Squarci | mercoledì 17 giugno 2009

Luca Cerullo

Canto di Natale

Raggiunsi la casa dei Marlowe, nota a tutti come la vecchia fattoria, verso le sei e trenta. Il cielo era scuro e le stelle gettavano una luce gelida sulla strada polverosa che assisteva deserta alla vigilia di Natale.
Avevo il mio cappello blu che mi difendeva dal vento, una malvagia tramontana che agitava i cuori e gli animi di Malenville, rapiti dalla febbre natalizia e dall’attesa per la messa e per i susseguenti festeggiamenti, ognuno rinchiuso nella propria casa con intorno il piccolo nucleo familiare, a farsi luce con le tradizionali candele e a gustare le pietanze natalizie.
La porta era di legno, come quasi tutte a Malenville, guardai oltre la struttura il fienile abbandonato e mi parve di udire ancora i flebili grugniti dei maiali nel periodo della mattanza, quando la vecchia fattoria non era stata ancora rilevata dal signor Marlowe e vi abitavano i Granger, i contadini forestieri che adesso non erano più in vita. Mio padre e mio nonno mi portavano a vedere la mattanza, mi nascondevo tra le gambe di mio padre per paura d’incrociare lo sguardo di qualche porco destinato alla morte violenta.
Sistemandomi il cappotto, spinsi il pugno contro la porta, da dentro la voce calda della madre di Raula mi disse di attendere un attimo, poi, con la stessa voce la udii rivolgersi alla ragazza, che doveva trovarsi al piano superiore.
-E’ arrivato, sbrigatevi!-
I passi della signora attraversarono il salone d’ingresso, rumori metallici mi avvertirono dell’apertura della porta.
La signora Marlowe aveva una nuova capigliatura, alta e pomposa sopra la fronte, impomatata dalle creme che adorava tanto, portava un vestito grigio scuro, lungo e stretto solo sui fianchi, con scarpe da ballo che si nascondevano sotto il drappo dell’abito.
-Buona vigilia signora Marlowe-
-Auguri a te caro, grazie di essere qui-
Le si allargava lentamente un sorriso sul volto, aveva denti bianchi e freschissimi, mentre nell’aria si era già cosparso il suo profumo penetrante alla malvasia.
-Raula è di sopra, scende a momenti e poi andiamo-
-Aspetterò, non c’è problema-
La notizia del ritorno di Raula aveva preso un po’ tutti di sorpresa, e l’intera Malenville era stata molto scettica fino al giorno in cui un nutrito gruppo di persone non si era recato alla vecchia fattoria e aveva insistito per vedere la bambina.
Il padre aveva insistito perché sua figlia riposasse in pace, dicendo che una visita improvvisa di tante persone avrebbe dato fastidio a chiunque, figuriamoci alla sua piccola Raula.
Aveva permesso però a un componente della spedizione di salire in camera della piccola e poi diffondere la notizia che Raula era realmente tornata tra le braccia dei suoi genitori.
Era stata scelta Roberta, una donna anziana che aveva perso il marito in guerra e aveva due figli che non vedeva mai, di cui si diceva che avesse una saggezza pari a poche, lì a Malenville.
Dopo alcuni minuti era tornata sul portico, portando con sé la notizia che tutti attendevano.
Raula era tornata, era a letto, indebolita e pallida, ma era lì, aveva parlato con lei e seppure la voce della piccola era rauca e debole, Roberta aveva riconosciuto la sua tipica inflessione che aveva reso la voce di Raula distinguibile in mezzo a mille.
Il paese allora si era diviso. Da un lato vi erano coloro che avevano accettato il miracolo quasi senza aprire bocca, aspettando impazienti il giorno della prima uscita della bimba, dall’altro però vi erano coloro che non accettavano il fenomeno del ritorno, e protestavano perché Raula, insieme con sua madre e suo padre, lasciassero Malenville per non macchiare il piccolo paesino arroccato di un oltraggio al volere di Dio, perché ritenevano che il Signore non avrebbe mai permesso un evento del genere.
La vigilia di Natale era la notte prestabilita per la prima uscita in pubblico di Raula, la quale adorava il canto di Natale, il tradizionale rito a cui prendeva parte l’intera comunità.
Molti però quell’anno avevano deciso di stare alla larga dalla bambina e dai Marlowe, giurando, durante le conversazioni dei bar e dei parrucchieri, che non avrebbero rivolto alla famiglia della vecchia fattoria nemmeno un solo sguardo. Era opinione di questi che lasciare Malenville fosse il modo migliorare per ringraziare l’oscura forza che aveva voluto il ritorno di Raula, trattando per quello che era, un problema privato.
Il padre di Raula venne giù qualche secondo dopo, nel cuore di Elias mille emozioni si sovrapponevano all’idea di essere sul punto di ritrovare la sua amica del cuore.
Il signor Marlowe, con indosso il vestito di gala e un papillon nero a coprire il colletto della camicia, si fermò a metà delle scale.
-Possiamo?-
La madre annuì, io mi alzai nervosamente, sistemandomi il vestito ai lati con le dita che quasi tremavano.
Avevo il cuore in gola.
Si udirono dei passi lenti, che fecero scricchiolare il legno della vecchia scala, sui gradini i vecchi proprietari erano soliti mettere a conservare le marmellate.
Quando vidi i piedi di Raula, notai subito il colore pallido della sua pelle. Era di un bianco spettrale, le vene che attraversavano la pelle erano nettamente visibili, e nei loro movimenti i piedi davano l’impressione di rendere visibile la rotazione naturale dei tendini e delle caviglie.
Portava una veste azzurra, aperta sul collo, a mostrare il petto ossuto e le arterie che lo attraversavano.
Era smunta, fiacca, ma pur sempre bella.
I suoi occhi verdi avrebbero illuminato l’universo, i suoi capelli erano pettinati alla stessa maniera di sempre, lunghi sulle spalle e a tagliare la fronte diagonalmente, tenuti da una spilla nera.
- Elias -
Disse, la sua voce era simile a quella che segue il risveglio, faceva fatica a raschiare la gola, graffiando di suoni l’aria.
-Raula, cara mia-
Mi avvicinai, era proprio lei e non mi sembrava vero.
Quando l’abbracciai notai la sua spaventosa magrezza, mi sembrò di stringere uno scheletro.
Infilò il cappotto, suo padre nel frattempo l’aveva sempre tenuta per un braccio, come si fa per i bambini che hanno da poco imparato a camminare.
I Marlowe si guardarono negli occhi fino a che suo padre, sospirando, disse di uscire. Eravamo tutti pronti.
-Andiamo, la messa sta per iniziare- disse la signora, nascondendo dentro quelle parole semplici tutta la paura della reazione di quella parte di Malenville che ormai desiderava la loro partenza.
La strada che conduceva in paese era deserta e fredda, camminavamo a poca distanza, i Marlowe davanti, avvolti da un silenzio di tensione, noi due poco più dietro, stavolta ero io a tenerla, le stringevo il braccio e lasciavo che lei si aggrappasse al mio, avevamo un’andatura lenta e irregolare, fummo costretti ad allentare il passo in diverse occasioni perché Raula sentiva il respiro diventare affannoso.
Gran parte della campagna era innevata, da due giorni al mattino presto cadeva un filo di neve che imbiancava i tetti delle case e copriva i raccolti addormentati, poi la neve diventava ghiaccio e pendeva dai lampioni e dai tetti come piloni argentati. La vecchia fattoria un tempo, quando nevicava, era irraggiungibile, era stato merito del signor Marlowe e di mio padre aprire un varco sul retro della casa che aveva fatto da sentiero per raggiungere il centro di Malenville.
Mio padre se l’era portato via la guerra, il signor Marlowe da quel giorno si era sempre preso cura di me come un figlio proprio.
Molti raggiungevano la chiesa attraverso il corso, una strada che tagliava Malenville in due metà perfette e ora doveva brulicare di gente che non faceva altro che salutarsi e scambiarsi i rituali auguri, poi andare dritto verso il luogo tradizionale di culto.
Il signor Marlowe aveva insistito per non immettersi nel flusso cospicuo di persone, nella sua testa forse albergava l’incubo di vedere d’un tratto quella gente allontanarsi da loro, impaurita dalla presenza della piccola Raula, atterrita nell’osservare il suo passo lento, disordinato e innaturale.
Che l’incontrassero all’interno della chiesa, nel luogo in cui Dio non avrebbe permesso alle loro menti incolte di comportarsi in modo oltraggioso.
Intanto la strada osservava le nostre figure timorose incedere tra la neve accumulata agli angoli, osservava il signor Marlowe, che con sguardo fiero e orgoglioso fissava le luci della chiesa, già visibili dall’altezza del tragitto in cui ci trovavamo. Fissava la madre di Raula, che invece aveva lo sguardo basso e pensoso e di tanto in tanto di voltava versi di noi per rivolgerci un sorriso rassicurante, in molti casi rivolto più a se stessa che a noi due. Da quando era tornata Raula molte sue conoscenti avevano troncato i rapporti con lei e a parte due o tre amiche che le erano state vicine, la signora Marlowe aveva perso lo stato di cui aveva goduto fino a quel momento. Non aveva più ricevuto inviti per le feste e i ricevimenti, né aveva preso parte all’asta tradizionale dei primi giorni di dicembre.
La strada osservava anche noi due, aggrappati l’uno all’altro, Raula col respiro pesante e la voce raggrinzita, io che le offrivo tutta la mia energia e le raccontavo gli aneddoti del nostro gruppo di amici durante la sua breve assenza.
Lei alzava gli occhi verso di me e il suo sguardo verdemare mi tagliava di netto il cuore, erano gli stessi occhi di sempre, che avevano accompagnato la mia infanzia, senza perdere mai quella luce di vita.
Nemmeno quando, mio malgrado, ero stato costretto a guardarla dentro la sua piccola bara bianca.
Raggiungemmo un viale acciottolato che di primavera non faceva fatica a riempirsi di suoni e parole, perché era la via del mercato delle frutta. Ora le serrande abbassate lanciavano un grido di morte.
Fu lì, non ricordo a quale altezza, se prima o dopo l’entrata di ferro del mercato, che Raula mi pregò di fare un’ulteriore pausa.
-Certo- le dissi- non abbiamo alcuna fretta-
Stavolta però non era come le altre, la sua mano, quella con cui mi teneva il braccio, stava tremando e vidi che aveva la bocca inumidita, così come la fronte pallida, dove erano comparse tracce di sudore, seppure facesse un freddo della malora.
-Va tutto bene Raula?-
Lei disse di sì con la testa, ma non era vero.
Chiamai a gran voce i genitori che, intorpiditi dalla loro tensione, si voltarono come svegliati d’improvviso da un sogno.
La madre corse, mentre il signor Marlowe avanzò più lentamente, guardandosi prima intorno e spegnendo il sigaro che aveva tra le mani, prima di raggiungere noi, pochi metri più indietro.
-Tutto bene piccola mia?-
Raula era inginocchiata, ma mi teneva ancora la mano, la testa incassata verso il basso, il respiro corto, un tremolio generale.
-Hai freddo? –
-No… no sto bene mamma, un attimo solo-
Com’era diversa la sua voce! Mi venne in mente un giorno nel bosco, dove eravamo soliti giocare, la sua voce che gioiva quando ci lanciavamo oltre il fiume, da una sponda all’altra di piccolo ruscello, col brivido di finire in acqua ad ogni salto.
A quel tempo la sua voce era un urlo alla vita, una gioia immensa, ora era alito di morte, preludio di malattia.
Il signor Marlowe sospirò, nel suo volto preoccupato si andavano addensando nubi basse.
La ragazza si rialzò, tutti e tre l’aiutammo. Lei alzò lo sguardo, sembrava stare meglio.
-Andiamo, ma un po’ più piano-
Proseguimmo al ritmo che lei aveva deciso.
La chiesa era vicina.
Spiccava come un rondine che si getta in volo, le luci della croce sul rosone scintillavano nella notte buia, e nell’aria si udiva già il brusio tipico degli attimi appena prima della messa, quando la folla dei credenti riempiva il portico e le scale, i pesanti e gelidi gradoni di pietra, si scambiava gli auguri e qualche parola, prima di osservare un rispettoso silenzio ed entrare nella casa di Dio.
La tensione tra i coniugi Marlowe cresceva, nella testa del padre ancora l’immagine del giorno in cui, seduto sul patio, aveva visto tra le piante che crescevano oltre il giardino, la sagoma ossuta di sua figlia che si faceva strada a malapena.
Ricordava l’emozione, il terrore, la speranza prendere piano consistenza e poi svanire del tutto rimpiazzata dall’azione quasi istintiva di raccogliere la povera ragazza svenuta al centro della terra incolta.
Ricordava le grida nel portarla dentro, l’incredulità di averla di nuovo tra le braccia, non importava da dove fosse venuta, era importante che lei fosse di nuovo tra di loro.
Non facemmo che pochi metri che mi venne in mente che da quelle parti viveva la vecchia Duchamp. Una vecchia un po’ ammattita dal tempo che non andava mai a messa, nemmeno la notte di Natale, e restava sul suo balcone, seduta su una sedia, a guardare la strada del mercato.
Non finii nemmeno di formulare il pensiero che, alzando gli occhi, vidi la sua figura scura che ci fissava dall’altro.
Nessuno dei miei accompagnatori l’aveva notata ed io a mia volta abbassai gli occhi verso i ciottoli della strada, fingendo che lei non ci fosse.
Raula forse aveva pensato all’incirca le stesse cose, conservò un silenzio che sapeva di paura.
Conoscevamo la follia della Duchamp e sapevamo che avrebbe inveito contro Raula, che una cosa come quella che era successa a Malenville non l’avrebbe mai accettata.
La sua voce tuonò come una tempesta e nel mio cuore sentii qualcosa di gelido che si aprriva rapidamente un varco.
Il signor Marlowe all’inizio non seppe giudicare da dove provenisse quella voce grave e severa.
-Cosa vuoi piccolo mostro?-
Urlava, eravamo gli unici in strada, per fortuna, ma il fatto stesso di essere i soli ci costringeva in qualche modo a guardare la vecchia signora seduta sulla sua sedia e ad ascoltare i suoi insulti.
-Via di qui, immonda!-
Era a distanza di una ventina di metri, ma potevamo vedere il suo braccio scagliato contro di noi, contro Raula, che iniziò a tremare.
-Figlia del Demonio, figlia del peccato, via di qui! Non t’azzardare ad entrare in chiesa!-
Ora agitava il braccio e la mano con cui afferrava un bastone.
-Sta tranquilla- dissi a Raula- lo sai che è pazza-
-Ho detto via, non venire più qui, non venire più qui!-
E continuò a ripetere quell’ultima frase per diverso tempo, fino a che non sparimmo oltre l’angolo dietro cui si apriva la chiesa.
Le lanciai un insulto e le dissi di tacere.
Ma ormai la signora Duchamp aveva ottenuto ciò che voleva. Sentivo Raula piangere e poco più in là erano perfettamente udibili i singhiozzi sommessi della signora Marlowe.
Accanto alla chiesa c’era il cimitero. Un piccolo complesso di lapidi bianche e grigie, recintate da uno steccato che mio padre stesso aveva costruito.
L’oltrepassammo e notai il tremore di Raula nell’osservare i sepolcri, quei freddi letti di pietra in cui lei stessa aveva trascorso qualche tempo.
La chiesa era un pullulare incessante di persone che quando videro Raula si fermarono per un istante, come se avessero ricevuto un ordine. Osservarono noi, le nostre figure coperte dai vestiti pesanti, poi ripresero la propria strada, chi s’infilava in chiesa, chi voltava lo sguardo e fingeva di mostrarsi interessata a tutt’altra questione. In verità c’era chi quella sera era accorso alla messa di mezzanotte e al canto di Natale solo per vedere la piccola bambina tornata dalla morte.
Il signor Marlowe salutò qualcuno da lontano con un gesto deciso della mano, la signora chinava il capo in segno di educazione, ora Raula era al centro dei due genitori, sorretta da entrambi, faceva brillare il suo volto educato e i suoi occhi verdi che ora erano lucidi per le lacrime appena versate e sembravano ancora più belli.
Io ero pochi metri più indietro, i miei amici mi salutarono, risposi con la mano e con un sorriso, ma questi avevano già voltato la testa.
Salimmo i gradoni ed entrammo in chiesa, Raula fece molta fatica a salire le scale e rapidamente udimmo sommessi commenti dietro le nostre spalle, non mancai di percepire la frase cadrà, non ce la fa, pronunciata dal fioraio che stava lì ai piedi delle scale con sua moglie e i suoi due figli piccoli.
Una volta entrati in chiesa il volto di Raula era rabbuiato dalla fatica, la mettemmo a sedere su di una delle prime panche in legno, l’adagiammo come un petalo di rosa, tenendole la mano.
-Chissà come sarà bello il canto di Natale, quest’anno- disse la madre.
-O sì, sarà speciale-
-Sì, sarà speciale- disse Raula con voce affannata.
La messa stava per avere inizio, la chiesa di era presto riempita in ogni ordine di posto e dietro le panche molta gente era costretta ad assistere alla funzione in piedi per essere arrivata tardi.
Quasi tutti gettavano un’occhiata furtiva su di noi, alcuni invece ci guardavano a lungo, attendendo un saluto, per poi sorridere e voltarsi di nuovo verso il prete che aveva appena fatto il suo ingresso.
-Cari fedeli, eccoci raccolti in questa notte sacra…-
Il prete iniziò il suo discorso di apertura, Raula mi stringeva la mano mentre iniziava a recitare le preghiere che da piccola aveva imparato come si faceva per le poesie. Lo stesso facevo io.
Durante la celebrazione, la folla parve abituarsi all’idea di condividere lo spazio con Raula. Non si voltava più, fatta eccezione per qualcuno che continuava a scrutare la mia amica, forse per vedere se era davvero tornata in vita, se il miracolo era davvero avvenuto.
Raula parve contenta, Malenville la stava finalmente accettando.
Il canto di Natale di Malenville era una tradizione persa nei secoli, da quando la cittadina era stata fondata, proprio il giorno di Natale, da un gruppo sparuto di esuli contadini che aveva battezzato la zona con quello che era il vecchio nome, Providence. Dopo la morte del più anziano tra i fondatori, Carles Malen, il paese aveva cambiato nome.
Il canto di Natale riassumeva in una sola funzione lo spirito religioso e quello di appartenenza alla comunità. All’interno della chiesa sfilavano, sorrette da uomini forzuti, i vessilli della città e i ritratti dei fondatori, li portavano fuori dalla chiesa e li sistemavano nella Sacrestia, adibita in via del tutto straordinaria a sale esposizioni. Dopo, il prete, aiutato dai chierichetti portavano il pane appena sfornato e la frutta in grandi cesti nella stessa sala, dove poi erano chiamati a raccolta tutti i cittadini per un brindisi e un assaggio del pane caldo e delle altre pietanza. Tutta la cerimonia era accompagnata dai canti tradizionali in lingua antica, eseguiti dal coro della Contea, giunto a Malenville espressamente per la liturgia.
A Raula era sempre piaciuto ed era per questo che suo padre aveva insistito perché sua figlia effettuasse la prima uscita in occasione di quella tradizionale festa. Le piacevano in particolare i canti, le voci sinuose del coro che ben si sposavano all’acustica della chiesa. Gli anni precedenti, una volta tornati a casa, quando già erano passate le prime ore della notte, Raula danzava e ripeteva i canti, pochi metri davanti ai genitori che proseguivano a passo rapido per difendersi dal freddo.
Era difficile farla riaddormentare la notte della vigilia. Non faceva altro che ripetere i ritornelli delle canzoni che preferiva.
Quando fu il momento di uscire, attendemmo che la chiesa si vuotasse del tutto.
-Ce la fai?- le chiesi.
Aveva gli occhi bagnati dalle lacrime, il sapore amaro di un passato che mai avrei conosciuto.
Mi guardò e mi disse che era stato bello ascoltare ancora una volta il canto di Natale. Che quando si era ammalata aveva temuto di non poter assistere più al suo spettacolo preferito.
Mi ringraziò, mi disse che ero il suo migliore amico e che mi amava, mi amava per tutto quello che stavo facendo per lei.
Fuori l’entrata della sacrestia, il mucchio di gente faceva fatica a organizzarsi per poi prendere posto all’interno.
Restammo un po’ in disparte, io e lei, al centro della piccola piazza antistante la chiesa.
La neve caduta rendeva scivoloso il terreno, ci reggevamo l’un l’altro.
Lei mi disse di non avere voglia di proseguire col banchetto, era la parte della cerimonia che le piaceva di meno.
Mi propose una passeggiata, l’accontentai, oltrepassammo la chiesa con le sue luci natalizie, raggiungemmo il corso e la sua desolazione, i suoi vicoli bui, i negozi chiusi e in attesa del giorno.
Le chiesi se aveva avuto paura quando avevamo incrociato la signora Duchamp. Mi rispose in modo strano.
-Del resto Elias, aveva ragione-
Le dissi allora che non era vero, che se era tornata era stato per volere di Dio, che mai nessuno avrebbe avuto il diritto di poter dire quelle scempiaggini, ma lei già non mi stava più ascoltando, il suo sguardo incantevole ora fissava un punto preciso del corso, che si distendeva in un’altra strada. Mi chiese di andarci.
Mezz’ora dopo raggiunsi di nuovo la sacrestia, col fiato corto e le labbra secche. Cercai con lo sguardo i signori Marlowe.
-Che ti succede ragazzino?- era la voce di qualcuno dei presenti, che vedendomi così sconvolto, si preoccupava per me.
Afferrai il vestito della signora Marlowe e la supplicai di seguirmi fuori, lo stesso feci con il padre di Raula.
I due si precipitarono fuori il piazzale, i loro occhi non seguivano più me ma cercavano Raula nelle vicinanze.
-Elias! Elias! Dov’è mia figlia! Dov’è mia figlia! Rispondi!-
Tentennai, anche troppo, il signor Marlowe imbufalito mi prese per le spalle e mi scrollò per tirare fuori una risposta.
-Per l’amor di Dio, dov’è Raula!-
Le urla non impiegarono molto ad interrompere la funzione, tutti si affacciarono sulla piazza per assistere alla scena.
-E’ andata via signor Marlowe!-
-Cosa? Che vuoi dire!-
Deglutii a fatica, avevo il suo fiato addosso, mi fissava con occhi di paura e dolore, la madre era già partita in cerca di sua figlia.
-Mi ha detto che voleva andare lì- indicai il cimitero- che voleva che la portassi lì-
Iniziai a piangere, erano singhiozzi che m’impedivano di parlare.
-E ora dov’è?-
-Mi ha detto che doveva andare, che era tutto già scritto-
-Dov’è!-
Ingoiai tutta l’aria per poter rispondere.
-E’ lì! E lì!-
Dissi, indicando il grigio gelido delle tombe.

Quando mi riebbi dal sogno, il sole tagliava di netto la mia stanza, la neve era caduta a fiocchi e i tetti delle case ne erano ricoperti, in strada c’era un gran vociare di festa e di attesa.
Era la vigilia, il giorno del Canto di Natale.
Mi alzai dal letto e attraversai la mia stanza, da sotto giungeva la voce calda di mia madre che contrattava col fattore riguardo alla quantità di patate che questi avrebbe dovuto portare a casa.
Nell’aria c’era profumo di Natale, mi vestii alla svelta per non perdermi nemmeno un secondo del primo giorno di festa.
Chiudendo la porta dietro di me, gettai un ultimo sguardo alla foto di Raula che tenevo sul comodino.
I suoi occhi di un verde profondo luccicavano alla luce del sole di dicembre.
Erano passati ormai due anni da quando era andata via.


Su Luca Cerullo
Luca Cerullo è nato a Napoli nel 1984, ma si dice flegreo, prima che napoletano. Si è laureato nel 2006 in “Lingue e Culture Comparate” all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, dove ha approfondito lo studio delle lingue romanze, in particolare dello spagnolo e del romeno. Scrive da sempre, scegliendo molto spesso i Campi Flegrei come teatro per le sue storie. Ha pubblicato Racconti invisibili (Aletti 2007). "Terra di luci e di fantasmi" è il primo libro dedicato alla sua terra.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La soffitta (eBook), di Luca Cerullo (I Coltelli, 2009)
Terra di luce e di fantasmi, di Luca Cerullo (I Coltelli, 2008)