Squarci | lunedì 12 dicembre 2005

Giangaetano Bartolomei

Madeleine

Mia madre, Madeleine Beaufort, era nata a Parigi, nel 6° arrondissement, in rue Jacob. Ogni volta che le chiedevo (e lo facevo spesso, da ragazzo): “Mammà perché sei venuta a stare in Italia?”, mi rispondeva smarrita e quasi spaventata dalla mia domanda: “Ma non lo so...Non lo so, mon amour”, con le “o” molto chiuse perché, dopo decenni di vita in Italia, poco aveva perduto del suo accento francese. Io mi divertivo, qualche volta, a provocarla, e le ripetevo per scherzo una cantilena, che avevo inventato per lei: “Maman est une mange-grenouilles, maman est une mange-escargots, maman mange les terrines de volaille avec beaucoup d’ail”. “Non dire così, mon amour, ne dis pas comme ça, non sta bene, non é bélo...A maman non si devono dire queste cose ”.
Povera Madeleine Beaufort, condotta dall’amore a lasciare Parigi per finire a Pisa che, con Parigi, aveva in comune soltanto la “P”. Eppure, lei non si lamentava mai di questo suo svantaggioso trasloco, e nemmeno rammentava mai con nostalgia la sua città natale che io, invece, amavo a tal punto da sentirmi un parigino in esilio perpetuo.
Era nata, Madeleine Beaufort, il 17 gennaio del 1909, dopo sua sorella Martine, da Catherine Chenut e Philippe Beaufort, notaio. A dieci anni aveva sistemato per sempre i suoi legami familiari avendo perduto entrambi i genitori – di “spagnola”, credo. Naturalmente, era stata messa in collegio, con Martine, dallo zio paterno, Gustave, nominato loro tutore dal Tribunale. E in collegio, dalle suore di Nevers, erano rimaste dieci anni, le due sorelline.
Ne erano uscite, la prima bigotta e portata alla vita religiosa - che, infatti, avrebbe abbracciato qualche anno dopo, prendendo il velo - e, la seconda, mia madre, svagata, incline alla malinconia, ma, insieme, facile ad accendersi di improvvise - e brevi - passioni.
Madeleine aveva conosciuto, quasi per caso, un bel giovanotto napoletano, avvocato di ottima famiglia, che era transitato più volte per lo studio dello zio Gustave, notaio anche lui. Tentava, colui che sarebbe diventato mio padre, di sbrogliare la matassa dell’eredità contestata di mio nonno, emigrato a Parigi nel secolo precedente ed ivi deceduto, dopo essersi fatto rapinare tutti i suoi cospicui beni da una gagliarda e avida alsaziana, dal cognome tedesco ma dalle seducenti grazie parigine. L’aveva incontrata in mezzo alla strada, a Pigalle; o meglio, era stata lei a farsi incontrare da lui. Insomma, per via dell’ingarbugliata eredità di mio nonno, mio padre era capitato, non so come, nello studio Beaufort, rue de Varenne, dove Madeleine, uscita di collegio, lavorava gratis come segretaria.
Mio padre aveva poco più di trent’anni, era fascinoso e “sciupafemmene” (dio! Perché non gli assomiglio in niente?) e mia madre si era lasciata incantare. E, siccome non faceva una gran vita nella sua condizione di orfanella, ospite degli zii, segretaria a titolo gratuito e non era affatto felice, accadde che la seconda volta che lo vide, si innamorò di quel giovane straniero che, sin dal loro primo incontro, l’aveva guardata come nessun uomo aveva mai fatto prima, e le aveva parlato con una voce vellutata e suadente, da far venire la pelle d’oca.
In breve, gli zii di Madeleine erano stati contenti di levarsi di torno il peso e la responsabilità dell’orfanella, che, in più, all’apparenza, stava per trovare una eccellente sistemazione. A quel tempo, Napoli godeva, sì, di cattiva stampa nell’ Italia del centro-nord, ma era tutt’altro che disprezzata a Parigi, dove le persone colte la ritenevano, a ragione, l’unica vera metropoli italiana (Roma, agli inizi del ‘900, era ancora poco più di un villaggio, abitata soprattutto da preti e pecorai).
E così, Madeleine Beaufort, un anno dopo l’apparizione del giovane italiano nello studio notarile di suo zio, era già installata a Napoli, in un ampio ed elegante appartamento di Piazza della Borsa, come legittima consorte dell’avvocato Gerardo Greco.


- Mammà, ma chi te l’ha fatto fare di lasciare Parigi?
- Ma non lo so, mon amour, non lo so...E’ andata così, e basta...Et maintenant, arrête avec tes questions, je t’en prie.
Era il 1953, e io ero prossimo alla ventina. Vivevamo, noi due soli, a Firenze, in via dei Fossi, a due passi dall’Arno. Mio padre era... Dov’era? E chi poteva saperlo! Una cosa soltanto era sicura: il suo ultimo domicilio conosciuto era stato...a Parigi.
Le cose andarono in questo modo: nel 1937 mio padre che, come tutta la sua famiglia, era antifascista, era dovuto scappare in Francia, in fretta e furia, per non finire al confino o, peggio, in galera. Io avevo tre anni, mia madre era stata amorevolmente assistita e confortata dai suoceri, dalle cognate e dai cognati napoletani. Mio padre aveva continuato a dare, quando poteva, notizie di sé fino al 1940. Ma, dopo l’invasione tedesca della Francia, non ne avevamo saputo più nulla.
Le ricerche fatte, una volta terminata la guerra, avevano dato risultati controversi: era finito in un lager tedesco e lì scomparso per sempre? Pareva di sì, ma un suo amico e compagno di esilio aveva giurato, nel 1947, di averlo visto, qualche mese prima - ahimè, a braccetto di una bella bionda - sul Lungosenna, intento a sfogliare i libri di un bouquiniste. Ma, proseguiva l’amico, avuto sentore di essere stato riconosciuto, mio padre si sarebbe allontanato a gran velocità, trascinando con sé la biondona. In effetti, avrebbe potuto essere un abbaglio, quello del suo amico, se a questo fuggevole riconoscimento non si fosse aggiunta una circostanza inquietante: nel 1950 era pervenuto a un fratello di mio padre, da parte del Ministero degli Esteri, un documento d’identità dello scomparso, emesso in Italia nel 1936 e trovato per terra in un autobus da un signore di Lione che, gentilmente, lo aveva quindi consegnato al Consolato d’Italia di quella città. Che ci faceva mio padre a Lione nel 1950? Oppure quel documento gli era stato sottratto chissà quando e chissà da chi, ed era stato poi perduto dal suo abusivo possessore?
Come che fosse, dal 1937 Madeleine Beaufort sposata Greco non aveva più rivisto suo marito e, dal 1940, non ne aveva avuto più notizie.
Avendo io scelto di studiare storia dell’arte, mia madre decise, nel 1953, di lasciare Napoli per Firenze, dove aveva trovato un impiego all’Istituto Francese, in Piazza Ognissanti. All’inizio le facevano fare la segretaria, ma poi le avevano affidato qualche lezione di conversazione. Lei aveva, allora, 44 anni ed io 19. Ma le nostre peregrinazioni non erano ancora finite. Da Firenze, vent’anni dopo, ci trasferimmo a Pisa, dove avevo vinto una cattedra di Storia dell’arte moderna alla facoltà di Lettere. Abitavamo in una vecchia casa dai soffitti alti e affrescati, nella quale erano stati conservati ben tre caminetti originali.
- Parigi, Pisa...Speriamo di non continuare con la “P” in calando, sennò finiamo, prima, a Pontedera e, poi, a Ponsacco, località gradevolissima per chi ci è nato, ma non per chi proviene da Parigi, Napoli, Firenze.
Così dicevo alla mia mamma, che aveva ormai varcato da un bel po’ la sessantina. Ma a lei non importava nulla di essere a Pisa anziché a Parigi:
- Oh, ascolta, mon amour, io non ho avuto niente di bélo a Parigi e non ho nostalgia...Il più bélo della vita l’ho avuto a Napoli...per quei pochi anni...
- Cinque scarsi.
- Quando tuo padre era ancora con noi.
- Chissà dove sarà adesso.
- Oh, povereto, sono sicura che è stato preso dai Alemàni.
- Tedeschi, mammà, tedeschi.
- Sì, dai tedeschi...E poi sarà stato internato in un laghèr come tanti altri malorosi.
- Sventurati, mammà.
- Sì, sventurati...Povero Gerardo...Era così bélo e affascinante.
- Ma che aveva di straordinario papà?
- Ah, come dirò? Quella allure speciale di certi gentiluomini meridionali...Cortesia, - galanteria, una voce incantevole e un parlare, come dirò?, così ben modulato.
- Insomma, un vero seduttore di fanciulle ingenue, mammà.
- Mais non, mon amour! Ton père n’était pas un coureur de jupons...Non era...come si dice in italiano?
- Un donnaiolo.
- Un donnaiolo...No, lui non era così...Lui aveva charme, ecco tutto...E piaceva alle donne.
- Ho capito, mammà: non era un donnaiolo, ma uno sciupafémmene.
- Che vuol dire?
- Tombeur de femmes.
- Mais, non! Quante volte te lo devo ripetere? Lui è stato un marito straordinario...e fedele...J’en suis sure: il ne m’a jamais trompée, non mi ha mai tradita.
- Povero papà: chissà che fatica resistere per cinque anni alle tentazioni...Poi non ce l’ha fatta più ed è scappato a Parigi, fingendo di essere un perseguitato politico.

Io mi divertivo a stuzzicare la mamma.

- Ma che dici? Come ti viene in mente? Tu eri piccolo, non puoi ricordare niente di quel tempo là, ma io c’ero e ho visto le minacce... e poi la visita di un maresciallo della polizia, amico di famiglia, che lo ha messo sull’avviso...Se non fuggiva in Francia, finiva in prigione, povero Gerardo.
- Forse era meglio: dalla prigione forse sarebbe uscito, prima o poi.
Tu hai ragione, il destino fa brutti scherzi tante volte...E non si sa mai se la soluzione che oggi ci sembra la migliore sarà tale anche domani...C’est la vie, mon petit, c’est la vie.

La nostra vita trascorreva a Pisa in un tran-tran che avrebbe addormentato un cocainomane. Io, ogni tanto, più spesso che potevo, saltavo sul “Palatino” e andavo dritto a Parigi, con una scusa o un’altra, evitando con cura, quando ero là, i parenti materni, i quali, peraltro, ci ricambiavano con la stessa distanza.

- Mammà, ma non vuoi proprio venire con me, almeno una volta, per rivedere la tua città? E’ sempre più bella, sai?
- Non ho difficoltà a crederlo...ma io non ho alcuna voglia di ritornarci...Non c’è più nessuno per me...Anche Martine se n’è andata in cielo...E, d’altronde, anche prima era come se non ci fosse. No, io preferisco restare qui, a Pisa...Ma tu vai, sono contenta che tu ami la mia città...Io l’ho perduta per sempre quando sono morti, lo stesso anno, papà e mamà...A dire il vero, avevo trovato una seconda famiglia e una seconda città...ma poi ho perduto tutto di nuovo.
E una piccola lacrima le affiorava sul ciglio delle palpebre.


Nel maggio del 1980 - io avevo già 46 anni - mammà ricevette dal Consolato di Francia di Firenze l’invito a presentarsi per “importanti comunicazioni”:

- Ma che avranno di talmente importante da comunicarmi? Non si sono mai accorti della mia esistenza durante cinquant’anni...e adesso mi vogliono fare importanti comunicazioni.

Un funzionario del Consolato ci ricevette con espressione compunta nella sua bella stanza affacciata sul Lungarno Vespucci, si accertò delle generalità di mia madre, controllò le mie e poi, in francese, le disse di avere un doloroso compito: comunicarle l’ avvenuto decesso, alcuni mesi prima, di suo marito, il cittadino francese Gérard Grecó. Il Grecó, sapendo di essere prossimo alla morte, aveva consegnato al Consolato Generale d’Italia a Parigi un pacchetto, con la preghiera di rintracciare sua moglie – o, in mancanza della medesima, suo figlio - e di farglielo pervenire. Ma, avendo il Consolato italiano appurato che l’avvocato Gerardo Greco era diventato, ormai da anni, Monsieur Gérard Grecó, aveva consegnato il tutto alle autorità francesi perché provvedessero loro ad esaudire la richiesta del morituro: dopo tutto, si trattava di una questione fra cittadini francesi.
E mentre mia madre, col capo chino, piangeva in silenzio, il funzionario, dopo aver balbettato un rosario di frasi consolatorie convenzionali, mi porse il pacchetto, chiedendomi di firmargli una ricevuta, già preparata. Quando la mamma si fu calmata, chiese anche a lei di firmare.
Non parlammo per tutto il viaggio di ritorno e, arrivati a casa, la mamma si mise, come al solito a preparare il pranzo, restando però sempre in silenzio, mentre io apparecchiavo la tavola, in cucina. Il pacchetto misterioso era stato depositato momentaneamente sulla mensola del caminetto del soggiorno.
Dopo il pranzo, la mamma mi disse che era stanca e che sentiva il bisogno di andare a riposare; e si ritirò nella sua stanza. Ne uscì tre giorni dopo, in una cassa di abete chiaro.


Ero solo al mondo, in compagnia di un pacchetto che era tutto quel che mi restava di mio padre. Le settimane passavano. Ogni tanto gli davo un’occhiata e mi dicevo: domani lo apro.
A fine ottobre venne una strizzata di freddo, che mi portò ad accendere due dei tre caminetti della casa - solo quello della camera della mamma rimase spento. Poi mi accoccolai nella poltrona vicino al fuoco e mi misi a leggere qualche poesia della Dickinson, tenendo, sullo sfondo, Chopin suonato da Horowitz. La cara Emily aveva sempre la capacità di rapirmi nel suo mondo; e, mentre leggevo i suoi versi, vedevo una esangue fanciulla biancovestita chiusa in una stanza d’alabastro.
Mi alzai e, quasi senza rendermene conto, presi il pacchetto e lo gettai tra le fiamme, guardandolo contorcersi e consumarsi nel fuoco.


Su Giangaetano Bartolomei
Giangaetano Bartolomei è nato a Napoli, poco prima che l’Italia entrasse nella guerra mondiale (la seconda). E’ scappato da Napoli, scalzo e lacero, mentre piovevano le bombe degli Inglesi. Si è rifugiato a Verona, dove presto cominciarono a cadere bombe anglo-americane. Finite le bombe, finita la guerra, è rimasto nel Veneto (Verona e Venezia) fino al 1967. Poi la sorte lo ha riportato a Napoli, dove ha anche iniziato la carriera accademica, insegnando all’Orientale. E’ venuto poi il suo trasferimento a Firenze (dove vive tuttora) e trentacinque anni di insegnamento nell’Università di Pisa. Nel 2004 è riuscito finalmente ad andarsene in pensione e a dedicarsi soltanto alla scrittura. Chissà se è stata una buona idea. Ha prenotato, da anni, un posto nel Cinerarium del principale cimitero di Firenze, perché di là si gode una magnifica vista sulla vallata. Starà in buona e gioviale compagnia.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Katàba! Ragionamento in giallo, di Giangaetano Bartolomei (Fuori Collana, 2006)