Squarci | sabato 4 aprile 2009

Ilaria Olimpico

Mia sorella Nawal. Dal deserto.

Mia sorella Nawal aveva grandi occhi scuri e lunghe ciglia seducenti.
Io avevo grandi occhi color giada scura ed espressive sopracciglia.
Eravamo sorelle ma avevamo vissuto l'adolescenza separate.
Nawal era rimasta con il padre a Damasco e io con mio padre ad Atene.
Nostra madre era una bella donna mediterranea, cresciuta tra Beirut, Amman e Aleppo. Nel salotto da lei arredato con cura, con grandi cuscini dai colori caldi del rosso e dell'arancio orientale, aveva incorniciato una grande carta geografica del Mediterraneo, in cui non erano segnati confini, ma solo città. Così, da piccole, ci faceva viaggiare tracciando con il dito delle piste da Isfahan al Cairo, a Malaga e Siviglia, raccontandoci le peripezie del mercante Omar che passava di caravanserraglio in caravanserraglio, di amore in amore.
Nostra madre era una meravigliosa donna araba di grande cultura e grandissima sensibilità.
Quando morì, io avevo solo nove anni e mia sorella Nawal dodici. Non solo persi mia madre ma anche mia sorella. I nostri padri ci portarono nelle loro rispettive città natali e noi crescemmo senza più risentirci fino a quando diventammo giovani donne.
Ci incontrammo in un vecchio albergo di Ramallah, entrambe invitate a un incontro internazionale di donne contro l'occupazione israeliana.
Quando la vidi seduta sul canapé della hall mentre era intenta a leggere un libro, fu il mio cuore a riconoscerla per primo. Mi paralizzai letteralmente. Aveva i capelli lunghi neri brillanti come un'indiana, portava occhiali bordeaux per la lettura e i suoi occhi non erano cambiati, il cajal nero li rendeva solo più seducenti. Sedeva con grazia e abbandono sul canapé, nella sua veste vaporosa viola e fucsia, con il velo dolcemente appoggiato sul capo, bordato di una striscia color oro.
Io avevo i capelli corti da contestatrice e anche i miei occhi erano sempre gli stessi, ma evidenziati dal cajal.
Nawal si accorse del mio sguardo e sollevò il capo dal libro che stava leggendo. Eravamo a pochi passi. Mi sembrò che in alcuni istanti, nel nostro incrocio di sguardi, scorressero tutte le immagini della nostra infanzia. Ci fu un attimo in cui temetti che potessimo fare la scelta di far finta di nulla o, forse peggio, iniziare una conversazione imbarazzata di convenevoli. Nawal e io, invece, iniziammo a ridere come da bambine, e lei si tolse gli occhiali, abbandonò il libro e venne ad abbracciarmi fortissimo.
Ci sedemmo nella sala bar e ci raccontammo gli ultimi quindici anni della nostra vita, nel sapore fresco della menta del nostro tè.
Entrambe donne sole, entrambe attiviste, ma non politiche, entrambe in contrasto con il mondo, entrambe zingare per quel Mediterraneo che la mamma ci aveva presentato come “un continente liquido” con le parole di Fernand Braudel.
Nawal e io, da quell'incontro nel piccolo albergo di Ramallah, non ci lasciammo più, iniziammo a incontrarci spessissimo, ad Atene, Istanbul, Damasco, Palermo, Tunisi, Beirut, Saida, Sour, Napoli...
Uscivamo insieme e ci raccontavamo, sdrammatizzavamo le pene d'amore e le disillusioni a lavoro. Ridevamo tanto. Che andassimo al caffé Gemmayzeh di Beirut, o nella gelateria di Bagadash a Damasco, o al caffè letterario Intra Moenia di Napoli, sentivamo sempre su di noi lo sguardo affascinato degli uomini. I più audaci cercavano una scusa per avvicinarsi e sedersi con noi, i meno audaci si limitavano a un complimento per i nostri occhi, grandi ed espressivi, e quelli timidi si accontentavano di osservarci.
Nessuno credeva che fossimo sorelle e quando ci chiedevano la nostra storia, ci divertivamo a confondere i nostri interlocutori, mescolando verità e immaginazione. Le nostre invenzioni si nutrivano a vicenda dando luogo a storie da Mille e una Notte che stupivano i nostri ammiratori.
Nawal faceva innamorare molti uomini ma tutti la temevano, forse per la sua grande intelligenza che traspariva dai suoi occhi e veniva confermata poi dalla sua dialettica o forse per la sua aura di “inaccessibilità”.

Quando ho ricevuto la telefonata di nostra zia Essadya, ero a Beirut e, stranamente, non vedevo Nawal da alcuni mesi e l'avevo sentita di rado.
“Nawal è a Katmandu, malata gravemente”.
La zia era stata sintetica e tagliente.
Mia sorella Nawal era in Nepal. Era malata. Gravemente.
Il mio cuore era impazzito e il mio cervello paralizzato.
Cercai subito un volo, mi misi in contatto con Khamis, un amico fraterno del padre, che stava ospitando Nawal e, dopo cinque, lunghissimi, interminabili giorni, la vidi.
Nawal era in uno stato di consumazione fisica progressiva. Per me la sua immagine di donna malata era inaccettabile, e le atmosfere orientali pregne di profumi di incensi indiani, le tende svolazzanti in una luce sempre soffusa nella casa di Khamis e il tintinnio degli scacciapensieri appesi alla porta, contribuivano a farmi sembrare il tutto come un incubo che si svolgeva in un mondo lontano.
Nawal era dimagrita almeno venti chili. In poco tempo i tratti del suo viso erano invecchiati precocemente. Indossava una tunica da notte tutto il giorno e non aveva neanche la forza di alzarsi dal letto. Solo gli occhi non erano cambiati, anche se erano stanchi.
Quando mi vide, sorrise. Quando l'abbracciai, temetti che avrei potuto soffocarla stringendola troppo e sentii che le sue braccia attorno al mio collo erano abbandonate, senza vigore.
La accudii per due settimane, come se mi occupassi di una bambina. Nawal, mia sorella. Nawal, mia figlia.
Aveva difficoltà a deglutire, difficoltà a restare sveglia per molto. Che cosa avesse nessun medico era riuscito a dirlo con precisione. Si stava consumando. Astenia lenta e progressiva, inarrestabile.
Un bel mattino, mentre sorseggiavo il tè sulla piccola veranda dell'umile casa di Khamis, guardando il paesaggio che riposava nell'armonia dei colori della terra e del cielo, decisi di portare Nawal via con me, in Italia.
Prendemmo il primo volo disponibile per Roma.
Nawal sembrò reagire bene, sembrava persino aver riacquistato qualche forza. Certo, senza l'aiuto di Nanà, la sorella di Khamis che si era offerta di accompagnarci, non sarei mia riuscita ad aiutarla a camminare senza accasciarsi. Non so che cosa sperassi, forse che la “dolce vita” di Roma facesse risentire a Nawal il gusto delle passeggiate e delle chiacchierate nei caffé.
A Roma ci aspettava la primavera. Per due giorni fu impossibile uscire dall'appartamento che avevamo preso in affitto nel quartiere di San Giovanni in Laterano. Nawal non aveva forze.
Poi, un giovedì sera, Nawal, inaspettatamente, si alzò dal letto, raggiunse me e Nanà nella piccola cucina e disse con un viso di nuovo giovane e luminoso: “ho voglia di andare a Piazza Navona”. Io e Nanà ci scambiammo uno sguardo illuminato e un sorriso pieno di speranza.
Quella fresca sera di un giovedì di fine aprile ci preparammo per la dolce vita romana, scegliendo gli abiti con cura. Raggiungemmo Piazza Navona, incantevole nelle luci serali, con i gorgoglii d'acqua delle fontane e il bianco austero delle imponenti sculture dei Fiumi.
Nawal non era certo in forma, ma camminava da sola e si compiaceva del suo vestito fresco, nuovo, primaverile, vivace.
Mangiammo un buon gelato al cocco e alla nocciola sedute sulla panchina, lasciandoci incantare dagli artisti di strada e ridemmo come bambine per lo spettacolo improvvisato di un clown.
Poi non resistemmo alla tentazione di farci fare un ritratto. Nanà non volle mettersi in posa con noi, si sistemò su uno sgabello vicino all'artista sbirciando sulla tela. Nel ritratto finito figuravano due volti femminili, che l'autore volle catturare in un'espressione seria, nonostante Nawal e io avessimo assunto pose sorridenti. L'autore riuscì a far trasparire dallo sguardo di Nawal una grande pace interiore e dal mio un'immensa compassione.
Nawal morì nella notte di quel giovedì di fine aprile a Roma.

Adesso, cammino da sola per i vicoli del centro storico di Napoli, dove gli artigiani lavorano per i pastori del presepe in questo inverno più freddo del solito. Ho fatto crescere i capelli, e indosso sul capo un velo alla maniera di mia sorella Nawal.


Su Ilaria Olimpico
E' nata a Nola il 13 marzo 1981, esattamente 40 anni dopo il poeta palestinese Mahmud Darwish. Si è laureata nel 2004 in "Scienze Internazionali e Diplomatiche" presso “L’Orientale” di Napoli, approfondendo gli studi sul mondo arabo. Vive qua e là, racconta sogni e storie, si indigna e combatte, ama e cammina.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.