Squarci | lunedì 14 novembre 2005
Luciano Zaami
La partenza
Gli strappi delle nuvole vengono presto rattoppati dal lavoro del vento, e il grande velo grigio è così tornato a coprire la valle.
Una sottile pioggia unisce come fili di seta la terra al cielo, mentre un vento gelido spira dai monti a sud.
Non c’è tempo da perdere, bisogna partire.
L’Arciere si affaccia sulla sua alba, tutto è ancora incerto, freddo, un pessimo giorno per intraprendere un viaggio così lungo.
Ma il proprio dovere va oltre ogni condizione climatica, bisogna mettersi in viaggio con il personale carico di responsabilità, rispettare scadenze e appuntamenti, onore e sangue.
Qualcuno, dall’altra parte del deserto, lo attende. Qualcuno ha riposto in lui la sua fiducia, e sa che non verrà tradita.
Immerso nell’ultima ora della notte, non vede ancora chiaramente la strada, solo il profilo dell’orizzonte, che si perde nel primo chiarore del mattino.
Non vede nemmeno la pioggia, ma la sente ovunque, nascosta fra le tenebre, è lì, che cade goccia dopo goccia, come lo scorrere del tempo, piomba sulle vite degli uomini, in maniera invisibile ma percettibile da tutti.
Forse, questa pioggia è un gesto degli Dei per mostrare il loro disappunto, o forse è il modo per celebrare la grandezza degli eventi che si stanno per compiere.
Carica le armi sul dorso del cavallo e si prepara a partire.
Con sé non porta molto, lascia il superfluo nella ger.
Parte leggero per essere veloce e raggiungere in poco tempo il punto d’incontro.
Si dice che un nomade debba possedere solo ciò che riesce a indossare, e l’Arciere questo lo sa bene. Sa che tutto quello che gli serve risiede nella sua testa. Tutto il resto è costituito dal suo cavallo e dalle armi. Nulla gli occorre. Ogni bene materiale rappresenta un peso, un freddo vuoto. Conosce l’inutilità degli oggetti, la materia che sembra dover riscaldare la vita, che ne ruba invece solo il calore.
Spine che si incuneano nel profondo della mente, svuotandola e facendole perdere il senso della realtà.
Oggetti, cose, materia. Falsi idoli luccicanti che non placano la sete, ma aumentano solo il desiderio di averne di più.
Pretesti per invidie, liti, guerre, omicidi, rovine di popoli e nazioni.
Eppure, Egli e i suoi compagni, con la loro essenzialità e consapevolezza, imbracciano armi proprio per soddisfare la sete di potere dei potenti, per conquistare nuovi territori e grandi tesori.
Ciò che resta nella ger, lo verranno a prendere i pastori nomadi di passaggio, del resto la voce della guerra si sta ormai spargendo in ogni angolo dell’Impero, così altri guerrieri lasceranno le loro abitazioni provvisorie, e altri nomadi le prenderanno.
Monta in groppa al cavallo, cerca con lo sguardo le montagne alle sue spalle, ma l’oscurità e le nuvole ancora le avvolgono. Nulla si distingue, l’orizzonte, le nubi, le montagne, tutto a un palmo dal suo volto, eppure tutto così nascosto.
Ovunque oscurità.
Il freddo spinto dal vento, come una lama di coltello, attraversa gli abiti e si conficca nelle ossa.
Per affrontare il lungo viaggio e quell’alba gelida, fascia il suo petto e la sua testa.
Ma il vento, non curante, continua a battere sul suo corpo, e s’insinua nelle sue orecchie, e come uno spirito maligno grida, si dimena, crea suoni e voci per confondere le menti, e render pazzi i viandanti sprovveduti.
Le pozze d’acqua spinte dall’aria sembrano cambiar posizione, vagano leggere da un punto a un altro, ondeggiano come la superficie del mare, mentre la sottile pioggia cade trasversale.
È giunto il momento, è l’ora del piccolo gesto, quel leggero colpo di tacchi che sveglia gli animi e fa muovere il primo passo al cavallo.
Come un fiume in piena, la storia travolge tutto e tutti.
Avanti, avanti, la vita ha un solo verso, una sola direzione, e per quanto si possa fingere di tornare indietro, alla fine si gioca solo con se stessi e con il destino.
Un grande fiume di eventi, un’enorme piena impossibile da domare.
L’unico modo per non farsi travolgere dalla corrente non è nuotarci contro, ma farsi trascinare dolcemente, trovare il percorso migliore, aumentare la velocità ed evitare eventuali ostacoli.
È l’eterno scontro tra l’uomo e il suo destino.
Come un’enorme barriera, ciò che ci aspetta, si staglia invalicabile.
Eppure, questo è ciò che dobbiamo affrontare, quello che da sempre è là ad aspettarci.
Le invisibili paure, le sottili inquietudini dell’animo, per quanto impalpabili e nascoste, altro non sono che fortezze inespugnabili, enormi mura alle quali tendere pazienti assedi.
Sono eserciti compatti, e lunghe file di soldati.
Come in una grande cavalcata, bisogna accelerare il passo, aumentare l’andatura, prendere il galoppo e arrivare alla fine della propria esistenza.
Bisogna chiamare la carica e sfondare le linee nemiche, penetrare come un’ondata e catapultarsi direttamente oltre le mura della città, per arrivare nella piazza centrale, nel suo cuore pulsante, così da poter guardare gli occhi sbigottiti e increduli dei nemici e forse anche della vita.
Il cavallo avanza lento nelle ultime ore della notte.
In meno di un’ora i primi raggi del sole daranno forma alle ombre e l’Arciere si troverà già ai confini della vallata.
Nel buio sente solo gli zoccoli del cavallo sprofondare per pochi centimetri nel fango.
Il vento e la pioggia lo respingono indietro, ma lui resta fermo, immobile, fiero.
Solo i suoi occhi a mandorla si socchiudono per difendersi dal gelo.
Una pianura, un cavallo, un’armatura, delle armi, un lasciapassare imperiale e un cavaliere.
Adesso lui è l’Arciere d’Oro.