Squarci | martedì 5 dicembre 2006

Margherita Cittadini

Elda

Elda è nata affetta da fibrosi cistica, una malattia genetica che non perdona. La sua vita è stata un continuo via vai dall’ospedale Gaslini di Genova al policlinico di Cesena. E’ una malattia che permette di vivere serenamente fino all’età di 12-13 anni: basta assumere alcuni enzimi pancreatici. Poi, cominciano i ricoveri, una volta l’anno, poi due volte l’anno e poi tre quattro e così via.
Nonostante la malattia, si è sposata, ha avuto un bambino sano, e dopo qualche anno il matrimonio è finito.
Elda ebbe consapevolezza della gravità della sua malattia all’età di sedici anni, anche perché a quella età intervengono gli psicologi dell’ospedale Gaslini per aiutare gli ammalati nel loro difficile percorso. Ogni qualvolta tornava a Genova per sottoporsi alla terapia, Elda incontrava tutti i suoi amici di sventura. Erano anni che si incontravano lì e scherzavano tra loro prendendosi in giro. “Sei ancora qui” era un modo per esorcizzare la paura per ciò che doveva ancora avvenire.
Talvolta, quando era sola con se stessa, Elda crollava. L’ho sentita piangere disperatamente per quanto le era capitato, e neanche il figlio è riuscita a darle la forza per andare avanti in modo più sereno. Elda non aveva cicatrici, ma il suo volto era una cicatrice. Era segnato dalla sofferenza non tanto fisica quanto psicologica. Forse avrebbe potuto ancora vivere qualche anno, ma a trentasei anni non ha voluto più combattere. Era esausta. Dette disposizioni sul da farsi quando se ne fosse andata, e chiese di essere lasciata in pace. Alla madre, che continuava ad insistere affinché si nutrisse, rispose: “lasciami andare, sono stanca”.
La storia di Elda è quella di tante altre persone. Mi ha impressionato di più perché l’ho vissuta da vicino e perché si trattava di una persona giovane.

Quando qualche anno fa sono stata anch’io all’Istituto Gaslini di Genova per mia figlia - nulla di grave, solo accertamenti - ho convissuto una settimana con ragazzi affetti da fibrosi cistica, provenienti da tutta Italia. E’ stata un’esperienza drammatica. Tutti giovanissimi.
Alcuni mi hanno raccontato la loro esperienza. Un ragazzo - di cui mi sfugge il nome, ma ricordo bene l’età, 28 anni - mi mostrò la sua foto di qualche anno prima e disse: “tu mi vedi così adesso, ma prima ero un bel ragazzo, suonavo la chitarra, avevo tanti interessi…”. Aveva 28 anni ma, mentre parlava, mi sembravano 78. I visi erano stanchi e vi si leggeva chiara una sola richiesta: quella di poter vivere. Non mi va di dire altro.
Quando si soffre, c’è una parte di noi che va via La sofferenza ruba parte di noi e primo fra tutti: il sorriso.
Spesso siamo portati a dire che il sofferente alla fine si rassegna oppure che una persona se n’è andata serenamente. Non è vero: nessuno accetta e nessuno va via serenamente.


Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.