Squarci | domenica 17 settembre 2006

Giangaetano Bartolomei

Elena e Menelao, coppia felice e senza amore

Ricordo un professore di latino che, commentando non so più quale carme di Orazio, ci proponeva il nesso, non solo etimologico, tra desiderium e de-siderare. Non posso nominare il desiderio senza ricondurlo a quel tramontare di astri da cui nasce. Mi pare che il desiderio sia un sentimento disperato della sera: insorge dopo il tramonto del sole, è una rivolta contro l'angoscioso presentimento che il sole non ritornerà piú a splendere, che quel sole è tramontato per sempre.
Sembra che l'uomo abbia impiegato molte energie (e, certo, anche prima di Epicuro) per cancellare, per negare, per sconfiggere il desiderio; per divaricarlo il più possibile dalla sua radice (che è il rimpianto), per risolverlo nel bisogno, nella voglia, nell'appetito. Ci dicono i saggi che è, questa, una strada per sfuggire all'infelicità.
Se accenno al desiderio, al suo nascere dopo il tramonto, al suo essere res in plancto e nostou-alghia, è perché, senza desiderio (cioè senza rimpianto e nostalgia), non vedo quello che, sinteticamente, siamo soliti chiamare amore: sebbene debba convenire che, nell'amore, l'amante è tale soltanto se non sa che la sua bocca e il suo cuore dicono rimpianto e nostalgia, ma, ingannandosi con mente folle, sente di poter raggiungere per la prima volta (nel suo protendersi innanzi, verso l'amata) ciò che, invece, ha, un tempo, avuto e ormai perduto per sempre. Se l'amante sapesse davvero, col cuore, di essere mosso da una implacabile nostalgia, non sarebbe più amante, ma uomo del lutto.
L'amore, dunque, vive di un inganno e può morire o per un altro inganno, di un altro amore, o perché la verità scioglie il suo canto in un sommesso requiem.
È il requiem più cruciale e terribile della vita di ogni uomo, e talora conduce a morte chi lo recita sino all'ultima strofa. Talaltra trasforma il selvaggio disperato nell'uomo civile, rassegnato. Ai mortali convien pensare cose mortali, se non vogliono morire prima del termine della loro vita. I1 desiderio, per sua natura illimitato, implacabile e trascendente ogni oggetto cui si rivolge, conduce alla rovina chi gli si abbandona, accecato dal miraggio di un impossibile ritorno.
Ci sono due ritorni: il ritorno possibile (quello di Odisseo al regno della civiltà umana, dopo essersi lasciato trasportare lontano dal desiderio; o quello di Elena alla sua casa, al suo sposo, alla sua figlioletta) e il ritorno impossibile, cioè il ritorno che viene tentato abbandonandosi al desiderio. Mi pare che la vita di ognuno sia un continuo intrecciarsi di questi ritorni. So bene che esistono altre, differenti possibilità di pensare il desiderio (proiezione di parti idealizzate del Sé, scissione dell'oggetto ecc.), ma non desidero servirmene.

Dicevo che l'amore si manifesta come negazione della sua propria natura di desiderio, come miraggio di possesso, come sfida disperata alla minaccia del lutto. Non mi sfugge che l'istinto, il bisogno, lo stimolo-risposta sono tutte cose vere e, se dio vuole, ci affratellano agli animali; esse hanno uno spazio e un ruolo nell'amore e ci danno la porzione di piacere che l'amore ci dà; ma l'uomo - lo sappiamo - è centauro: dalla cintola in su sta nella storia e nella cultura, cioè nel luogo in cui il desiderio (come rimpianto e nostalgia non riconosciuti) si costituisce, nel luogo in cui incombe sempre il pericolo di essere ammutoliti dal lutto.

Ho sempre pensato che chi cerca nel mito, trova sé stesso, parti di sé. Non è poco. I1 mito è un paniere generoso (come certe dolcissime cortigiane delle fiabe): prende con generosità e restituisce con prodigalità: se lo si adopera come un paniere, se non si cerca di farne un oggetto, una cosa, piena, compatta, già piena prima che la pensiamo e l'interroghiamo. Perché questa è la morte del mito, la sua sterilità. Sappiamo bene che non esiste la verità del mito, cosí come non esiste la sua versione autentica e genuina. C'era bisogno che il padre dell'antropologia strutturale ci ricordasse che un mito è l'insieme delle sue versioni e che già il parlare di un mito è darne un'ennesima versione? Ogni interpretazione di un mito è una sua nuova versione, un altro strato che s'aggiunge. Perché il mito, al pari della realtà, è come una cipolla: non ha nocciolo. Con buona pace di chi s'ostina a ricercare il «nucleo originario» del mito o a separare le versioni «autentiche» da quelle «spurie», «tarde». Come se il mito fosse un testo, scritto molti millenni addietro, e poi travagliato, alterato, sfigurato, dalle omissioni, dalle interpolazioni, dalle aggiunte «arbitrarie», dall'imperizia o dalla presunzione di noi, cattivi amanuensi.

Eccomi dunque a proporre alcune riflessioni sul mito di Elena che non intendono né svelarne un'immaginaria «verità» (che non sta da nessuna parte) né apprestarne una rielaborazione coerente. Riflessioni incoerenti, dunque, anche contradittorie (e magari conflittuali: il conflitto è in chi le fa, come potrebbe non essere presente nelle sue riflessioni?). Se si preferisce, ma è un po' stucchevole, le chiamerò libere associazioni.
Il paniere mitico che mi piace scegliere è l'Odissea; in particolare, il IV libro, dove si narra della visita fatta a Menelao da Telemaco in compagnia di Pisistrato. Il quadretto è quasi commovente. La figlia di Zeus e di Leda è ritornata a casa, pentita (sembra), e un focolare distrutto è stato ricostituito, con generale soddisfazione.
Il male è stato vinto; l'istituzione «civile» della famiglia ha trionfato sugli smarrimenti della passione illegittima, insensata, rovinosa. C'è tutta la materia per un romanzo educativo, destinato alle signorine di buona famiglia della media borghesia (di una volta). Ma, per fortuna, Omero non è Delly.
Nel rileggere il IV libro dell'Odissea sento, per la prima volta, un vago disagio, come dinanzi a un discorso inautentico. Disagio nel visitare, insieme a Telemaco e a Pisistrato, questo ricostituito focolare regale, dove regnano rispetto e concordia, come se nulla fosse accaduto, come se invano il fiore della gioventù argiva e troiana fosse stato reciso, come se soltanto un capriccioso fuoco d'artificio, voluto da Fato, avesse «gettato a terra le sacre torri di Ilion» nelle fiamme di un incendio che da millenni illumina la memoria delle genti elleniche e non solo elleniche. La sproporzione appare letteralmente incredibile.
Stridente, sgomentante contrasto col focolare (anch' esso regale) dell'altro Atride; focolare, questo, dilavato dal sangue. Due fratelli, due mogli adultere (non che i mariti... ma questo era concesso), due finali opposti.
Di Agamennone, Clitemnestra, Egisto ed Oreste sono noti a tutti i casi, né la loro lettura, per ambigua e difficile che possa risultare, mi appare inquietante ed enigmatica come quella della coppia apparentemente riconciliata senza tragedia, senza delitto. Dico Menelao ed Elena.
Userò dunque la versione omerica del mito di Elena come stimolo per pensare le connessioni e le sconnessioni tra desiderio, amore e civiltà; tra il desiderio che conduce a morte (Agamennone e Clitemnestra) e la morte del desiderio, o il suo rinnegarsi, che conduce alla parvenza dell'amore «civile» e della vita (Menelao ed Elena). È, questo, un brandello della pedagogia omerica?
Dirò súbito che, nonostante la profusione di epiteti che vorrebbero indicare il contrario, Menelao ed Elena riconciliati mi appaiono, a una prima lettura, singolarmente squallidi, come coppia. Qualcosa che rasenta, od oltrepassa persino, l'ipocrisia su cui si fonda il matrimonio borghese «modello XIX secolo». Ma non dobbiamo dimenticare mai che Agamennone e Menelao sono più che fratelli, sono una «coppia»; e una «coppia» sono anche Clitemnestra ed Elena. Forse uno psicologo di passaggio pronuncerebbe súbito, perentoriamente, la parola magica «scissione» (se più colto, o piú civettuolo, «splitting»). In realtà, debbo confessare di non vederci per niente chiaro nei miei pensieri su questo mito; sicché, come ho già preannunciato, dovrò affidarmi a congetture e formulazioni differenti, divergenti, incompatibili. Esiste un'altra strada, compatibile con la mente umana? Per esempio, mi domando se, davvero, le due coppie (che, poi, sono quattro) si pongano in alternativa, come modi opposti per fronteggiare il conflitto tra desiderio e realtà: «agirlo» sino al punto di rottura, sino al destino del crimine e della morte, oppure smorzarlo, appena possibile, con un'operazione saggia e ipocrita insieme, con la quale il desiderio, sovvertitore dell'ordine civile e «agìto» catastroficamente (ma per altri, non per Elena e Menelao), viene negato.
Non fu, Elena, traviata da Afrodite, che la rese irresponsabile? L'Elena che fuggì con Paride era, dunque, un'altra Elena, giocata da una forza che l'oltrepassava (dice lei). Ma bisogna anticipare súbito che questo ipocrita stratagemma «riconciliatorio» è creduto solo a metà da chi lo mette in atto: Elena parla di un suo pentimento, si fustiga rivolgendo contro sé stessa l'epiteto di «cagna» o «faccia di cagna»; Menelao dà, incidentalmente, una versione dei fatti che contrasta con quella data da Elena: non sarà, questa serie di lapsus, mirata a farci capire che, dietro la facciata della riconciliazione e della verità ufficiale, il conflitto rimane ed entrambi i partners conoscono la verità? Mi domando se le due coppie non indichino due livelli del conflitto, se, dietro la realtà «civile» di Menelao-Elena, non ci sia il fantasma selvaggio di Agamennone-Clitemnestra; se siamo «civili». Se teniamo alle ricompense offerteci dalla civiltà, facciamo come Menelao-Elena, ma sappiamo di essere nello stesso tempo premuti ad agire come Agamennone-Clitemnestra.
Menelao-Elena si raccontano, ci raccontano una fiaba: Elena è stata riaccolta in casa perché riconosciuta incolpevole: alla forza di Afrodite nessuno può resistere. Proviamo a rovesciare la lettura: siccome Elena è ritornata a casa (ha rinunciato ad «agire» ulteriormente il desiderio sovvertitore), le viene riconosciuta l'incolpevolezza, e viene premiata con la pace e la serenità delle mura domestiche. Ma, come abbiamo accennato, è perfin troppo evidente che cosa si nasconda dietro questa facciata. Non farà parte della «pedagogia» omerica anche il lasciar intendere che si tratta di una facciata, ma contestualmente affermare che tale facciata è necessaria all'ordine della vita civile? Come dire: non sono qui a trattarvi da stupidi, a ingannarvi, raccontandovi la storiella della riconciliazione fondata sull'incolpevolezza; lo so anch'io - e ve lo faccio intendere - che le cose, in realtà, stanno diversamente; ma vi voglio dire, soprattutto, che, se non fingiamo che stiano cosí, non è possibile costruire un mondo civile, fertile, ordinato, produttivo. Qualche millennio dopo Omero, chiunque potrebbe riscrivere la storia sostituendo alla potenza di Afrodite la potenza irresistibile delle pulsioni e facendo di Elena lo zimbello dell'Es. Ma noi sappiamo che Elena è astuta, è seduttrice, è causa di contesa e di rovina, è sterile dopo l'avventura con Paride, possiede il segreto di farmaci che tolgono ogni pena, che rendono insensibili a qualunque dolore e li somministra segretamente a coloro che piangono per i mali che ella stessa ha causati (È quanto fa allorché, nel ricordare i dolori e i lutti della guerra di Troia, Menelao e Telemaco e Pisistrato sono sopraffatti dalle lacrime ed Elena versa nelle loro coppe il farmaco che toglie il dolore: più che una manifestazione di compassione o di tardiva riparazione, mi sembra, questa, una compiaciuta manifestazione di potenza che, tra l'altro, mette Elena al riparo dal rancore o dall'ira che potrebbe rivolgersi contro di lei come causa di ogni sciagura).

A questo punto vorrei aprire una lunga parentesi, prima di analizzare più a fondo i rapporti reali e fantasmatici della coppia Menelao-Elena.
Se osserviamo in parallelo le disavventure familiari in cui incappano i due Atridi, possiamo dire che, in entrambi i casi, v'è una conciliazione finale: nemmeno la tragedia di Agamennone rimane inconciliata, sebbene tocchi ad Oreste essere protagonista e strumento della conciliazione. In altre parole, il mito ci offre la possibilità di «pensare» anche questa tragedia, di parlarne, di chiuderla dentro un discorso che le dà un senso, una direzione verso un compimento di riconciliazione (il riscatto finale di Oreste). Si tratta forse di esorcizzare il terrore di dover rimanere muti, senza parole, senza pensiero dinanzi al male, al dolore? Vorrei tentare un'azzardata affermazione generale: per l'Orestiade, cosí come per la trilogia edipica, è «pensabile» una conclusione in forma di conciliazione. È offerta cioè la possibilità di sottomettere al pensiero il destino cieco, crudele, insensato: di renderlo in qualche modo intelligibile. La civiltà, la cultura non può accogliere nel proprio seno il puro sbigottimento muto dinanzi all'evento. Del resto, i Greci che andavano a teatro per assistere all'Edipo re non ignoravano il séguito della storia: l'Edipo a Colono, per intenderci; e se non si può certamente parlare di tragedia a lieto fine, si può forse parlare di una inflessibile razionalizzazione dell'irrazionale. Diciamo, dunque, per chiudere questa parentesi, che, sia la vicenda Agamennone-Clitemnestra sia la vicenda Menelao-Elena, nonostante il loro decorso sostanzialmente antitetico, si concludono con una conciliazione, con la possibilità di pronunciare su di esse una parola che non sia solo disperato lamento, ma espressione di pensiero. Ponte gettato oltre l'abisso della malinconia muta. Alla fine trionfa il pensiero, la parola, la cultura, la civiltà, come contrario della disperazione. Come dire: qualunque strada si prenda, non si sfocia nel nulla, non si esce dall'ordine umano, dall'ordine del simbolico.

Ma una strada comporta, rispetto a un'altra, un risparmio di dolore, se non un aumento di piacere. Nella tragedia di Agamennone tutti «agiscono», sino alle estreme conseguenze: a cominciare dal grande Atride che sacrifica la figlia Ifigenia per propiziarsi la partenza per Troia; Elena, invece, si «limita» ad abbandonare la figlioletta Ermione per fuggire con Paride. Elena, che è seduttrice (sebbene si dica sedotta), è, come ogni seduttrice, fondamentalmente «abbandonante»: abbandona Menelao, Ermione, Paride (prende e lascia; rinnega anche se stessa). Elena non sa amare, sa soltanto «sedurre». Ma la seduttrice che decida di abbandonare il suo «gioco», può diventare una perfetta imitazione di un'ottima sposa e madre. È quanto fa Elena, dopo aver abbandonato i Troiani sconfitti. Clitemnestra, che non «gioca», che è davvero travolta dalla potenza di Afrodite, non può, a suo talento, abbandonare sé stessa, abbandonare Egisto, ingannare Agamennone, mimare la sposa ravveduta. Come tutte le seduttrici, che «giocano», Elena non paga nulla di persona: esporta il suo conflitto, assiste compiaciuta al combattimento dei galli: Troiani e Greci che si uccidono per lei. Non c'è crimine dentro il triangolo Menelao, Elena, Paride: esso produce guerra «fuori». Per colmo d'ironia, Elena appare migliore di Clitemnestra. Elena, come negazione dell'amore, come trionfo della manipolazione seduttiva, è piú «compatibile» con la civiltà di quanto non lo sia Clitemnestra, che ama sino alla morte e a prezzo della morte, dell'assassinio.

Ecco l'opposizione tra il gioco erotico, che produce morte solo negli altri, in quelli che non lo prendono come un gioco, e l'amore-passione che fa giocare ai protagonisti la loro stessa vita, innanzitutto.

Lo schema di lettura si è dunque complicato: Elena, che sembrava impersonare la rinuncia al desiderio, e il premio che la «civiltà» offre per tale rinuncia, è diventata la seduttrice, che «gioca», e che, proprio perché «gioca» e non ama nessuno, è sempre pronta a tradire, a tradire persino sé stessa, negando e rinnegando le proprie azioni, o proclamandosi vittima di forze oscure e irresistibili. Tenterò di seguire entrambe le possibilità di lettura. Comincerò (anzi, continuerò) da quella di Elena seduttrice (che «gioca» e che non sa amare), richiamando un particolare del racconto omerico: dopo la sua fuga con Paride, Elena è diventata sterile; e questo serve a giustificare il fatto che Menelao abbia avuto il suo secondo figlio (maschio), non da Elena ritornata, bensí da una schiava. Leggiamo dai due lati, di lui e di lei, questa circostanza. La seduttività puó dare potere, ma essendo «gioco» (cioè il contrario del «lavoro») non è creativa, non è generativa. Indubbiamente, Elena si mostra donna di grande «potere» (seduzione di Paride, riconquista seduttiva di Menelao, possesso di farmaci che tolgono ogni pena), ma, quando sceglie la seduttività, rinuncia alla generatività. L'Elena che ritorna non è piú l'Elena che fu sposa, giacché ritorna seduttivamente, cosí come seduttivamente era fuggita: seduce Menelao a riprenderla. Farà la parte della sposa e madre esemplare, padrona di casa attenta, dolce e ospitale; filerà la lana: come segno del suo potere, rimarrà dispensatrice di farmaci che «seducono», che fanno dimenticare.
Menelao, da parte sua, non può «fare coppia» con Elena. Farà coppia soltanto per «il pubblico», ma il suo legame erotico con Elena si è spezzato. I1 suo eros si è spostato sulla schiava. Perché? Forse perché nel ventre di Elena teme di incontrare il pene di Paride? E di doverlo distruggere (distruggendo Elena che lo ospita) oppure prenderlo dentro di sé, diventando servo della coppia Elena-Paride ?
D' altro canto, proprio il fatto che nella coppia Menelao-Elena non accada nulla di trasformativo (o di distruttivo), ma vi sia soltanto un evento «linguistico» (una interpretazione pacificatoria dei fatti), mi fa pensare che Elena continuerà ad abbandonare Menelao, a «interpretare» e poi a riprenderlo, secondo una specie di coazione a ripetere (ma, nel caso di Elena, dietro e dentro tale ripetizione non v'è alcuna angoscia da tentare di controllare). La «sterilità» di Elena può essere vista anche in questa luce. Vorrei aggiungere alcuni altri tratti che mi paiono caratterizzare la figura di Elena: di lei vengono ricordate la bellezza e l'origine, per metà, divina. In quanto semidea non può amare e soffrire, può soltanto «giocare». È vero, Omero dice (sempre nel IV libro dell'Odissea) che, allorquando Menelao ricorda la sventura di Odisseo, reso «senza ritorno» da un dio, tutti piangono, persino Elena: «piangeva Elena argiva, figlia di Zeus». Ma, per intendere il valore di queste lacrime (rappresentazione senza contenuto di dolore), bisogna leggere, una quarantina di versi più innanzi, l'episodio del farmaco, capace di dare l'oblio di tutte le pene, gettato, di nascosto, da Elena nel vino.
Mi pare importante rilevare che:
1) Elena non beve quel farmaco (se fosse stata addolorata, l'avrebbe bevuto anche lei); 2) lo versa di nascosto (la segretezza dell'azione ci testimonia, tra le altre cose, il «far parte per sé stessa» di Elena);
3) quel farmaco calma l'ira e il dolore: quale ira se non quella diretta verso Elena, come causa di tutti i lutti che vengono angosciosamente evocati?
Dunque, Elena piange, ma non soffre, e il suo uso del farmaco è sostanzialmente un atto di potere e di difesa dall'ira. Mi si obietterà che Elena è, per metà, umana. Direi che, per questa metà, è un po' il prototipo della donna che può rappresentare seduttivamente e teatralmente qualunque parte. Se mi occupassi di mitologia greca, cosa che non sto facendo e non so fare, mi piacerebbe chiedermi perché, stando a Kerényi, Elena (figlia di Zeus e bellissima) risulti regolarmente sedotta e rapita (da Teseo, da Paride ecc.): balocco passivo in mano a uomini prepotenti e abbandonanti. La cosa mi suona, di primo acchito, alquanto strana. Ma torniamo ad Elena «moglie» di Menelao.
Vorrei concludere questo frammentario e contradittorio «profilo di personalità» suggerendo un'ultima considerazione intorno al rapporto amore-morte in Elena. A differenza del suo opposto-complementare (Clitemnestra), Elena espelle da sé tanto l'amore (non ama, ma «gioca») quanto la morte (non uccide direttamente né viene uccisa: fa morire gli altri). Ma, senza la coppia amore-morte, non v'è generatività, non v'è creatività umana in senso pieno (perció distinguerei nettamente l'Elena madre di Ermione, dall'Elena che ritorna a casa dopo la seduzione di Paride). Ci si può chiedere, a questo punto, perché Menelao se la cavi tanto bene in tutta la vicenda (a differenza di suo fratello) e perché Menelao accetti la parte dello sposo di un'Elena pseudo-redenta e perché, tuttavia, si faccia generare un secondo figlio da una schiava.
È vero che il personaggio di Menelao è singolarmente povero sia rispetto ad Agamennone, sia rispetto ad Elena, ma anche questa «povertà» chiede di essere compresa.
Mi sembra che «Megapente forte, che molto amato gli nacque di schiava» sia il vero e unico figlio di Menelao, giacché «Ermione, che la bellezza aveva dell'aurea Afrodite», è soprattutto un ‘duplicato’ di Elena, la quale, a rigore, non ha mai avuto rapporto con alcuno, non ha procreato con Menelao, ma si è soltanto sdoppiata. Insomma, la coppia Menelao-Elena, come comunità erotica, come alleanza per la vita, come sfida alla morte, semplicemente non esiste; esiste, magari, un contratto fondato su reciproci vantaggi. Debbo confessare che il personaggio di Menelao continua a resistere al mio tentativo di decifrarlo: troppo limpido, troppo semplice, troppo unidimensionale per svelare un segreto. Mi aiuterà il verso 569?
Menelao mi sembra lontano dal tipo d'uomo che subisce la fascinazione di una Circe, che si degrada per lei, che è prigioniero di una vergognosa catena che non sa spezzare. Sembra, piuttosto, molto dipendente dalla sua condizione di re bello, forte, saggio che conviene abbia accanto una regina splendente. Dicevo del verso 569. Proteo, il dio marino che narra a Menelao la sorte subíta dagli altri eroi durante il ritorno da Troia, gli predice un destino eccezionalmente felice; gli predice, in breve, l'immortalità, dono dei numi: «perché tu hai Elena in moglie e sei per loro il genero di Zeus».
L'amore non ha mai dato l'immortalità ad alcuno; ed anzi, molti ha condotto a morte prematura; parlo, si capisce, dell'amore-passione, dell'amore totalizzante.
Dunque gli epiteti che Elena rivolge a Menelao («non inferiore a nessuno né per senno né per bellezza») e quelli che gli rivolge Pisistrato («Atride, saggio sopra tutti i mortali era solito dirti il vecchio Nestore») non paiono puramente esornativi, convenzionali. La saggezza di Menelao (che è l'opposto della folle protervia di Agamennone) sembra legata all'assenza, in lui, di passioni come l'invidia, la gelosia, l'arroganza, la possessività, o anche, se si vuole, all'assenza del desiderio. Ciò che gli dá l'immortalità non è l'amore suo per Elena e di Elena per lui, ma il suo essere genero di Zeus, attraverso il matrimonio con Elena. L'immortalità, dunque, viene dalla saggezza, non dall'amore; dalla rinuncia all'amore di coppia in favore di una benevola disposizione verso la realtà. Menelao rinuncia all'amore in favore dell'immortalità (questa è la sua saggezza); Menelao è l'uomo che non brama alcun possesso, nemmeno il possesso di Elena, e che, non desiderando, ha tutto. Meno l'amore.
Per questo, mitica da un lato e «antica» dall'altro, la coppia Menelao-Elena mi sembra rappresentare compiutamente una delle forme più radicali, e discrete insieme, di morte dell'amore. Veramente, più che di morte, si potrebbe parlare di aggiramento dell'amore: dura barriera contro la quale si spezzano e si frantumano tante vite. Menelao ed Elena sono, in questo, davvero «divini», se l'amore è soprattutto esperienza del limite dell'umano, esperienza di un derisorio e straziante sottrarsi dell'oggetto senza nome (penso, per rimanere nel clima omerico, al vano abbraccio di Odisseo a sua madre, ormai ospite «delle case della tremenda Persefone»: «Madre mia, perché fuggi mentre voglio abbracciarti, che anche nell'Ade, buttandoci al collo le braccia, tutti e due ci saziamo di gelido pianto? o questo è un fantasma che la lucente Persefone manda perché io soffra e singhiozzi di piú? », XI, 210-214). Ferita che sempre di nuovo si riapre per la inespugnabile trascendenza dell'oggetto del desiderio.
Dico e ridico questo perché rifiuto la separazione di amore e desiderio (cosí come rifiuto la riduzione del desiderio al bisogno: il bisogno si appaga e poi rinasce, in una ripetizione senza fine; ma il desiderio è, per sua natura, inappagabile; e sempre inappagato rimane). La inappagabilità del desiderio può, paradossalmente, fondare la coppia, la solidarietà di due solitudini che stringono un patto di amicizia, che si danno l'una all'altra senza speranza.
Di qui nasce, mi pare, la possibilità che la coppia sorrida, che vi sia sorriso e riso tra due che vedono, con pietà e benevolenza, riflessa nell'altro la propria immagine di patetico Sisifo, di assurdo cercatore dell'impossibile. I baci e le carezze che gli amanti si scambiano sono anche consolazione che ciascuno dà all'altro, sapendosi inadeguato al desiderio di lui: io so di non poter colmare il tuo vuoto e non ti odio sol perché mi fai sentire la mia impossibilità di essere l'oggetto reale del tuo desiderio; accetta, dunque, come segno di solidarietà e di consolazione, i miei baci e le mie carezze.


Su Giangaetano Bartolomei
Giangaetano Bartolomei è nato a Napoli, poco prima che l’Italia entrasse nella guerra mondiale (la seconda). E’ scappato da Napoli, scalzo e lacero, mentre piovevano le bombe degli Inglesi. Si è rifugiato a Verona, dove presto cominciarono a cadere bombe anglo-americane. Finite le bombe, finita la guerra, è rimasto nel Veneto (Verona e Venezia) fino al 1967. Poi la sorte lo ha riportato a Napoli, dove ha anche iniziato la carriera accademica, insegnando all’Orientale. E’ venuto poi il suo trasferimento a Firenze (dove vive tuttora) e trentacinque anni di insegnamento nell’Università di Pisa. Nel 2004 è riuscito finalmente ad andarsene in pensione e a dedicarsi soltanto alla scrittura. Chissà se è stata una buona idea. Ha prenotato, da anni, un posto nel Cinerarium del principale cimitero di Firenze, perché di là si gode una magnifica vista sulla vallata. Starà in buona e gioviale compagnia.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Katàba! Ragionamento in giallo, di Giangaetano Bartolomei (Fuori Collana, 2006)