Da Kyoto | mercoledì 13 settembre 2006
Alessandro W. Mavilio
Storie di buon vicinato
Sono quasi tre anni che vivo a Kyoto. E da più di due in una zona chiamata Shokokuji Monzencho, a ridosso del tempio buddhista Shokokuji. Quest’ultimo è un grande complesso di padiglioni, grandi e piccoli, aperto anche la notte perché i suoi vialetti interni sono arterie di una certa importanza per la circolazione pedonale e ciclistica.
La mia attuale casa è il primo monolocale al piano terra (primo piano, secondo l’uso giapponese) di una nuova e graziosa palazzina dal nome improbabile di “Purple Cloud II”.
Gli usi catastali giapponesi sono così astrusi che ogni casa, anche la più meschina, viene battezzata con un nome, molto spesso – devo dire – troppo altisonante. La mia “nuvola viola 2” suona come il nome di un panfilo per ricchi, ma è una normale palazzina, anche se di un certo gusto, pulita e moderna. Altre case hanno nomi come “Maison de la Paix” oppure “Villa Sofia” ma sono spesso baracche appena promovibili a casa, o casermoni che della “villa” non hanno proprio nulla. Interessante però il mondo parallelo e di fantasia che si innalza sulla conversazione, quando si parla di case in Giappone. Essendo questo un uso comune, potrei dire che esistano vere case e fantasmi per ogni loro nome. Inutile dire che nella ricerca di una nuova casa – da acquistare o affittare – il nome, come tutte le sue componenti di significato, ha una buona parte nella costruzione di un sistema di sensazioni.
Shokokuji è comunque una zona per bene, tranquilla, con case tutte basse e più che dignitose. Io sono l’unico straniero della zona. Di tanto in tanto riconosco qualcun’altro “che viene da fuori” (gaikokujin) al grande supermercato “Howdy-Clara” vicino casa. Ma il supermercato è zona franca. Nelle stradine attorno casa mia, dicevo, sono l’unico straniero.
Nei primi tempi venivo spiato, guardato di sott’occhio o proprio ignorato, nel senso più pesante del termine. Essere - in qualche modo - controllato lateralmente e insieme ignorato è il peggior benvenuto che si possa ricevere. È questo uno dei momenti in cui ho avvertito forte la differenza razziale, più che quella culturale. Di giovani se ne vedono pochi, da queste mie parti. Saltano agli occhi solo bambini piccolissimi e anziani. E in determinati orari i liceali che vanno o tornano in sciatte uniformi dal complesso di scuole superiori “Seian”, proprio dietro casa mia.
Essendo circondato da anziani, la differenza, dicevo, è notevole. Mentre i giovani delle nuove generazioni si presentano alti e ritti, i settantenni e ottantenni hanno ancora una struttura corporea gracile, spesso ai limiti del deforme. Camminano curvi e ciò contribuisce a che il loro viso non si alzi da terra quando incrociano me che torno dal lavoro o dal centro – o che si abbassi ulteriormente per salutare con un inchino un loro conoscente. (Ora ricordo che qualche volta che ero fuori casa mia, intento a riparare la bicicletta o a fare qualche pulizia, qualcuno è passato e mi ha salutato a gran voce. Si trattava di persona non del vicinato, di passaggio per caso, e deve avermi immaginato residente qui da tempo immemore.)
A destra, in fondo alla strada, vive una coppia di anziani, proprio accanto a una bettola inclassificabile, aperta giorno e notte. In due anni non hanno mai risposto al mio saluto. Lei confabula con la gestrice dell’emporio all’angolo e lui, sempre silenzioso, cura un’aiola di fortuna in un terreno non edificato e malamente recintato.
Anche la signora dell’emporio, una donna grigia e dal viso di talpa, non ha mai risposto al mio saluto. Ma un giorno ho capito che lei era la “direttrice delle voci della via”, una sorta di giornale quotidiano vivente delle piccolezze che possono accadere e interessare il vicinato. Quando si sente confabulare, lei è la comune denominatrice di ogni gruppetto. Allora ho deciso di annunciarmi al mio vicinato in un modo un po’ subdolo.
Era chiaro che tutti sapevano che uno straniero si era aggiunto ai residenti della zona, ma il problema è che nessuno aveva modo di sapere chi fossi io, e soprattutto - cosa davvero importante per i Giapponesi – che cosa facessi per vivere. I Giapponesi, in quanto isolani, hanno la tendenza a mascherare di paura la morbosa curiosità per il diverso. Nessuno di essi, individualmente, riesce a sciogliere la trama di dubbi e timori che c’è attorno a un alieno; e dunque nessuno, in virtù di un sentimento collettivo di buon vicinato (che vive “facendo quadro”), poteva sentirsi autorizzato ad aprire un varco a questo straniero che tentava di salutare tutti. Io ho pensato che la prima autorità del vicolo fosse la signora del piccolo (e diciamolo, squallido) emporio all’angolo. La “signora Talpa” mi è sembrata un’ambasciatrice eccezionale, ma tuttavia era sempre riuscita a vendermi un gelato o un pessimo “onigiri” (non molto buono) senza permettermi di aprire una vera conversazione. (La velocità e la propensione alle procedure dei negozianti giapponesi è proverbiale. Anche un giapponese non riuscirebbe a rivolgere la parola a un cassiere che svolge il suo lavoro!)
Un altro tentativo era già fallito. Una mattina le avevo chiesto se potevo fare alcune riprese della strada posizionando la gru poco distante dal suo negozio. Mi aspettavo che mi dicesse no, o che mi chiedesse – finalmente – chi ero e cosa facevo. Senza nemmeno guadarmi, anzi, ancora più impaurita da una domanda tanto fuori dal comune, ha risposto qualcosa biascicando in maniera evasiva.
Allora ecco l’idea! Ho approfittato di un censimento ufficiale, giuntomi in busta per posta - ma recante un biglietto che diceva di consegnarlo al responsabile di isolato: proprio lei! Sono andato a trovarla al negozio, senza nemmeno comprare nulla, per farmi aiutare nella compilazione di alcuni moduli. Stavolta lei era investita di una carica ufficiale, lei doveva raccogliere tutte le buste della zona, ma io sono riuscito a incastrarla con la scusa di alcune parti poco chiare per me. Dapprima ha cercato di essere evasiva come al solito, poi all’improvviso si è come tranquillizzata, si è seduta su uno sgabellino dietro la cassa e ha aperto la busta. E insieme abbiamo compilato i moduli .
- Ah, è italiano!
- -Sì...
- Ah, non è sposato!
- Eh, no...
- Ah, è professore alla Università Sangyo!
- Eh, sì!
- Ah, vive in un monolocale!
- Sì...
E via discorrendo. Tutte le informazioni che nemmeno un conoscente di anni avrebbe mai potuto conoscere sono giunte alle orecchie della ambasciatrice ufficiale del vicolo.
Da quel giorno, sebbene in poco, qualcosa è cambiato! La coppia di anziani all’angolo a destra ancora non mi saluta. Ma ho l’impressione che vivano in una dimensione tutta loro e che non abbiano tanti rapporti col resto del vicolo. Ma una giovane donna con un bambino, che oggi non abita più a Shokokuji ma che all’epoca abitava in un “mastrillo” proprio di fronte il mio portoncino, all’improvviso ha preso a salutarmi! E addirittura a mandarmi il suo bambino – che da poco aveva cominciato a camminare e parlare - verso casa mia, per giocare e fare la mia conoscenza. Un bambino, un turbine.
È poi comparsa la studentessa mia vicina di appartamento! Un bellissimo viso bruno e meridionale che mi invita in casa a mangiare un hamburger con lei e con una sua collega d’università. Sarei andato con piacere ma al momento dell’invito ero atteso a cena da altre persone.
Il falegname, la cui segheria è proprio a sinistra, attaccata al mio palazzo, continua a non salutarmi, sebbene i primi tempi gli abbia chiesto anche di farmi dei lavori - che ha cortesemente rifiutato... Anche la sua anziana e curvissima madre, che gli pulisce la segheria e cura un davanzale di fiori microscopico, non mi ha mai salutato.
Poco più su, nel vicolo, c’è un complesso di distributori automatici di birra. Fa capo a un uomo rozzo, sempre in canottiera unta, con lo sguardo sognante e perennemente brillo. In quanto negoziante (sebbene gestore di macchinette) anche l’ho sempre salutato con una certa attenzione ma, complice quel suo sguardo perso e imprendibile, mi ha fatto sempre sentire trasparente. Dopo più di due anni, di saluti quotidiani da parte mia, una sera d’estate rientravo a casa particolarmente nervoso e scendevo per il vicolo buio: l’ho scorto da lontano acquattato a terra con un uomo più giovane, che beveva birra a un tavolino improvvisato con una cassetta di alcolici. La scena era illuminata dalla stessa luce – folgorante – delle sue macchinette e sembravano tutti e due molto allegri. Quella sera ero davvero offeso, con lui, proprio con lui, e decido di alzare il mento in segno di nobile noncuranza e tirare diritto ignorando la festicciola. Al mio passare, a tradimento, mi fa:
- Konbanwa! (Buonasera!)
Io resto... interdetto... Ma poi accenno un inchino abbassando solo di poco il mento e rispondo:.
- Buonasera a voi.
- Ma fa proprio caldo in questi giorni, eh?
Eh, sì! – Sorrido incredulo, come se fosse avvenuto un miracolo che mi vedeva protagonista. E non riuscendo ad arrestare la mia corsa ormai decisa mi trovo in men che non si dica presso l’ingresso di casa mia, ancora sorridente. Ma mi sarei unito con piacere a quel tavolino e con piacere mi sarei seduto sull’asfalto come loro.
Da quel giorno lui ha ripreso a non salutarmi ma il giovane che era con lui (credo sia il figlio) mi sorride sempre ma non riesce a pronunciare nulla. Credo sia il figlio perché ha lo stesso sguardo perso dell’uomo dalla canottiera unta.
Ma c’è un vecchietto, magro e tutto marrone (di capelli, di colorito, di vestiti), che da sempre mi confonde e commuove. Inchini profondi e profondi gesti, sorrisi ampi – sempre – e un bozzolo di parole che non gli riesce di pronunciare in mia presenza. Ma quest’uomo mi saluta per tutti.
Abita poche porte più in là della mia palazzina in una vecchia machiya (una casa di legno tipica di Kyoto), è spesso fuori alla sua porta, magro ma impettito: una volta faceva giocare un bambino piccolissimo (forse un nipotino), una mattina faceva esercizi di ginnastica (pareva si spezzasse a ogni movimento), un pomeriggio rinfrescava l’asfalto con spruzzi di acqua fresca, una notte che rientravo tardi era fuori, in piedi e ritto come suo solito, a fischiare vecchi motivi, “incurante dei serpenti”*. E ogni volta, ogni santa volta, alza di scatto un braccio, come meccanicamente, e mi saluta, mi sorride, poi inizia un inchino che porta sempre a profondo, immeritato compimento.
Una volta tornavo a casa in bicicletta e, come al solito, stavo per passare davanti alla casa/negozio dell’uomo dalla canottiera unta. Dal fondo della stradina sbuca un’automobile piccola piccola che per qualche motivo arresta la sua corsa e accosta esageratamente, sfiorando pericolosamente un palo dell’elettricità. Come se dovesse incrociare un grande camion e con esso dividere la carreggiata. Senza curarmi troppo di questa strana manovra mi avvicino a questa macchina per poi puntare verso casa. Dal finestrino del guidatore (in Giappone sulla destra) sbuca un braccio meccanico che mi saluta con abbondanza, mentre a stento si sente venir fuori dall’abitacolo un monosillabo. Dentro l’auto il vecchietto marrone mi sorride con uno sguardo malinconico. E gli occhi umidi di pianto.
Il giorno dopo, inforcata la bicicletta, come al solito esco di casa e vado verso sinistra, superando la segheria. Lui era lì, sulla strada, in piedi e impavido, con due braccia sollevate al cielo basso e grigio e lo sguardo tutto per me. Mi fermo e gli chiedo:
- Shigure? (Breve pioggerella autunnale?)
- Yuudachi! (Acquazzone serotino!)
* In Giappone si insegna ai bambini che non è bene fischiare di notte, perché il fischio è un richiamo per i serpenti. In realtà un motivetto fischiato di notte, nella calma e il silenzio dei vicoli giapponesi, è in grado di disturbare un intero isolato.