Squarci | giovedì 7 dicembre 2006

Donato Di Crecchio

La città degli orologi fermi

Comincia a fare freddo.
Traspare dalle mie palpebre un immenso fascio disordinato di colori: come frecce d'arcobaleno, che lanciate da chissà dove, mi feriscono.
Dietro le mie palpebre, verso l'alto che per molti è invisibile: il cielo. Lo guardo sempre e il suo significato mi sfugge. Lo guardo di giorno e di notte e l'angoscia che in quei momenti mi assale, si fonde con la sua eterna ed agghiacciante immobilità. Sento delle voci, ma non vedo le bocche. Dei passi, ma non i piedi. Non accade nulla. Non so cosa possa accadere. Se debba avere fame o sete, se sarò di nuovo giudicato dal mondo. All'improvviso mi riapproprio delle mie membra: le avevo un attimo dimenticate.
Questo è il momento in cui il sole cade giù e lascia che la terra si raffreddi, che i fiori si chiudano, che gli alberi tacciano. È quel momento in cui non sono più me stesso e sento che il frastuono, che risuona con violenza, mi opprime: mi porta in quei luoghi dove le mie impronte sono scomparse da tempo. Lo so che quei luoghi non sono, che quelle voci non sembrano, ma appaiono dentro di me, in un vortice memorabile che zittisce e disorienta il mio silenzio.
Nei miei vortici chiusi a chiave albergano tante persone, di cui non ricordo né il dramma né il sogno. Ricordo alcuni dei miei clienti più affezionati e, di questi, soprattutto i visi e il profumo delle loro soddisfazioni.
Ero un professionista serio, iscritto all'albo del cielo e incaricato del bene comune e del suo prezzo. Adesso mi ritrovo qui senza fare niente, per colpa di questa pioggia invisibile
– ... è perché cade qualcosa dal cielo, invisibile e silenziosa. Solo noi due ne sentiamo il peso. Odoro di inutile e so di accompagnare al mio corpo questo fetore.
– I nostri orologi sono fermi e sono ore che parliamo di queste cose.
– Hai un ombrello bellissimo, senza pezzi di stoffa e aperto come una raggiera.
Anche se il cielo è sereno, la pioggia invisibile continua a cadere. Anch'io, come te, ne sento il peso e sogno di poter chiudere questo fastidioso ombrello...
Se ben ricordo, c'era un tempo in cui sentivo forte la pesantezza del livellamento umano... Il desiderio di ordine vuole trasformare il mondo degli uomini in un regno inorganico in cui tutto marcia, funziona ed è assoggettato ad una norma sovraindividuale. Il desiderio di ordine è al tempo stesso un desiderio di morte, giacché la vita è una perpetua violazione dell'ordine. Oppure, con una opposta: il desiderio di ordine è il pretesto virtuoso con cui l'odio per gli uomini giustifica i propri misfatti...
Prima che la morte mi prenda, prima che l'ordine mi costringa a girare in un idilliaco cerchio al di là del bene e del male, spero di poter chiudere questo ombrello. Ho insegnato la pazienza agli orologi, ai pochi orologi che, ringraziandomi, hanno deciso di fermarsi. La loro morte è solo apparente, poiché sanno sia cosa vuol dire essere schiavi sia pazientare per veder passare la vita. Li credono morti, ma il loro cuore pulsa ancora.
C'è tutta questa confusione di persone che, armate della loro stanchezza, parlano di ciò che non le interessa, urlano ciò che gli altri vogliono ascoltare e aprono le orecchie solo a ciò che vogliono udire. Non è mai capitato loro di invocare il silenzio e desiderare ardentemente di essere presi e portati via dal nulla. Questo è il nulla: la totale apatia degli uomini, la loro mancanza, le loro assenze e la pura e cieca paura delle altrui personalità.
Non voglio dire il mio nome: è inutile che me lo chiediate, non ve lo dirò! Non soltanto perché l'abbia dimenticato, ma perché ho bisogno solo del mio silenzio...
... le mie grida sono il fumo di un fuoco spento,
sono una pietra invisibile,
un granello di sabbia,
tra le ceneri di un sogno bruciato.
Mi perdo fra tutti, mi perdo nel vento, tra le steppe.
Voglio stare con chi ha dimenticato il proprio nome, con chi sente la propria identità giustiziata dalla dimenticanza degli uomini. Non sanno chi sono e né vogliono saperlo. Si chiedono sempre quale sia il loro "Io" e non lo identificano in un carattere stabilito. Lo fanno soltanto in un complesso di possibilità. Non desiderano agire: preferiscono aderire, accogliere, lasciare affiorare in se stessi la voce degli altri, della vita e del destino. Vivono avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L'unico loro tempo è una serie di attimi, che legati in una catena, organizzano la più misera delle storie.
Come se non bastasse, si vergognano del loro silenzio. Non sanno cos'è la vergogna: la consapevolezza di possedere soltanto il proprio corpo. Per questo continuano ad urlare, pur di non sentire i pensieri che, altrimenti, demolirebbero il loro silenzio. Mi ero accorto che tutto quello che produceva la fabbrica non era giusto. Mi sentivo male e non riuscivo a capire il perché. Quella fabbrica di sogni sbagliati mi appiattiva: riusciva a farmi credere che tutto quello che decideva fosse la cosa giusta e che tutto ciò che era in lei fosse la verità. Anzi, solo in quell'incubo a colori potevo trovare tutta la realtà, confezionata e edulcorata, pronta per essere vissuta.
Ce l'ho fatta. Ho capito che se per piccole cose o per evanescenti sfumature, certe cose potevano piacermi, il tutto non poteva compiacermi. O desideravo cosa volevo o avrei assoggettato i miei gusti e la mia vita ad un gusto medio, ad un essere perfetto a cui tendere.
Ho ricominciato a ripararmi da questa pioggia battente con un ombrello privo di stoffa. Ho scoperto che chi si ripara con una cosa inutile non viene più chiamato da nessuno e nessuno rivolge lui la parola...
– ... Hai un ombrello bellissimo.
– No, è un normalissimo ombrello.
– Già hai dimenticato il motivo per il quale lo tieni aperto?
– Scusami, ma trovo inutile e pazzesco tenerlo aperto.
– Ah sìì, e che ne dici di queste persone? Sembrano tante formiche con la sola differenza che al posto delle loro scorte invernali, portano fardelli di ipocrisia da distribuire ai loro simili.
– Non lo chiuderò mai quest'ombrello?
– Se troviamo la strada per la città degli orologi fermi non ne avremo più bisogno.
– Voglio andarci!
Scambiatesi queste parole, il Dimentico e lo Spacciatore fallito cercarono un po' di silenzio in mezzo a quelle persone. Cercavano di capire il perché di quel moto, connettivo e orizzontale, che li incantava in maniera ossessiva.
Quest'immenso e inarrestabile chiacchiericcio produce un rumore di fondo che somiglia ad un lamento corale, ad una preghiera senza destinatario, ad una desolata confessione d'impotenza.
Tutto dovrà finire, e la terra sarà certo consumata a furia di essere calpestata. L'immensità deve pur essere stanca di questo granello di polvere che fa tanto rumore e turba la maestà del nulla! L'oro dovrà pur consumarsi a forza di passare di mano in mano e di corrompere; questo vapore di sangue
dovrà placarsi, il palazzo crollare sotto il peso delle ricchezze che nasconde, l'orgia finire e noi tutti ridestarci!!

Che epoca triste e bizzarra la nostra! Verso quale oceano scorre questo torrente di iniquità? Dove andiamo, in una notte tanto profonda? Coloro che vogliono palpare questo mondo malato si ritraggono di scatto, spaventati dalla corruzione che si agita nelle sue viscere. Abbiamo tentato di tutto e rinneghiamo tutto senza speranza; e poi, una strana cupidigia alberga nella nostra anima, nella nostra umanità; un'inquietudine immane ci rode.
Avvertiamo attorno a noi un freddo sepolcrale! Ciascuno si precipita dove lo spinge il proprio destino, la gente formicola come gli insetti su un cadavere; l'oro rotola, il vino scorre a fiotti, la fredda lussuria alza le vesti e si agita… orrore! Orrore!
E poi, sopra tutte questo c'è un velo di cui ognuno afferra una parte e nel quale si nasconde più che può.
Derisione!

questa pagina è la pausa tra un sospiro e l'altro.
su questa pagina è dipinto il vento:
perché invisibile corre
perché gli angoli lontani
magia sussurra

Ora la strada si vedeva quasi. Camminando erano partiti e camminando stavano giungendo al sentiero d'oro. Al sentiero che li avrebbe condotti alla città degli orologi fermi. Un manto erboso, immenso e seducente, si ergeva davanti ai loro occhi. Un dosso, oltre il quale sarebbe iniziato il loro pellegrinaggio in quel paese di dimentichi, violentemente si impossessò delle loro anime. Era magnifico. La loro mente era semplicemente salita di qualche tono. A quel livello solo il buon senso avrebbe potuto scrutarli. Nessuno, infatti, li vide. La loro dimensione era evitata dall'indifferenza e dall'astinenza dei sogni, e nessuno espresse il desiderio di cercarli o si accorse della loro mancanza.
Dopo un po', dopo aver tanto sostato e pensato, risultò del tutto strano tornare a camminare dentro quei vecchi corpi. Eppure era stranamente piacevole, come imboccare una nuova galleria e giungere laggiù, dove nessuno era mai stato.
Sentivano sempre di più una strana pace dentro di loro, e mai sentirono il bisogno di parlare tra di loro. Come se avessero pensato sempre gli stessi pensieri, potevano contemplare la fine dell'uno nell'inizio dell'altro, in una simbiosi dimensionale che li faceva camminare con un solo cuore.
L'orizzonte aveva un colore intenso e abbagliante che solo la parola "speranza" può cercare di descriverlo. Appariva anche molto lontano, più del nostro amore che precipita, più lontano dei confini roventi di un deserto. Era come se quel mondo e quell'orizzonte confinassero in un punto: accecante e intenso, per questo irraggiungibile.
Nell'aria vi era uno strano suono. Era la vita stessa che suonava. Bastava respirare e potevi sentirla. Più respiravano e più credevano che qualcosa li stesse aspettando... Una foresta, di pini altissimi, stava per accogliere i due raminghi... Sotto ogni albero c'era un cartello:
OBBLIGATORIO RACCOGLIERE FRUTTI !

Quel cartello era chiaro. Meno chiaro era come si facesse a raccogliere quei frutti. Data l'altezza, data la loro statura e date tutte le possibilità. Stavano ancora pensando, quando si accorsero che i frutti appesi ai rami degli alberi non erano che cuori pulsanti. Cercavano una risposta e non la trovavano. Sembrava che avessero dovuto raccogliere frutti e basta. Ma non potevano proprio farlo. Perché? Senza avere corpo, i loro pensieri volavano, sbattevano le ali della loro profonda convinzione, volavano e si posavano su tutti quei cuori. Questi, quasi a ricompensare i due raminghi, coloravano loro il cammino e lo sguardo; tacevano quello che era sbagliato e attorcigliavano i due in una stretta gioiosa.
Continuavano a camminare fino a quando dimenticarono quello che stavano guardando, fino a quando non si presentò loro davanti un enorme portone, forse la porta di una città. Lo Spacciatore e il Dimentico potevano, a quel punto, solamente bussare e aspettare. Quando il portone si aprì i due raminghi si sentirono come a casa loro: le persone che abitavano quella città conoscevano i nostri due amici. Lo Spacciatore era tempestato di verità come un diamante corteggiato da luci ed ogni parola era la richiesta di un sogno. Il Dimentico era tranquillizzato da tutti, e tutti si offrivano di raccontargli storie o di dargli da bere.
– Siate i benvenuti, vi aspettavamo – Sembrava dire un uomo che, dal modo in cui la gente lo riveriva, doveva essere il capo. Tutti si allontanarono e lo Spacciatore capì che era giunto il suo momento. Si guardò intorno: erano tutti seduti, pronti ad ascoltare la sua storia. Non parlava, ma la gente attendeva un suo gesto. Era un po' arrugginito, ma pur sempre un professionista. Dalle sue parti nessuno era più capace di sognare. Le scatole colorate dominavano le teste dei bambini e la sua carne fatta di sogni era creduta carta straccia e non riciclabile.
LA STORIA
Aveva un lungo impermeabile nero, un cappello a tuba bassa e una benda sull'occhio accecato. Il suo viso non era impresentabile, ma semplicemente impassibile. Esattamente a metà di un fascio di luce e di un'ombra che cercava di scansare, rimaneva immobile. In un occhio, l'ombra profonda e la pupilla di un uomo diviso a metà. Luce è quella che noi vediamo. Buio è quello che la nostra posizione di uomini non ci permette di vedere. Ma ne siamo sicuri? Credeva nel caos, in quell'inganno mascherato da immagine. Il buio e la luce sono esattamente la stessa cosa: un serpente che si morde la coda, una fusione perfetta tra l'odio e l'amore, tra il vuoto e il pieno, tra la ragione e l'irrazionale. In un occhio aveva la luce e nell'altro il buio; eppure nel suo cervello, in una simmetria che ha del miracoloso, riusciva a vedere il buio con la parte del cervello che legge la luce e viceversa.
Ma facciamo silenzio!
– Immaginate una grande piazza, quasi come questa, in cui tante persone camminano nervose e sempre di fretta. Questi erano ossessionati dall'idea che i loro orologi potessero andare troppo veloci – Un eterno "No" pervase la platea. Quella era la città degli orologi fermi! La loro vita era scandita soltanto dai loro cuori. Gli orologi erano oggetti assolutamente inutili, asettici e senza valore.
– In quella bolgia capitò di proposito un uomo. Era uno di loro: una persona che, bagnata fino all'osso dalla pioggia invisibile, negli occhi ospitava una strana attenzione, una strana inquietudine, del colore della furbizia, con una sfumatura verso la cupidigia e il tono acceso di un odio opaco. Prese da una valigia un grande libro con un titolo strano: "Storia del genere umano". A quel punto sorrise e per un attimo pensò alle sue immense e svariate possibilità. Aveva voglia di imboccare la strada, simile a quella che i carri di fuoco prendono quando, una città, vogliono dominare e, rivolgendosi a quei quattro o cinque collaboratori che lo seguivano, cominciò a chiedere a chiunque passasse:
"Scusi, vorrebbe leggere questo libro... "Nessuna risposta. Solo un cenno per cacciarlo via.
"... Scusi, vorrei proporle di leggere... No! Non vendo nien... Senta, sarebbe interessata.. Mi perdoni, non avevo capito...
Signore, sì, lei.. le interesserebbe consultare... Come? Non legge?"
A quel punto urlò:
"Siete proprio sicuri che nessuno voglia leggere questo libro?"
Solo uno strano brusio come risposta, a conferma del fatto che i passanti non erano minimamente interessati a quella storia. L'uomo, allora, morendo dalle risate, ripeté una volta ancora la domanda. Nessuno voleva leggere quel libro. Quindi, con una paternalistica assunzione di responsabilità, disse:
"Va bene, possiamo montare il regime".
A sentire quelle parole alcuni scoppiarono in lacrime, e tutti, alzandosi, guardarono lo Spacciatore negli occhi. Ognuno mandò, come un fulmine cosparso di marmellata, un proprio ricordo all'oratore. Dopo aver ringraziato, tornarono nelle loro camere a riflettere sulle infinite possibilità che hanno i piani di intersecarsi e sulle incognite che tali sistemi implicano nel momento delle creazioni di mondi possibili. La loro camera era l'incarnazione della familiarità, il compendio dell'amicizia e lo stupore dell'inutilità. Aveva il profumo dell'essere tranquillo e il colore delle stelle a mezzanotte. Il silenzio che dominava la stanza era un vassoio con dentro l'intero oceano che bagna le coste del paradiso.
Si sentirono come a casa. Capirono che in quella città potevano trovare la dimora del loro essere, asilo alle loro anime: serene e placide le carezze, significative le gesta e le parole che i due raminghi trovarono quella sera, prima di andare a dormire. Volevano riposare, crogiolarsi su quelle strane sensazioni. L'indomani, lo Spacciatore avrebbe raccontato un'altra storia, sperando che quel posto avrebbe aiutato la sua, così povera di grandi speranze.
La mattina seguente, il capo della comunità li accompagnò per le strade, per i palazzi, per quelle vie dove i bambini giocavano con le tigri e con i leoni. Li accompagnò nel bar dove si discuteva di sogni e nei teatri dove si recitava la notte e si declamavano le stelle. In quei posti dove gli uomini sono trasparenti e le donne sono uomini.
Li accompagnò al cimitero, dove l'unica tomba apparteneva ad una donna che non aveva bisogno né di morte né di epitaffi: dove la sua esistenza non esisteva perché quando si è, si può essere persino offesi, e quella donna era un'aura scontata nel cuore di ogni uomo.
Li portò nei luoghi dove i ragazzi dipingevano il cielo di buone intenzioni e, magnificamente, accudivano all'indecisione della verità che non voleva mai fare la parte del dolore.
Questa era la città degli orologi fermi. Questa è la nostra vita: specchio e tendenza degli altri cuori nei mondi in cui l'orologio domina e nei mondi in cui l'ombrello inutile lo aprono in troppo pochi. Quei pochi che sono costretti a fuggire e a venire qua, dove non piove indifferenza...
A che ora si parte?
Ad un'ora imprecisata. Forse domani. Forse mai. Chi lo sa..
Pronto per il nuovo giorno, dirigendosi verso la piazza che il giorno prima lo aveva visto protagonista, lo Spacciatore poteva e doveva raccontare la sua storia. La storia che mieteva coscienze e donava buona fede senza ritegno, illuminando per loro tanti cuori di ghiaccio.
La notte spezzata.
– L'inferno di questa vita tende la mano ai miseri, prima che entrino nel paradiso della vita eterna! Quando le tenebre li prendono tra le sue braccia escono ombre e scompaiono come fumo che vola. Di loro son piene le strade e i sentieri infiniti; la testa di ognuno sembra un chiodo nero: piegato e stanco. La vita li inganna... una fune di ferro hanno sul loro collo sottile e senza forza. Essi sono i bimbi ingannati dalle speranze infondate della vita. I loro occhi piccoli, pieni di sofferenza, le cui cavità si aprono come un abisso, mi addolorano. Quanta massa di lor preghiere si condensa in maledizioni sul crepuscolo della città; poi, come un gioco mortale, si lancia sul mondo... La vista di quegli occhi mi riempiva il cuore di dolore; le parole emesse da quelle bocche minuscole, piene di veleno e sventura, versano benedizione e maledizione...
Fine. Nessun commento. Nessun respiro, neanche un cenno insignificante. Lo stupore regnava in quella piazza.
Fu l'ora della processione. Un corteo di bambini, tutti vestiti di nero, si muoveva silenziosamente lungo le strade della città. Non ci sono regole da rispettare, solo una linea di sottile rispetto da seguire. E' evidente il lutto, poiché nessuno ride. Ci sono dei manifesti ai lati delle strade. Raffigurano una donna, sempre la stessa. Ha i capelli neri che le cadono verso l'alto e sembra distesa su un grande tappeto. Con un mano si copre il viso e con l'altra si copre il pube, tenendo strette le dita. I muscoli del suo corpo sono eterei e non sembra affatto una foto, ma un'inquietante realtà. Non è una donna quella lì, in quanto non può avere figli.
I bambini sono quasi tutti passati. Ne mancano pochi prima che il funerale finisca. Nessuno mormora e nessuno piange. E' solo tristezza. Come un vuoto che, ripiegandosi su se stesso, stride. I bambini escono da un luogo che non conosciamo...

... mi straziò la situazione di quel
fanciullo dimenticato,
la sua parola pesante, la sua preghiera calma...
mentre il crepuscolo scende
e smuove facilmente i rami,
e la notte agita ogni cosa
nelle braccia delle tenebre diffuse.

La dignità è donna? O no? E' un fiume lungo o maestoso? O la sua acqua è putrida e attende? E sul quel manifesto, ripetuto infinite volte, c'era lei?
Queste domande si persero nello spazio infinitamente surreale che circondava i due "raminghi in nessun posto".
Il loro viaggio era finito. Non erano più nella città degli orologi fermi. Si erano alzati nuovamente di qualche tono ed erano finiti in un nuovo vortice intellettuale che creava una luce fluttuante capace di portarli dovunque. Semplicemente credevano già di essere dovunque.
Una volta risaliti dalla città, in una zona intermedia che chiameremo transpacifica, vedevano tante cose. Il loro luogo era immenso eppure limitato. Vivevano in una bolla, all'interno di un limbo. E come tanti specchi, potevano guardare dentro ad un milione di case, attraverso i monitor di televisori e computer di numerose famiglie. A prima vista, un panorama strano.
Si libravano in quell'aria stendendo le mani in ogni dove e attirando verso di loro i monitor che volevano vedere. Monitor dopo monitor osservavano, guardavano e cercavano una spiegazione. Non mangiavano e non bevevano. L'unico magro pasto erano quegli sguardi nelle case del mondo, nella vita delle persone, nell'incastonatura della civiltà postcontemporanea.
Per un tempo sospeso, come quello di città di cui ora non ricordavano il nome, osservavano a più non posso, passando di casa in casa, di famiglia in famiglia, scambiandosi occhiate fatte di sguardi sconsolati.
Quello che vedevano era sempre uguale. Non c'erano che copie delle fotocopie, che a loro volta si moltiplicavano.
Stare lì dentro, a guardare negli occhi chi osservava remissivo quelle immagini, era una grande tortura, un vento assassino di speranza che non lasciava scampo alle loro storie, alle loro ossa di riposare. Si chiedevano perché tutte quelle persone guardassero cose che potevano annullarle, e perché nei loro occhi ci fossero vuoto e noia come se nel mondo esistessero solo scatole colorate.
Ogni monitor, ogni sguardo, ogni persona era uguale all'altra e perfino i sogni, che cercavano di riprendere il dominio delle ragioni, erano immagini sbiadite di film senza senso.
I sogni non sono fatti di pellicole, né di assordanti rombi e sputi di fuoco.
Cominciarono ad odiare quel limbo, quel luogo in cui ognuno dei milioni di buchi conduceva ad un nulla spregevole e annientatore, un nulla in cui occhi e orecchie si buttavano senza chiedere.
I due "raminghi in nessun posto" rimasero ad aspettare fino il giorno in cui il buon senso si riappropriò delle strade e la dignità si risvegliò felice, correndo tra i tanti cuori pulsanti che, finalmente, avevano una casa in cui tornare.


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perché invisibile corre
perché gli angoli lontani
magia sussurra


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.