Squarci | lunedì 26 dicembre 2005

Mauro Bergonzi

Il Mistero della ciotola rovesciata

In un paese lontano c’è un antico tempio.

Al centro del tempio c’è un altare di pietra.

Al centro dell’altare c’è una vecchia ciotola rovesciata.

Nessuno sa che cosa essa nasconda. La memoria del suo segreto si è persa nel corso dei secoli. 

La tradizione narra che fu il più sapiente di tutti gli uomini, detto ‘l’Antico’ a posarla su quell’altare: sotto di essa sarebbe custodito il Mistero dei Misteri, il fulcro stesso dell’Antica Sapienza. 

Perciò ogni giorno essa è venerata dai monaci con inni sacri e profondi inchini. Per ogni membro di questa religione, sarebbe sacrilegio supremo toccare la ciotola, profanandola con la sozzura di ciò che è mondano. 

Così il suo segreto resta sigillato nei secoli dei secoli, e col passare del tempo è divenuto l’oggetto principale di lunghe speculazioni fra i
dotti.


Una mattina di primavera, mentre il cinguettìo degli uccelli e una leggera brezza, filtrando da fuori, accarezzano dolcemente la penombra degli oscuri recessi del tempio, due vecchi monaci - amici da tanti anni - sono, come al solito, presi da una delle loro interminabili diatribe sul mistero della ciotola rovesciata, che se ne sta lì, accessibile al loro sguardo, muta nel suo
segreto.


Uno dei due monaci dice:

- Amico, in tutti questi anni si è fatta sempre più profonda in me la convinzione che sotto quella ciotola sia conservato quanto di più prezioso sia dato trovare sulla faccia della terra. Infatti, se ciò che vi si cela dev’essere un simbolo di quell’incorruttibile essenza spirituale che tutti noi veneriamo, non può che essere qualcosa di unico, incomparabile, meraviglioso. Forse un diamante perfetto, senza alcuna impurità. Forse una sfera d’oro purissimo. Forse una sacra reliquia del venerabile Antico che fondò la nostra religione. Forse due specchi che eternamente, all’infinito, si riflettono l’un l’altro nel sacro buio custodito dalla ciotola. O forse qualcosa di ancor più prezioso, che la mia mente non può neanche immaginare.

Comunque sia, non solo la ragione, ma il cuore stesso mi dice che là sotto c’è qualcosa, qualcosa di assolutamente prezioso -.


L’altro monaco scuote il capo in segno di dissenso e replica:

- Amico caro, mi meraviglio della tua ingenuità! Pensi davvero che sulla faccia della terra esista qualcosa di così puro e perfetto che possa anche solo lontanamente rappresentare l’incorruttibile essenza spirituale? Guardati intorno: tutto decade, tutto è corrotto dal tempo e dall’imperfezione insita nell’esistenza stessa.

Ti confesso che, col passare degli anni, il corso dei miei pensieri ha sempre più preso una piega di amarezza. Poco a poco, mi convinco sempre più che sotto quella vecchia ciotola non c’è assolutamente niente e che anche questa cosiddetta ‘essenza spirituale’, meta agognata di tutti i nostri sforzi, in realtà non sia altro che una chimera.


Dopo tanti anni di disciplina e di esercizi spirituali, chi di noi l’ha mai vista? Chi di noi può dire di essersi avvicinato anche solo di un passo ad essa? 

Francamente, credo che quella vecchia ciotola non abbia alcun valore, che non serva a niente e che sia stata messa lì affinché gli uomini, illusi dal suo mito, attraverso un’ingannevole ma utile fede si sforzino di comportarsi un po’ meno brutalmente del solito. E’ solo per questa sua pietosa utilità che io stesso non ne infrango l’aura sacrale toccandola e mostrando a tutti l’orribile verità del nulla e dell’insensatezza che pervadono la nostra esistenza -.


E così i due monaci continuano a discutere sui loro opposti punti di vista, dinanzi alla muta, inesplicabile presenza della ciotola
rovesciata.


Ma ecco, all’improvviso, echeggiare un boato per le volte del tempio: il pesante portale si è spalancato. Mentre un gran fiotto di luce, di cinguettìi di uccelli e di profumi primaverili inonda i polverosi recessi del sacro luogo, ecco entrare un viandante, tutto impolverato per il lungo viaggio, ma con una ridente serenità che illumina il suo volto. 


Chi è costui? Viene da lontano e va lontano. E’ solo di passaggio. Non sa nulla di templi e di antichi misteri. Ha in mano una manciata di fragranti bacche appena colte.

Si guarda intorno, scorge l’altare e vi si accosta, coprendo col suo corpo per un istante la vista della ciotola ai due anziani monaci, talmente sorpresi per questo ingresso improvviso da restare come pietrificati.

Il viandante afferra tranquillo la ciotola, la solleva, guarda sotto e un sorriso gli illumina il volto. Poi, sostenendo la ciotola sul palmo della propria mano, la riempie delle dolci bacche che teneva nell’altra e, tutto contento, se ne esce fuori, ai colori, ai suoni e ai profumi di quello splendido pomeriggio primaverile, per proseguire il suo
viaggio.


I due monaci sono restati annichiliti. Non hanno nemmeno avuto la forza di gridare allo scandalo quando lo sconosciuto visitatore ha toccato la ciotola e se l’è portata via. Sono anzi rimasti come affascinati dall’enormità del sacrilegio, come incatenati loro malgrado a guardare con avida curiosità che cosa c’era sotto la
ciotola!


E ora l’oggetto delle loro interminabili speculazioni è finalmente là, davanti ai loro occhi stupefatti e attoniti: sull’altare di pietra, nella penombra del tempio, poggia silenziosa un’altra ciotola rovesciata, identica alla prima, solo un po’ più
piccola.


 


Commento sapienziale


La via dell’affermazione

e

La via della negazione

Non sono che una sola:

La Via del Pensiero.



Al di là di essa

- Molto al di là –

Si schiude

La Via del Non-Sapere,

Dove Vedere è Agire.



Per chi vede senza nulla sapere,

Tutto accade da sé,

Come lo sbocciare dei fiori a primavera.

Per lui, 

Anche una ciotola colma di bacche fragranti

è

Mistero e Meraviglia.



Ma per chi non vede

Credendo di sapere,

Fossero anche scoperchiate mille ciotole,

Sigillato resta il Segreto

Nell’oscurità di un polveroso enigma.



Eppure…

Quando viene la primavera,

Su tutti splende lo stesso sole,

Su tutti soffia la stessa brezza.


 


Versione zen del racconto



Nella cucina del monastero due giovani monaci stanno pelando patate. Sul tavolo c’è una ciotola rovesciata.

D’improvviso, irrompe il maestro e, brandendo il bastone con aria minacciosa, domanda:

- Che cosa c’è sotto la ciotola? Se dite “Qualcosa” vi colpisco! Se dite “Niente” vi colpisco! –

Il primo monaco resta immobile, attonito.

Il secondo monaco prende la ciotola, la riempie di bacche ed esce in silenzio, mangiando le bacche, mentre sul tavolo è rimasta una seconda ciotola più piccola, sempre capovolta, che si trovava sotto la prima.

Il maestro esclama:

- Ben fatto, ben fatto! -. 

Poi, rivolto all’altro monaco, ruggisce:

- Che cosa c’è sotto la ciotola? Se dici “Qualcosa” ti colpisco. Se dici “Nulla” ti colpisco. Se fai come il tuo compagno, ti colpisco due volte! -


Su Mauro Bergonzi
Nato ad Ancona nel 1951, nel 1964 si è trasferito a Roma, dove ha vissuto fino a una decina di anni fa. Poi è 'fuggito' nella campagna della Sabina, dove vive contento con moglie, due figli e tre cani. Parallelamente alle ricerche in campo orientalistico, si è dedicato allo studio della psicoanalisi e della psicologia analitica junghiana. Dal 1985 lavora all'Orientale, dove insegna “Religioni e Filosofie dell'India” e “Psicologia generale”. Gli piace molto insegnare e fare ricerca, un po' meno scrivere e pubblicare. E' profondamente convinto che l'apprendimento passi attraverso il rapporto fra docente e discente e che la 'formazione' universitaria debba saper parlare anche ai vissuti esistenziali degli studenti, cioè al loro cuore e non solo alla loro testa.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.