Squarci | giovedì 4 giugno 2009

Francesco Jonus

I giorni della ferita

La città, per me, è come una ferita.
Una città vista dall’alto è come una ferita aperta nel buio. È un bianco sfregio scavato nella terra, e sospira appena nel tocco incerto della notte.
Se vedi dall’alto una città, le immagini sfocate che puoi coglierne sembrano impresse in morbidi tessuti, pronte a cambiare forma, e anche a scomparire. Semplici parvenze, le strade diventano illusioni. Ci sono, esistono materialmente, ma è come se non portassero da nessuna parte.
È ciò che mi accade quando mi sento così disperso in questa città.
Intendo questa percezione di un non luogo.
Recinti di lampioni proteggono la città, ma le strade sono inutili. Non rinviano ad alcuna destinazione.
Le palizzate di metallo abbracciano oggetti che hanno perso ogni funzione, che si portano addosso nomi spogliati da ogni valore.
Anche le città sono proiezione dei nostri stati d’animo. Qui mi sembra che andare in qualsiasi posto sia sempre un po' come non muoversi mai, non ripartire mai.
Ogni luogo ha la stessa tonalità di colore. E io ho cominciato a odiare questa città.

Tutto mi sembra una costrizione, un limite, mentre, appena due anni prima, questa stessa città mi appariva il luogo di ogni possibilità e desiderio.
Non è mai facile accettare come il dolore ci scolpisca le emozioni. Oppure come la felicità sia un bene che il nostro corpo consuma senza una possibile memoria del futuro.
L'uomo consuma tutta la felicità immediatamente. Un dio benevolo, forse, avrebbe costruito un uomo capace di far scorta di felicità. Invece, questa passione si disperde presto, annacquata pian piano da mille altri rivoli. Si spera di poter almeno serbare un ricordo, ma i ricordi dei momenti felici sono invisibili nei momenti cupi.

Camminando attraverso la ferita, percepisci, come una scossa a fior di pelle, il pulsare di questo fragile amalgama di intense vibrazioni.
Ti confondi ora nella sua essenza perlacea, ammantata da un lascito di pioggia, ora solo in una fredda distanza, perché le lanterne che corrodono l'oscurità sembrano soffiare via il ricordo dei pensieri.
Fogli che perdono peso.

E la tua memoria si fa sottile, nella sorgente d'Estate.

Il vento depura le tue emozioni.
Le parole che trattenevi lì sul fondo, come bussole che puntavano al Nord delle tue radici, a Nord di nessun Sud, dove dimora ciò che avevi di più caro, ora sono brandelli senza verità.
Così, avendo nell'animo questi simboli privati di ogni suggestione, il tuo vivere non è meno fragile dei cocci, e degli spettri impressi su tutte le fotografie sfocate che si imprimono sulla tua retina.
Le immagini della città, del solco della ferita.
I volti dei tuoi amici ti ricordano quanto sia estranea e indecifrabile per loro la tua paura, come se il tuo dolore fosse una terra straniera.
Il rimorso si confonde nella tua inquietudine. Com'è possibile che gente così lontana cerchi di rimanerti vicino?
Eppure, una scheggia della tua coscienza continua ad urlarti che non passa giorno che vivi senza tradirli continuamente.
Perché queste attenzioni sono crediti che sembrano impossibili da ripagare.

E tu sei solo parte dell'unico palcoscenico, tessuto nella ragnatela.

Comunque, sei anche tu parte, più o meno fragile, o indefinita, del palcoscenico.

Così, nella notte che rende incerta la sostanza che ti imprigiona, cammini ancora attraverso quel bagliore appena percettibile del tessuto latteo che si appiccica a tutti i muri di Bologna.
Quel colore che è sempre la stessa tonalità.
Nel passare silenzioso dei giorni, accarezzato dal vento, la tua natura si è fatta più leggera: come una piuma dispersa, aggrappata alla sua stessa amnesia.
Ti sei lasciato imprigionare in un bozzolo dal suono smorzato.

E la pelle è diventata il tuo limbo, intoccabile.

In quell'ultimo istante, passato in una ferita recintata dal metallo e dalla luce.
In quell'ultimo istante, in cui sei perso nel colore che è una tonalità.
In quell'ultimo istante, in cui gli amici sono volti e sono rimorso.
In quell'ultimo istante, con il piede che già corre oltre la soglia.
In quell'ultimo istante, in cui sei straniero.
In quell'ultimo istante, c'è il seme della tua salvezza.

Forse la tua anima era più sapiente di quanto volessi ricordare.
Echi e reminiscenze sgorgano da solchi antichi, raccontano storie di nuova libertà.
La memoria, imposta come unica medicina, ti sorregge e ti aiuta ad imparare nuovamente a vivere tra i volti, a riconoscere quelli che ti sono amici.
I colori ti scaldano ancora.

La ferita che si sta cicatrizzando, la tua ferita dilatata in un'intera città, è ancora la tua casa.

Nel delicato equilibrio a cui ti sei aggrappato, riesci a sperare.
Ti accorgi che le arterie d'asfalto sono solo un altro squarcio sulla notte e il vento porta soltanto l'odore pungente di tutta la strada che hai percorso.


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.