Squarci | sabato 18 novembre 2006
Paola D'Agostino
Amami se vuoi
L’anno più eccitante della mia vita fu di sicuro il 1956. Facevo il quinto ginnasio e per miracolo, puro miracolo, mi elessero Reginetta del Natale.
Vivevo in un paesino di provincia in riva al mare, dove gli unici eventi degni di memoria erano il fischio del treno e il ruscello nel presepe che sembrava vero.
Finché non cominciarono i preparativi per la festa, e allora la musica cambiò.
Mi esercitavo al gran ballo ascoltando alla radio Little Richard che cantava Tutti Frutti, mentre mia madre seduta alla sua Singer mi preparava il vestito di pizzo san gallo che ho ancora nell’armadio. Conservato come un abito da sposa.
Nella palestra della scuola avevano montato un palco quadrato recintato da festoni di carta e alberi a fisarmonica, dove un gruppo di orchestranti del posto suonava Amami se vuoi della Torrielli, Aprite le finestre di Franca Raimondi e Heartbreak Hotel di Elvis “The King”.
Mio padre diceva che la Torrielli meritava il nostro rispetto perché aveva lavorato per anni ad una catena di montaggio a confezionare caramelle prima di poter salire sulla ribalta di Sanremo. Mentre le cantanti rivali erano ragazzine viziate, forse più belle ma di sicuro meno intelligenti. Così diceva, con tanta foga che finì per convincerci.
Fu il mio primo scontro ideologico: tutte le altre ascoltavano Nilla Pizzi, la regina, mentre io e mia sorella Emma continuavamo a tifare per Tonina la proletaria senza neppure sapere bene cosa fosse veramente un operaio.
Altro che Spandau Ballet e Duran Duran! Come cambiano i tempi...
Più tardi, poi, ho immaginato la Torrielli che riceve la notizia della vittoria al concorso “Voci Nuove” ed esce dalla fabbrica in braccio al suo manager bellissimo, imitando ante litteram la scena di Ufficiale e Gentiluomo in cui Richard Gere va a prender(si) in filiera la sua bella, riscattandola agli occhi delle colleghe e del capitale.
Ora alla mia età sono fuori dal gioco, ma a 15 anni vedevo nella Tonina un modello di libertà che sognavo di sperimentare al più presto:
“Mi piace tanto accarezzarti,
Sugli occhi timidi baciarti,
Ma non mi sento di giurarti,
Se tu mi chiedi, eterno amor...”
Wow! Un’onesta intellettuale incredibile per quei tempi. Era come dire ad un ragazzo: Guarda, non sei niente male, ma cerca di non affezionarti!
“Amami se vuoi,
tienimi se puoi,
io sono l’amor che ferisce
ma dei baci miei
non fidarti mai”
Amami se vuoi era in sostanza il prologo ideale per il testo di Heartbreak Hotel. Perché Elvis si sentisse così solo - “so lonely I could die” - c’era voluta una Torrielli anche forse bruttina a dirgli “io sono l’amor che svanisce” prima di dileguarsi nel nulla. Zac! Crudele e altamente rivoluzionario. Soprattutto per noi, che non avevamo la chat e gli sms. E se volevamo mollare un ragazzo non potevamo limitarci a cambiare numero di cellulare.
Tutto questo per dire che quando, sull’attacco della mia canzone preferita, Damiano Altieri, il ragazzo più bello della scuola, capoclasse della terza liceo, mi chiese di ballare, io mi sentii come se il pavimento sotto di me cominciasse ad illuminarsi di flash intermittenti.
Ero cicciottella e poco elegante, (“hai una grazia da scaricatrice di porto” – mi diceva Emma ogni volta che poteva), ma tutto il mese di dicembre avevo praticamente digiunato per stare comoda dentro il vestitino col corpetto superaderente che mia madre aveva copiato da un cartamodello di Burda.
- Isabella, la bambina ha solo quindici anni. Questo vestito mi pare eccessivo! – tuonava mio padre mentre arredava il suo presepe.
- Amore, lasciami fare. Se avessi avuto una robetta così quando ti ho conosciuto, non avrei dovuto correrti dietro per tanti anni.
- Che c’entrano i vestiti? Io mi sono innamorato di te, non della tua scamiciata rossa.
- Mio caro Luciano, i tempi sono altri. Anche la Torrielli a Sanremo cambiava d’abito ogni due minuti, no?
- Che c’entra? Quello è il mondo dello spettacolo...
- Eh! E questo è il mondo delle Reginette!
Quando mia madre credeva di aver dato una risposta a tono a suo marito, le si contorcevano le labbra in una smorfia di ironia e trionfo che vorrei tanto aver ereditato. Io li ascoltavo dalla porta di camera mia, e non mettevo bocca, come se la cosa non mi riguardasse. Aspettavo soltanto di vedere l’opera compiuta. E saltavo i pasti.
Mentre tutta la famiglia era seduta a cena, io in camera mia mi allenavo a camminare con i libri sulla testa senza farli cadere. Quando cominciai a riuscirci, passai alla fase successiva: ballare The Great Pretender con il manico della scopa e tenere il mattone dell’Odissea saldo sui miei ricci ingarbugliati.
Cosicché il lento con Damiano andò bene. Gli calpestai i piedi solo due volte all’inizio per mancanza di pratica, ma poi presi il passo e lo accompagnai in mirabili giravolte.
Dal fondo della sala Emma mi guardava sorpresa ed orgogliosa. Aveva passato il pomeriggio a stirarmi i capelli con spazzola e fon, in un’operazione dolorosissima che sembrava non terminare mai. E quindi il risultato finale, decisamente ben riuscito, era anche merito suo.
Io ormai ballavo in automatico, nuovo ritmo su nuova coreografia, e nemmeno mi guardavo più intorno. Poi ad un certo punto la musica si interruppe e dal palco annunciarono l’inizio della premiazione.
- “La Reginetta del Natale 1956 è...
(sospensione di tempo spazio e respiro)
...la signorina ANTONIA PIRANI!”
- IOOOOOOOOOOO! – Urlai correndo verso il palco (dimentica di giorni e giorni di prove di eleganza e passi misurati).
Di quei cinque minuti incredibili ricordo solo che mi misero sui capelli liscissimi una corona che mi scivolava sulla fronte di continuo.
E poi Damiano, che mi baciò sulla guancia (scandalo!) e mi chiese:
- Ti vuoi fidanzare con me?
Era un iter denominato: “Fare la dichiarazione”.
Io accettai.
Il Natale ai tempi della scuola erano soprattutto le vacanze di Natale. E quell’anno passai vacanze bellissime.
Di pomeriggio andavo a passeggiare sul lungomare con la mia amica Giulia e lì ci incontravamo con la comitiva di Damiano, i ragazzi della terza liceo. Che per noi del ginnasio erano adultissimi, bellissimi e impossibili. Avevano già la patente (ma noi in macchina con loro non potevamo salire per non sembrare “poco serie”) e tornavano a casa molto più tardi di noi. Io avevo la “ritirata prima che fa notte”, imposta dal rigore allarmista di mio padre, e in quel periodo faceva buio alle 5. Le altre potevano stare in giro fino alle 7 (notte fonda nell’inverno della provincia), ma io in compenso quel Natale avevo un fidanzato. Damiano.
La sera che ci demmo il primo bacio eravamo seduti su una panchina dei giardinetti con il mare alle spalle. Rimanemmo a parlare di cose inutili in preliminari mascherati da conoscenza, finché non venne quel momento canonico in cui ci si guarda a lungo senza più parlare, e ci si avvicina lentamente facendo arrivare sempre prima le labbra.
Mentre stavamo per sfiorarci, un botto mi fece trasalire: i suoi compagni, appostati dietro l’aiuola più alta, avevano aspettato il gran momento per sparare i raudi di Capodanno in anticipo.
Di conseguenza, saltammo direttamente al secondo bacio, con un certo impaccio.
Un presagio.
Tutta la nostra vita insieme è stata così: quando arrivavamo ad un punto cruciale della relazione, un imprevisto qualunque ci tratteneva cosicché ci ritrovavamo, molto più tardi, a fare le cose con la sensazione di stare ri-facendole, sapendo che la poesia si era già tutta consumata nell’attesa.
Quando mi iscrissi alla Facoltà di Lettere Classiche di Milano, Damiano viveva già a Roma da tre anni e studiava Legge, per poi diventare notaio.
Il giorno prima di trasferirmi nella gran città, lo chiamai per dirgli che avevo deciso di lasciarlo. Per sentirmi libera di seguire il mio futuro senza compromessi. Perché non sapevo che cosa ci sarebbe successo con gli anni, e non volevo sentirmi legata. Ma potevamo rimanere amici.
Lui mi disse che della mia amicizia non sapeva davvero che farsene, e io la presi come un’offesa gravissima alla mia persona.
Smettemmo di parlare, poi di salutarci, poi di incrociare lo sguardo per strada, poi di pensare l’uno all’altra.
Nel corso degli anni, si tornava a casa per le vacanze di Natale tra un esame e l’altro in facoltà, ed erano le poche volte in cui ci rivedevamo da lontano.
Da lontano l’ho visto portare in paese una ragazza, poi sposarsi, avere figli. E poi tornare da solo dopo il divorzio.
Io nel frattempo collezionavo amori fasulli che mi permettevano di scappare via appena le cose si facevano un po’ più serie. Sempre per non sentirmi legata.
Per il mio quarantesimo compleanno decisi di fare una festa in paese, con gli amici di sempre e quelli nuovi che mi portai da Milano. Un modo per tornare a casa anche idealmente.
Emma arrivò con suo marito il giorno prima per aiutarmi nei preparativi. E mi chiese se poteva invitare Damiano.
Quando incontri una persona che non vedi e non senti da molti anni, ma con cui hai avuto un certo legame affettivo, provi una sensazione stranissima di spiazzamento: da un lato, senti di dover mantenere istintivamente una distanza inevitabile, come se non ci fosse in fin dei conti niente da dire o da pensare; dall’altra avverti l’obbligo di rispettare quella precedente intimità che sopravviene e si impadronisce della situazione facendosi scudo dei ricordi.
Così mi successe quando rividi Damiano.
Io lo trattavo come se fosse una persona che avevo appena conosciuto: dove vivi? che fai? già dei figli così grandi?
Lui mi rispondeva aprendo le frasi sempre con lo stesso prologo: dopo che mi hai lasciato...
Quando arrivò il momento della torta e delle candeline (oddio, erano così tante!), Damiano mi si avvicinò e mi disse: “Il primo giorno di scuola, in quarto ginnasio, arrivasti con un maglione di filo turchese e una gonna a pieghe che ti stava benissimo. Ma oggi sei ancora più bella.”
Scioccante. Rividi mia madre che mi stirava di buonora la gonna, e me che mi guardavo allo specchio prima di uscire ad affrontare la scuola dei grandi.
Erano passati quasi trenta anni e lui si ricordava ancora.
Nessuna distanza era più possibile dopo quell’attimo di tenerezza mista ad autocompiacimento che mi si era scatenata dentro. Un uomo che mi aveva osservata così a lungo senza dimenticarmi. L’ego in questi casi ha le sue buone ragioni per impazzire. E comincia ad invadere ogni angolo di lucidità, tirando in ballo i segnali.
“Abbandoniamoci al destino,
soltanto lui non sa ingannar
e se rimango a te vicino
non lusingarti, ma non disperar
no...”
Decidemmo di ricominciare da zero imitando l’entusiasmo dei freschi sposi, che ognuno dei due aveva già conosciuto in altre convivenze fallite.
Dopo il matrimonio mi trasferii da lui a Roma, io, sì, perché in fondo ero stanca della mia vita di insegnante precaria in giro per l’Italia.
Lui lavorava, io correggevo bozze per la casa editrice di un suo amico.
Tanti anni di coerenza estrema in nome del femminismo, di occasioni buttate via per non cedere al potere di seduzione maschile, di storie chiuse a metà per far finta di essere sempre l’inattaccabile.
E poi a un certo punto si cede, di fronte all’altrui adorazione. Si comincia a pensare alla vecchiaia, alla solitudine, all’aridità.
E ci si ritrova a raccogliere calzini sporchi in giro per la casa, a litigare sul grado di acidità dell’olio di oliva, o sui parenti da invitare al cenone di Natale.
- Damiano, non insistere. L’anno scorso mi sono annoiata a morte con tua madre che ripeteva sempre le stesse cose e nemmeno mi lasciava parlare. Quest’anno voglio invitare Emma e papà, sennò vado io da loro e tu fai quello che ti pare.
Il Natale...
Ho ceduto su molte cose, ma non mi pento di niente. Del resto anche la Torrielli si riconciliò con Nilla Pizzi per cantare a due voci L’edera, passando dall’eroico egoismo di Amami se Vuoi ad un immaginario maschilista di donna rampicante attaccata al muro maestro dell’uomo.
Finché non si mise a vendere dischi nel negozio di suo marito. A Torino. Qui sotto casa nostra. Cioè di Andrea, l’uomo che ho sposato l’anno scorso, dopo Damiano. Che a Natale quest’anno mi porta a Capo Verde.
“...e quando fra le braccia
mi stringi dolcemente
ancor più dolcemente ti dirò:
Amami se vuoi,
tienimi se puoi,
perché io son così.”