Squarci | martedì 12 dicembre 2006
Francesco De Sio Lazzari
Libri e magie
Si racconta che un giovane studente fu ospite d’un monastero in mezzo ai monti. Nel monastero v’era una biblioteca, nella quale, lungo i muri, brillavano mille e mille dorsi, istoriati di antiche e singolari scritture, un luccicore di colori su polverose e vecchie pergamene. (Occorre indicare che lo spunto di questa «fiaba» è stato tratto da uno degli «scritti postumi» di Joseph Knecht, il maestro del gioco delle perle di vetro?)
Il giovane studente prese un libro, e poi un altro libro e poi un altro ancora, e gli sembrò che quella fosse la biblioteca del Paradiso, in cui esistesse una risposta per ogni suo quesito, e pane alla sua fame. E gli pareva, quasi, che lì si potessero cercare le chiavi d’ogni problema e segreto, e toccavano a colui al quale l’ora magica le offriva in dono. Vi si parlava di malinconiche piogge autunnali e della vanità d’ogni cosa terrena: amaro era il sapore del mondo; e la vita, tormento. Ma v’erano anche libri in cui si narrava di dèi che ridevano con l’uomo di fronte ai giochi del mare e del sole, e di cieli splendenti sotto i quali perfino il delitto assumeva un volto d’innocente verità. E su questi libri il giovane incominciò a riflettere, dedicandosi alle precarie liturgie della sacralità del sapere.
In un pomeriggio silenzioso, mentre scrutava i manoscritti per cogliervi bagliori affioranti da orizzonti di tenebre, sentì di non essere solo. Nella stanza, contro il riverbero d’una finestra, c’era un ebreo errante, ch’era sopravvissuto a tutti i delitti e le catastrofi che hanno segnato la storia dell’uomo fin dalle sue origini. Aveva assistito all’uccisione d’un antichissimo padre, s’era accompagnato a Mosè nell’esodo dall’Egitto, s’era battuto col diavolo in un monastero europeo.
Da quel momento, e per alcuni anni, si videro quasi tutti i pomeriggi. L’ebreo errante gli parlava del mondo, e cercava d’infondergli la sua immensa esperienza, la sua misteriosa saggezza. Lo storico, egli diceva, assai spesso può essere come un cacciatore che spara nel buio e non sa né cosa mira né cosa eventualmente ha colpito. Anche il tempo subisce inciampi e incidenti, e può lasciare in una stanza una frazione eternizzata di sé. La memoria della maggior parte degli uomini è un cimitero abbandonato, dove giacciono senza onori i morti ch’essi hanno cessato di amare. Il segreto d’una buona vita è un patto lucido con la verità. Quando il viandante canta nell’oscurità, smentisce la sua paura, ma non vede per ciò più chiaro. Il fiume del divenire e la musica della vita possono essere tradotti in severi logaritmi. Scrivere è bene, ma pensare è meglio; l’intelligenza è bene, la libertà è meglio. Non v’è nulla di tanto lento, quanto la vera nascita di un uomo.
Al giovane sembrò di ascoltare la melodia del vento, d’un vento tiepido, pieno di voci del passato, di mormorii di fontane antiche, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci. E quando l’ebreo partì, credette di aver trovato la pace in una casa dove i ricordi si materializzavano con la forza dell’evocazione implacabile, e vagavano come esseri umani attraverso corridoi silenziosi. Il tempo presente e il tempo passato, egli andava ripetendosi, sono forse presenti entrambi nel tempo futuro, ma il tempo futuro è certo contenuto nel tempo passato. Nel mio principio è la mia fine, e nella mia fine è il mio principio. Innumerevoli uomini sono come foglie secche, che si librano nell’aria e scendono ondeggiando al suolo. Ma altri uomini, pochi, sono come stelle fisse, e non c’è vento che li tocchi: hanno in se stessi la propria legge, il proprio destino.
Così passarono gli anni. Nella nostalgia dell’ebreo ch’era partito per non più tornare, il giovane aveva scritto un libro nel quale aveva cercato di fissare ciò che gli era stato insegnato; e ora desiderava ritornare nel lontano monastero, in mezzo ai monti e ai prati, in quella biblioteca che gli era sembrata dolce come il paradiso.
Il giovane prese uno di quei volumi ch’erano rimasti immobili per tanti anni, un manoscritto dell’ebreo, lo dispose su di un leggio e incominciò a decifrare lo scritto finemente miniato; e la leggenda narra che vi trovò tutta la sapienza dei popoli intrecciarsi in armonici e inattesi legami, in sempre nuovi e diversi rapporti, e si accorse che da antiche scoperte e osservazioni, da vecchi simboli millenari, s’alzava sempre un altro e differente quesito. Il giovane leggeva, e gli ideogrammi si fondevano, si svincolavano, danzavano variamente e si ricomponevano in forme imprevedibili - caleidoscopio di figure e sogni - per mutar senso inesauribilmente.
E quando sollevò lo sguardo per riposare gli occhi, si avvide di non essere solo tra quei libri. Tra gli antichi e polverosi scaffali, nella luce dorata che splendeva dolcemente nella penombra, c’era un vecchio, forse l’archivista, tutto affaccendato e intento al suo lavoro. Il vegliardo prendeva i libri con gesti delicati, leggeva gli scritti ch’erano sul dorso, vi soffiava il fiato e col pollice lieve cancellava i titoli, ai quali sostituiva altri titoli, nuovi, del tutto differenti.
E quando il giovane tornò al suo volume, a quello che stava leggendo e nel quale gli era sembrato trovarsi distillata tutta la sapienza di esperienze millenarie, s’accorse che non v’erano più le immagini attraenti di poc’anzi; e fuggiva e dileguava quel mondo che l’aveva abbacinato, e restava semplicemente la polvere della pergamena.
Egli sentì poi una mano posarsi sulla spalla. Il vegliardo si era avvicinato sorridente, prese il suo libro, vi passò lievemente il dito, e sulla pelle nitida tracciò con la penna, lentamente, strani arabeschi, disegni misteriosi, simboli sconosciuti. E sempre sorridendo, con libro e penna svanì in silenzio.
Aveva qualcosa di molto pitagorico e molto claustrale.