Squarci | giovedì 15 gennaio 2009
Luca Cerullo
It’s too late to apologize
Mentre sono in macchina, le strade sconnesse di Varcaturo scivolano sotto il mio sguardo stanco, domani sarà un altro giorno faticoso, come sembra esserlo ogni ora trascorsa in questa città dai mille volti. Mentre ascolto nonsochi alla radio che mi ripete che lei canta, penso a quando gli americani vennero qui a liberarci e allo stesso tempo ad invaderci. Dovevano essere tempi strani, le strade di Napoli piene di ragazzotti alti e biondi, lucidi nelle loro divise marroncine, oppure neri giganteschi con la testa piccola e le labbra vistose, a guardare con occhio spaesato quel mondo che non conoscevano, di cui mai forse avevano letto, su nessun libro.
Napoli, quella che loro davvero immaginavano, non era quell’apocalisse di puzza e povertà, di prostitute, di contrabbando, di bassi e fondaci pieni di gente, tutti stipati come i topi, uno sull’altro, deprimenti, sporchi, colerosi.
Diverse le zone interdette da parte della polizia americana, come a dire qui ci sta il colera, state alla larga! E loro sgattaiolavano impauriti, come di fronte alla grotta del Ciclope, travolti dal panico dell’immondo, dell’abominio.
Ho letto che molti ritenevano che il colera lo avessero portato proprio loro, gli americani, poi mi viene in mente l’immagine dei fondaci, attraverso le immagini di repertorio che purtroppo testimoniano un’epoca scura, mi torna in mente il sudiciume nel quale si viveva e concludo con amarezza che noi napoletani siamo nati per scaricare la colpa sugli altri.
Come potevamo noi così sporchi, che vivevamo con i topi, guardare gli americani lustrati e impomatati e accusarli di essere i portatori dell'epidemia?
Come potevamo pretendere che fossero loro i responsabili?
Attraverso questa strada dissestata da anni, e penso che ormai gli americani si sono rintanati in queste case enormi che qualcuno ha costruito solo per loro. Hanno paura. Prima ci hanno invasi, ci hanno strappato gli sguardi suadenti delle segnorine, ci hanno umiliato, regalandoci le piccolezze che per noi erano essenza di vita e libertà, ora si nascondono, ora ci temono, non ci capiscono, forse cercano semplicemente d’ignorarci.
E chi non li capirebbe?
Tornano adesso, i figli dei conquistatori, ebbri dei racconti dei papà, Napoli dell’oro nuovo, Napoli che li guarda come gli angeli caduti dal cielo, Napoli bellissima, poi arrivano e trovano un nuovo Inferno.
Svolto per la Domiziana. A sinistra si va verso Mondragone, Baia Domizia, fino a Gaeta, a destra si torna a Napoli, si torna a casa. Raggiungo la torva e boschiva ombra di Licola, dove ci sono spiagge selvagge, come dimenticate dal tempo: stanno lì, con quel mare scuro e custode di segreti, con quella montagna in cui amava nascondersi la Sibilla Cumana, quella montagna scura come la morte, abbandonata, sola in mezzo ad un deserto notturno.
Le colline dietro cui si cela il mare sono rocciosi schermi invisibili dietro cui si nasconde la mia voce narrante, la mia anima ferita. Siamo ai margini dei Campi Flegrei, quelli ufficiali, quelli riconosciuti, quelli che ancora si vedono nelle guide turistiche che, solitamente, interrompono la loro gita immobile a Quarto.
I margini delle cose e dei luoghi a Napoli sono il degrado, sono la vergogna, un calderone in cui ricade ogni cosa troppo brutta per essere mostrata. Ma io non mi vergogno di attraversare queste strade piene di buche, questi luoghi sepolti, queste terre antiche calpestate delle civiltà che le hanno popolate.
Siamo ai margini, e forse anche io mi sento un po’ al margine, al confine tra una vita che evoca, ed un’altra che cerca di seppellirmi, sotto le macerie di mille altri volti e mille altre cose che per distrazione, per codardia, vengono accantonante per sempre.
E’ l’anima dei luoghi. La sola che non potrà cambiare. L’anima, l’anima ferita dei Campi Flegrei è lì che mi chiama ed implora aiuto, io come sempre scappo via, incapace di darle ascolto.
Eccoci, eccoci nel cuore, un cartello mezzo arrugginito mi avverte che dalla prossima uscita sono raggiungibili le incomparabili bellezze di Baia, Bacoli, Lago d’Averno, Monte di Procida, mentre alla mia destra, in mezzo al mare nero, al chiarore di una luce invernale, ecco apparire come fiamme azzurre, le culle sontuose di Ischia e Procida, appartati paradisi che temo ci guardino con disgusto.
Eccole, le due gemme del mare, davanti a me, splendide ed irraggiungibili, travolte dal frastuono delle macchine e dei motorini che le attraversano, violentate dal turismo selvaggio, dalla follia delle pasquette, dal chisenefotte generale.
Eccole sparire, mentre qualcuno alla radio mi dice che l’anno che verrà sarà un anno di rincari su tutti i fronti. Mi ripete che bisogna stare attenti alla spesa, che bisogna fare economia, che bisogna stringere la cinghia, che non si arriverà a fine mese, mentre in terza corsia spavalde auto costose mi sfrecciano davanti quasi si fosse a Le Mans, e mi viene da ridere pensando alla mia gente.
E’ una risata che mi graffia il cuore.
Perso, solo nella mia Clio, mi dico che è così che va il mondo, e che i responsabili della crisi siamo noi, siamo noi stessi a creare la crisi, così m’incazzo anche con l’uomo della radio e metto un cd, ascoltando a bassa voce note familiari e rassicuranti.
Vada a farsi fottere anche la radio, non ne ho bisogno, temo anzi che subisca lo stesso crollo della tivù, che sprofondi in quell’epidemica idiozia, in quelle tette al vento, in quella politica da fast food.
Le immagini scorrono, colpiscono la sofferenza di chi può solo stare a guardare il logorio che divora le colline a sinistra e le strane luci che evadono dai contorni di quartieri nuovi a destra.
Sono lontani, troppo lontani quei tempi in cui da queste parti non c’era che campagna, sentieri brulli su cui scalpitavano carrozze che conducevano i nobili alle vacanze, ai luoghi della villeggiatura, lontano per un po’ dal palazzo, dal regno famoso nelle illustrazioni antiche.
Lontani sono anche i tempi in cui qualcuno, e non si parla di pochi, credeva che questa città avesse ancora qualcosa da offrire a chi l’abitava.
Lo chiamavano rinascimento, e quasi tutti, affossati da anni ed anni di frustrazioni, avevano creduto in quella vivace parola che scoppiettava quando usciva dalla bocca, incapace di trattenersi, ecco, tutto è finito, anche per noi è l’ora di respirare aria nuova, ed invece niente, il solito inutile buco nell’acqua, la solita delusione nei volti di chi, troppo speranzoso, era tornato a casa, finalmente per libera scelta, chi aveva voluto spogliarsi dell'etichetta sempre scomoda ed ombrosa di emigrante.
Lo chiamavano Rinascimento, e invece ci ha visto morire di nuovo, rassegnarci alla sopravvivenza, alla felicità alternata allo strazio.
Vado avanti, nella mia prima corsia vuota, gli altri corrono, mi sorpassano e si sentono importanti nelle loro macchinone scaccia crisi, io vado avanti solo e lentamente, perché non conosco altro modo per osservare il mio paesaggio che mi scivola attorno, trasformandosi giorno dopo giorno, teatro dell’ormai imperdibile speculazione edilizia, che affetta le terre più impensabili. Alti promontori vedono sorgere case, valli in cui si coltiva vedono l’ultimo albergo ad ore che semina cemento e puzza di bruciato. Vado avanti con la musica, in questa notte solitaria e fredda, Napoli si avvicina.
Non resterà che la fuga, come è per tutti.
Ci si sbatte, si lotta per utopici traguardi, si piange, si ride amaramente e poi si molla tutto, perché non ne vale la pena, perché non è più tempo di fare la guerra con nessuno.
Si raggiungono quelle piccole città del nord… protette dalla loro nebbia, con quei centro città trionfi della pulizia, della civiltà, ma nient’altro.
Non c’è più niente, borghi che non hanno due secoli di viceregno, che non sono mai stati capitali, che non hanno mai fatto la storia, eppure oggi fulgidi esempi di perfezione, conquiste del razzismo.
E Napoli oltraggiata, Napoli dimenticata, Napoli offesa, Napoli menomale che ora siamo qui, lontani da lei, dagli oscuri morbi che l’affliggono.
Napoli sotto i piedi, Napoli dei ricchi, Napoli dei poveri, sipari incantevoli che nascondono l’orrore dell’interno della città, di quel ventre ancora vivo, ancora oggi, dopotutto, un ventre che ancora pulsa e genera i mostri.
Eccoti. Napoli sotto i miei occhi. Luci accese ma spente.
Le sue strade vuote che sono piene di buche, i segni del progresso con cui si ritorna indietro.
Paradossale. Come tutte le cose di questa città.
Il paradosso di chi piange la miseria e compra il televisore al plasma, di chi rabbrividisce davanti ai cumuli di spazzatura e poi non ricicla, di chi vuole la rivoluzione ma senza troppi scossoni.
Di chi si difende davanti ad un mania di Napoli, la esalta con gli slogan facili, inventa il nuovo orgoglio, e poi sparisce nel momento del bisogno.
Di chi scappa con la coda tra le gambe e si dice coraggioso ed orgoglioso d’essere nato qui.
Ma non ci torna a morire.
Nella mia mente prende ancora una volta forma l’immagine del napoletano che odia i napoletani, dell’odio di chi questa città l’ha lasciata ed ora la offende.
Nella mia mente questa gente dovrebbe bruciare.
Vadano all’inferno loro e le loro convinzioni razziste verso che li ha generati, verso chi li ha cullati e poi li ha lasciati andare via, come un’amante non più avvenente che non riesce più a pretendere l’amore del proprio uomo.
Vadano via se tornano solo per fare del male a chi non ne può più di soffrire, a Napoli che sempre ha sofferto l’occhio giudice di tutti, come se tutti stessero sempre a guardare nello stesso punto.
Napoli che piange la fuga dei migliori, Napoli in mano alla feccia, bistrattata, umiliata, Napoli più sporca delle fogne, Napoli piena di rifiuti, Napoli vergogna d’Italia, Napoli che grida aiuto e tuttavia sa dirsi orgogliosa, sa dirsi allegra, sempre a cantare la felicità.
Napoli che non c’è più, la Napoli di De Sica, la Napoli dell’oro, la Napoli di Ischia, Capri, Sorrento, di Eduardo, di Totò, la Napoli dei caffè e delle pizze, la Napoli che ormai non ne può più delle pizze dei caffè, che non perdona la fuga di Totò, di De Filippo, che non hai mai avuto l’oro, ma sempre solo polvere, polvere, polvere che ci annebbia la vista.
Napoli lontana secoli dalla vera Europa che macina lavoro e tecnologie, Napoli che è rimasta lì a guardare e a farsi guardare, crollando verso l’Ade più profondo.
Scivola, scivola notte, fammi dimenticare dov’è che passa la mia auto, dov’è che tutti continuano ad invocare mondi mitici, come il presente fosse quella carta sporca di cui nessuno può più parlare, argomento da omettere, meglio rifugiarsi nel passato troppo passato, quando gli Dei vennero a baciare questa terra, per poi abbandonarla come tutti.
Come fanno i turisti, sorpresi dalla spreco della bellezza che vive insieme a Napoli, da sempre.
Forse, azzardo, forse perché è troppo bella per non poterla sciupare.
Ed intanto sprofonda.
Sprofonda con le fughe di quelli che con Napoli si sono arricchiti e ora fanno gli intellettuali in quella Roma che respira il benessere della celebrità, cantanti nuovi, cantanti classici che affermano di evocare Napoli quando sono lontani, ma nel frattempo non s’azzardano a tornare, non osano farlo.
Sprofonda sotto le note sempre più deboli di chi diceva della carta sporca e poi si nasconde, sparisce.
Napoli? Chi l’hai mai conosciuta?
E sprofonda sotto gli occhi di chi la guarda da lontano, nella sua culla presidenziale, Napoli? Chi c’è mai nato?
Sprofonda sotto le mani di chi viene da fuori per cantare Napoli, portarla in giro per il mondo con le lune rosse e le maruzzelle e poi non denuncia la spazzatura, non entra nella lotta.
Napoli crolla sotto le parole non dette di tutti quelli che, ormai ricchi e arricchiti, hanno scelto strade diverse.
Hanno scelto una distanza che gli permette di guardare Napoli con l’occhio nostalgico di un antiquario, perché a Napoli non ci si può mettere più piede.
Perché è e sarà sempre un nascondersi dietro i paraventi.
Posteggio la mia auto, è notte fonda, gelida e ventosa.
Spero, mentre attraverso la strada che ancora mi tiene lontano da casa e dal mio letto, che questo vento si porti via anche il marcio di questa città.
Spero di cuore che domani la mia terra si svegli davvero ed inizi a lottare per vivere, a credere.
Spero che ci sia sempre tempo per incrociare lo sguardo dello straniero un giorno, e chiedere scusa.
Ma a volte ho paura che non ci sia un domani.
Che come sempre sia troppo tardi per chiedere scusa.