Squarci | lunedì 16 febbraio 2009

Ilaria Olimpico

Storie dal deserto e dal mare e altri racconti

La vecchia, nella penombra della stanza, seduta sulla sedia a dondolo di legno scuro, disse: "allora, hai voglia di sentire le mie storie? le immagini compaiono e non posso rigettarle, i personaggi mi vengono a cercare e non posso cacciarli. Ho bisogno di vomitare storie per ricordare e sognare, per perdonare e combattere, per guarire e raccogliere”… e le immagini vennero... alcune dal deserto e altre dal mare.


Bacio. Dal mare.

Un piccolo, morbido, delicato bacio sulla sua spalla nuda e lei si svegliò e incontrò gli occhi di lui, grandi e blu.
Lui le si distese accanto e lei si rannicchiò tra le sue braccia e respirò l’odore della sua pelle.
Il mare andava e veniva,
con la sua schiuma bianca,
i suoi schizzi freschi
e il suo scroscio monotono.
Lei gli tolse la maglia e si distese lenta su di lui, facendo aderire pian piano i suoi seni al petto di lui di un tono più scuro.
E poi, con il pollice seguì la linea delle sue labbra e lui fu sospeso in un attimo denso, con gli occhi ardenti fissi su di lei.
Il mare si distendeva sulla sabbia e poi si ritirava.
Lui iniziò a baciarle il pollice e poi il palmo della mano e poi il dorso della mano che girava delicatamente, come un girasole che, lentamente, insegue il sole affinché nessun petalo perda il bacio dei suoi raggi.
Lui avvicinò le labbra a quelle di lei che si erano schiuse come un frutto succoso e maturo.
Le diede un lungo bacio.
Le scostò i capelli dal viso dolcemente e portò il corpo di lei esattamente sul suo con morbida fermezza.
La brezza marina divenne vento e fece aprire gli infissi bianchi e vecchi della finestra lasciata socchiusa.


Ismail. Dal deserto.

Era un mucchietto di cenci scuri, sui gradini mangiucchiati della casa distrutta. Raggomitolata su se stessa, con il viso nascosto sulle ginocchia e il capo coperto da un velo scuro.
Aveva smesso di tremare e con fatica aveva allentato la stretta delle mani alle tempie e alle orecchie. L’eco delle urla rimaneva solo nella sua mente. Ma aveva paura di alzare la testa e di aprire gli occhi.
Avrebbe voluto diventare sorda e cieca, o meglio, avrebbe voluto perdere la memoria, perché le urla di terrore e le fughe disperate l’avrebbero perseguitata nei ricordi anche se fosse diventata sorda e cieca.
Avrebbe voluto addormentarsi e perdere la memoria. Avrebbe voluto addormentarsi e svegliarsi tra duecento anni.
Un barattolo di latta rotolò fino ai suoi sandali. Con infinita lentezza sollevò il viso impolverato e scuro, dominato da due grandi occhi verdi e lucidi.
Il vento leggero e malinconico portava con sé la sabbia del deserto.
Il vento caldo e secco bruciava, incontrando le lacrime salate e silenziose sul viso impolverato e scuro, dominato da due grandi occhi verdi e stanchi.
Si alzò, combattendo contro il pesante dolore che le opprimeva il cuore.
Rimase immobile, in piedi, nei suoi sandali sporchi di terra e sangue, nella strada deserta, tra i brandelli di mura e uomini.
Poi, con la voce ferma e altissima dell’ultima speranza, chiamò una sola volta: “Ismail!”.


Abisso. Dal mare.

Sono un codardo.
Se non fossi un codardo, sarei già nel Buio e nel Silenzio.
Credono che abbia qualche strana malattia.
Sto perdendo peso e dormo spesso.
Non capiscono.
Mangio a fatica perché ho una nausea continua.
Dormo tanto perché ho molti sogni da fare.
Dormo tanto per abituarmi.
Dormo tanto perché il sonno è simile al buio e al silenzio cui anelo.
Credono che abbia avuto qualche trauma.
Non parlo con nessuno.
Me ne sto sempre da solo.
Non esco dalla mia capanna.
Ho difficoltà a raccontarmi.
Dicono che io non parlo.
Ma forse, non hanno tempo di ascoltare i miei racconti lenti e talvolta grigi.
Sono un codardo.
Se non fossi un codardo avrei preso almeno le armi.
E sono doppiamente codardo, perché seppure consapevole, non riesco a saltare nel buio e nel silenzio.
Credono che io sia impazzito.
E invece non sono mai stato così lucido.
A volte, sogno la rupe
e il bianco che sotto rumoreggia.
Sogno di non essere codardo.
Sogno di essere lucido e non codardo.
Sogno di guardare avanti a me
i gabbiani nel cielo terso.
Sogno di fare un passo nella rupe.
Saltare.
Cadere pesante verso il bianco rumoroso e le grida dei gabbiani.
Salire leggero verso il buio e il silenzio.
E non essere più codardo.


Nosemi e Fagi. Dal deserto.

Mentre viaggia verso una nuova città di pietre e fango, sabbia e vento, annota sul suo diario avvolto nella pelle di cammello:
“Nosemi è una vecchia che porta le noci delle amare consapevolezze e le pigne del vuoto e dell’indolenza, non appartiene a nessuno e a nulla, perché sa che nulla rimane.
Fagi, sua sorella, invece, è giovane, distribuisce albicocche succose che si schiudono come labbra, e ciliegie di slanci e curiosità, segue l’Amore sotto ogni sua forma, si fida del vento e dorme sul petto del mondo, sognando gli eroi che lo salveranno.”




Lettere. Dal deserto.

Dove sei? A volte ti immagino girare per casa, con il tuo maglione largo o con la gallabya sudanese.
Ieri uno straniero ha detto il mio nome sospirando e il tuo ricordo si è impossessato di me in maniera così forte che temevo di impazzire.
Dove sei?
Se potessi almeno risentire la tua voce che sospira il mio nome con l'accento straniero che mi è caro... se potessi sentire quel sospiro che dice di non riuscire a resistermi...
Attendo con impazienza il tuo ritorno.
Gli odori e le musiche mi riportano alla nostra terrazza... ti sogno spesso e ancora più spesso ti chiamo col pensiero.

Dicono che non apriranno ancora le frontiere per motivi di sicurezza.
Io ho una nostalgia straziante dei tuoi occhi castani profondi e della tua voce.
Vorrei poter sentire un'altra delle tue storie.
Vorrei poterti raccontare cosa ho sognato.
Ho ricevuto i tuoi messaggi e le tue lettere dal profumo di nargis e jasmine.
Rendi tutte le parole nuove.
Hai la capacità di risacralizzare il mondo e renderlo magico.
Non capisco come tu possa essere pericoloso alla “sicurezza nazionale”.

Ogni mattina, quando vado a lavoro, mi piace passare per la piazzetta dove c'è l'ulivo. Passo e alzo il braccio per sfiorare le piccole foglie verde scuro con la punta delle dita. Riesco a sentire l'odore di zatar e i trilli delle donne della tua terra.
Mentre continuano a costruire muri e recinti, l'odore forte di cumino arriva fino a qui.


Su Ilaria Olimpico
E' nata a Nola il 13 marzo 1981, esattamente 40 anni dopo il poeta palestinese Mahmud Darwish. Si è laureata nel 2004 in "Scienze Internazionali e Diplomatiche" presso “L’Orientale” di Napoli, approfondendo gli studi sul mondo arabo. Vive qua e là, racconta sogni e storie, si indigna e combatte, ama e cammina.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.