la matassa, anche nella fase del montaggio, interviene spesso una specie di visione salvifica… Tecnicamente, posso solo dire che tra un taglio e l’altro mi impongo di usare sempre spezzoni nel rigoroso ordine cronologico originale. Poeticamente, lascio che i miei attori prendano vita sul “preview”, il piccolo schermo col quale monto.
Ciò vuol dire comunque condensare la storia, scegliendone alcuni aspetti ed eliminandone altri. E certamente questo tipo di operazione non appare strettamente taoista. C’è rispetto della vita nelle riprese, ma c’è un qualche intervento sulla vita e il suo fluire, nel montaggio e nella scrittura dei testi. La proposta di Mavilio resta comunque di grande interesse, e dovrà misurarsi – prima o poi – anche con questa (innegabile) contraddizione ma già sembra mostrarci una… strada percorribile per reinterpretare immagini quotidiane e farne piccoli capolavori.
Fantasia e creatività (l’intervento umano, insomma) non mi sembrano attività in contrasto con la Via. Per quanto mi riguarda, i miei interventi sul girato e sul montato seguono comunque un fluire naturale: credo di aggiungere elementi alla stessa maniera in cui li sottraggo dalla materia fondamentale a mia disposizione: le immagini e le sequenze che esse generano. È nelle fasi successive alla ripresa che il mio operato, se ci si ferma a una analisi superficiale, sembra spesso sfiorare una specie di paradosso interno. A una mia apparente inattività nella fase delle riprese si contrappone una vivace opera di interpretazione, riscrittura e sovvertimento del mondo visibile. E ciò segue certamente una logica e un gusto soggettivi… 
Tuttavia la “dualità Yin-Yang”, nel senso più ampio del termine, rimane il fondamento del Tao. Yin e Yang si incontrano e contrappongono da sempre e il risultato è il Tao stesso. 
In questo cinema che si presenta come “non violento”, Yin e Yang possono essere riconosciuti nel mio operare come un “difetto di azione” e un “eccesso di azione”: il mio limitarmi a registrare e il mio re-interpretare i fenomeni visibili. Tuttavia i miei film si rivelano taoisti soprattutto alla loro proiezione, quando tutto il processo produttivo si è concluso. Dunque, se difetto di azione e eccesso di azione mi portano alla “non-azione” taoista – che ricordo essere una azione fondata sul Vuoto e non una azione che non si è mai compiuta - ovvero a un risultato stilistico che gli si avvicini molto, è qui che credo di poter dire che i film di Doei sono film taoisti.

Un secondo ordine di problemi, sempre sul piano ‘teorico’, è dato dalla funzione del sonoro e delle frasi, scritte da Mavilio, che scorrono mentre sullo schermo passano le immagini.
Per creare una sorta di scollamento tra la realtà documentaria e la realtà fittizia e per evitare che i miei spettatori abbiano la sensazione di “evelina” - e cioè di un servizio telegiornalistico non ancora montato e ottimizzato - ho pensato dall’inizio di dover agire energicamente sulla traccia sonora. Questa, infatti, accompagnerebbe le immagini del girato originale per tutta la loro durata veicolando un noioso senso di amatoriale… Nella maggioranza dei casi, dunque, abolisco totalmente la traccia sonora originale e la ricreo con campioni sonori pressoché identici: scorrere d’acqua, frinire di cicale, rombo di aerei…. Oppure la sostituisco per intero con una traccia musicale. Tanto basta ad ottenere l’effetto desiderato, in modo da poter lavorare su immagini pulite.
Alla mancanza del sonoro, alla rinuncia della presa diretta, al disinteresse - o impossibilità - di far recitare gli attori, Mavilio ha supplito coi sottotitoli. Egli non scrive dialoghi ma molto più spesso i pensieri degli attori, e così aggiunge accenni testuali che un dialogo o un monologo non potrebbero veicolare. Questa traccia testuale permette di trasmettere una serie di informazioni che caratterizzano attivamente e velocemente il personaggio e lo spazio in cui vive. 
All’inizio temevo che il servirmi di sottotitoli potesse far piombare – e sarebbe stato improponibile - il mio cinema ai tempi del muto. Mi sbagliavo, in parte, perché non applico propriamente “cartelli” bensì veri e propri sottotitoli che scorrono in tempo reale; mi sbagliavo anche perché tale pratica attualizza incredibilmente i miei film: il fatto che Internet renda in qualche modo disponibili i veri film al download fa sì che chiunque possa scaricare un film, che so, filippino – mai distribuito e mai ufficialmente tradotto - e vederlo con rudimentali sottotitoli in inglese recuperati su altri circuiti alternativi. Una certa audience internazionale ha imparato a rinunciare alla traccia vocale originale degli attori per concentrarsi sul crudo testo.
Negli street movies “taoisti” di Mavilio un buon 50% del risultato si fonda sull'elemento testo. Le battute, spesso brevissime, mettono in rilievo particolari a prima vista insignificanti, e che invece possono rivelarsi cruciali durante la proiezione. 
Ed ecco il problema. Se c’è rispetto delle immagini registrate così come esse si presentano, per la strada, al regista, se sul piano del susseguirsi delle immagini (sia pur coi limiti determinati dal montaggio) i film di Mavilio sembrano rispecchiare la via sulla quale scorriamo tutti noi, e tutti gli esseri, l’elemento testo sembra creare un duplice piano: rispetto per le immagini, ma una certa violenza/pressione delle parole sulle immagini. 
Mavilio ci dà una realtà ... al naturale, ma la corregge con le parole che, di fatto, costruiscono la storia accompagnandola.
Molti mi hanno chiesto di rinunciare al testo, osservando che anche con le sole immagini i miei film resterebbero godibili e comprensibili. Mi spiace dire che non sono d’accordo. Sebbene la mia filosofia operativa si basi sul Taoismo, non mi sento di rinunciare a un minimo intervento creativo. La maggior parte dei miei sforzi si concentra comunque sul tentativo di non abusare delle illimitate possibilità datemi dalla tecnica e dalla fantasia. Una sorta di transfert che avviene in fase di montaggio e lettering mi fa dire che nei miei film c’è uno sfiorare la finzione e uno sfiorare la realtà. Ma di fatto non c’è finzione e non c’è realtà. 
Io stesso non saprei dire che tipo di cinema ho inventato. Presunta realtà o possibile finzione, azione o inazione sono solo gli ingredienti estremi di questa ricetta. Ciò che chiamo Tao ne è il sapore diffuso.


Un’ultima piccola osservazione, con la quale chiudere, per il momento, questa breve analisi della filmografia di Mavilio. Nei suoi film “taoisti” è ritornante il suono della “trombetta del venditore ambulante di tofu”, inteso come suono doei per eccellenza. 
E’ il simbolo sonoro dei suoi film, e si sente all’inizio di ogni corto quando passa lo stemma dei “film taoisti” e spesso, inaspettatamente, anche durante la proiezione ...
L’ho scelto perché, a mio parere, quel suono identifica “la strada” giapponese, come nelle nostre città fanno i clacson. Ma è anche un suono che caratterizza culturalmente un’area ben precisa: il Giappone. Suggerisce (a chi ci arriva) che il tema è “la strada”. E quando chi non sa, o non ha mai sentito tale suono, un giorno lo dovesse sentire dal vivo, per strada – e dopo aver visto i miei film -, avrà la sensazione che tutto, all’improvviso, si sia ordinato nella sua mente.
In quanto utente della strada proverà una sorta di comunione con la strada stessa, se ne sentirà parte attiva e passiva, come se avesse capito qualcosa che comunque non sa esprimere, quasi una sorta di microilluminazione terapeutica, non reale, ma comunque un’illuminazione di un qualche tipo.
La strada, quella fatta di asfalto e brecciolino che tutti calpestiamo, intesa come simbolo della Via taoista sulla quale tutti ci muoviamo…
Tra gli innumerevoli segnali nuovi e incomprensibili che percepisce chi viene per la prima volta in Giappone, il suono della trombetta del venditore di tofu è un suono che fa trasalire, ed è in grado di risvegliare colui che è predisposto a una determinata esperienza. E’ una sensazione inesprimibile, un suono malinconico ma rassicurante, che si ripete da sempre e ogni giorno nelle viuzze più strette e inaccessibili.


Questo suono malinconico ma rassicurante - che si ripete da sempre - è, in quanto tale, veicolo per un messaggio antico, sempre valido ma solo parzialmente leggibile...


https://www.mavilio.com/


Su Francesco De Sio Lazzari
E' il Decano di Orientexpress, carica che deve solo al minaccioso scorrere del tempo. (Volentieri rinunzierebbe, ma sembra sia impossibile!) Ha insegnato "Storia delle religioni” all’Orientale, ispirandosi all’idea che l’insegnamento debba soprattutto decostruire le certezze. Sensibile ai dislocamenti dei testi, alle intensità, ai divenire, alle linee di fuga, insegue da sempre le suggestioni di un pensiero che sia spazio di dissoluzione, dissolvenza di soluzioni. Ama i percorsi autodistruttivi, i rituali della perdita, l’indifferenza alle certezze.

Sulla rubrica Da Kyoto
Di tanto in tanto un contributo da Kyoto, l'antica capitale del Giappone. Perché questo è un mondo immenso e le grandi distanze, le culture diverse, mettono alla prova le capacità del pensiero. Il pensiero e le visioni del mondo non sono mai scontati. Se si cambia orizzonte geografico, e l'angolo d'osservazione per guardare il mondo e per riflettere su di esso, ci si accorge subito che i punti di vista - gli stili del pensiero - sono innumerevoli... Questi scritti sono stati raccolti in circa dieci anni e si sono condensati e completati nel libro "Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone".

Orientale Lumen - Studi e vita all'Orientale, di Francesco De Sio Lazzari (I Dibattiti, 2020)