Da Kyoto | mercoledì 13 settembre 2006

Alessandro W. Mavilio

Onde quadre

Il lettore mi perdonerà se questa pagina avrà un andamento confuso e io andrò per le lunghe. Tutto nasce da un cortocircuito culturale che prometto di spiegare più avanti.



L’umanità basa le sue attività e le sue relazioni su dei valori. Questi valori possono cambiare di paese in paese, da cultura a cultura. L’occidentale che osserva le culture ha un bel da fare a segnare, ricordare, comparare, discutere delle cose che impara quando è in viaggio, quando si confronta con gli altri popoli. E questo è certamente segno di apertura mentale e di amore per il diverso.

Ma qui nel Recinto si pone spesso un altro tipo di problema. Un problema che ha segnato dagli inizi l’incontro dei Giapponesi con gli altri popoli, un problema che non sembra poter avere una soluzione facile e veloce.

Spesso i valori culturali tra Giapponesi e stranieri sono simili, molto spesso uguali, ancor più spesso sorprendentemente coincidenti! Questo genera una sensazione di rilassamento, una fraternizzazione sincera tra i due popoli, uno scambio di sorrisi compiaciuti e complici. Non potrebbe essere altrimenti quando due popoli così lontani si trovano al sicuro in un “fiordo di cultura”, a guardare la stessa Luna. E poi i Giapponesi sanno essere molto gradevoli nei loro momenti di socialità.

Ma ecco che vien fuori il selvaggio, il tagliatore di teste dell’arcipelago lontano, lo sventratore di commilitoni, la donna di costumi facilissimi, il mercante incallito e in odore di truffa. E tutti i valori che credevamo comuni, sui quali stavamo costruendo un’affinità (si sperava) duratura, si infrangono: cocci taglienti (di cultura) esplodono tutt’intorno a minare un campo fin lì dato per sicuro e accessibile. Il picco conquistato si sfalda in mille lamine di roccia nel momento in cui stavamo per piazzare una bandierina.

Se ne parla spesso qui tra stranieri, e tutti tendiamo a dire che “i Giapponesi sono schizofrenici”. L’ho pensato anche io qualche volta, ma la tesi non mi ha mai soddisfatto completamente.

Andando a tentoni, coi passi felpati, cercando sempre di non offendere, di non sminuire, di non contaminare la cultura giapponese, l’occidentale si fa un quadro certo di cosa è buono e cosa è male in questa società e nei rapporti coi Giapponesi. Si fanno errori che il Giappone cortesemente corregge senza mai arrivare a generare una crisi. Il Giappone si fonda su una società dai sistemi fluidi e permissivi, e allo straniero viene concesso un enorme margine di errore, un margine spropositato. Lo straniero sensibile, commosso da tanta benevolenza, continua a creare nel suo cuore una mappa affidabile dei territori sicuri, arrivando a ricordare, tracciare profili di costa (culturali) precisissimi. Lo scopo è imparare a vivere in questo sistema facendo meno danni possibili. Ma se davvero fossero mappe, quelle che si disegnano, sarebbe come se all’improvviso da un laghetto, visitato ieri, fuoriuscisse magma incandescente, come se un salice secolare scorto su una rupe ci rovinasse addosso traditore.

Perché non serve mappare il territorio? Perché i Giapponesi sono capaci di tanti imprevedibili cambiamenti, finanche nelle cose più piccole, insignificanti?

Ma cos’è che accade precisamente? si chiederà chi legge …

Accade che qui nulla è davvero fisso e per sempre. Ciò che i Giapponesi dicono, affermano o implorano, molto spesso non corrisponde a verità. Per chi era impegnato a segnare su una mappa i lidi sicuri dell’esplorazione il continuo cambiare del modo con cui i Giapponesi vedono e mostrano il loro mondo (una mitraglia di continui micro-sconvolgimenti, che giungono da tutti i fronti – società, lavoro, privato) risulta insostenibile. Si pensa allora che siano tutti bugiardi, anche in quelle piccole cose che non meriterebbero una bugia. Si pensa che siano tutti corrotti da una ferrea e falsa morale di superficie e che invece siano tutti animati da una umanità bassa, bassissima, voluttuosa, a volte semplicemente peccaminosa tanto appare auto-appagatrice. Si pensa che siano tutti “schizofrenici”, incapaci di discernere cosa è immagine e cosa è sostanza, e dunque cosa è bene e cosa è male. Ma non credo che sia nemmeno così... Qui sanno bene cosa è il bene e cosa è il male.

Ciò che sciocca l’occidentale non è la troppa moralità o la bassa moralità. Figuriamoci. Ciò che sciocca l’occidentale è il cambiamento repentino, imprevedibile, di sguardo, di ottica, di applicazione di una regola che noi credevamo... regola. Noi, sulle mappe, segniamo valori assoluti, sempre attendibili, tramandabili. I Giapponesi hanno costruito il loro mondo su valori semplicemente... relativi.

Ciò che si impara con fatica nel Recinto è la distinzione tra pubblico e privato. Ma “pubblico e privato” non corrispondono a quelli che sperimentiamo in Occidente. Per noi si tratta di due concetti decisi e scolpiti nella società. Per i Giapponesi si tratta di due sensazioni che possono balenare nel cuore o nella mente, e che non serve fissare perché sono in grado di rivoltarsi come soltanto lo Yin e lo Yang sanno fare nel cerchio del Tao.

Compresa questa cosa ho smesso di disegnare mappe, e ho smesso di giudicare con un metro che non serve. (Nella misurazione non si nasconde sempre l’errore?) Ma recentemente è capitato qualcosa che mi ha costretto a interrogarmi – senza però andare troppo a fondo – sulla lingua giapponese, il vero strumento in uso a questo popolo per interagire, per nascere, sposarsi, trovare lavoro e morire.


La lingua del Recinto, per chi avesse la malsana idea di sezionarla, è un rompicapo e un miracolo insieme. Il giapponese è una delle lingue più imprecise che ci sia al mondo. Viene chi sa da dove, ha preso forma e suoni chissà come, per secoli soltanto orale è riuscito nel miracolo di adottare gli ideogrammi della lingua cinese. Nel suo isolamento di secoli ha assorbito come una spugna i numeri arabi, le lettere dell’alfabeto romano (per le quali non si può parlare ancora di una vera assimilazione), i caratteri dell’alfabeto greco (utilizzati per lo più per disegnare faccine al cellulare!) e finanche parole e intere espressioni del “mondo di fuori”. (I Giapponesi cercano sempre di convincere noi occidentali che il termine “arigatou” - grazie - venga dal portoghese obrigado col quale, certo, chiunque può trovare una somiglianza).

Qui non parlo solo della eterna dicotomia Occidente-Oriente. Il Giappone è il Recinto.

La prima divisione in categorie che salta agli occhi è: tuttociòcheèdentro-tuttociòcheèfuori. Gli occhi a mandorla sono una beffa immeritata dell’evoluzione delle razze; la posizione geografica in Estremo Oriente è dovuta a una pura casualità della tettonica terrestre; da come agiscono oggi, sembra che le due bombe atomiche siano state un imbarazzante episodio di fuoco amico...

Il Giappone è come un arcipelago-veliero dai bordi altissimi che - pur senza veramente muoversi - è andato alla deriva, per millenni, per i mari informi e mossi delle civiltà, attraversando incolume correnti e gorghi, evitando secche e scogli a pelo d’acqua. Un veliero dal quale si saliva e scendeva con enormi difficoltà, ma dove tutto ciò che riusciva a salire a bordo infettava subito la ciurma come una febbre e veniva consumato avidamente, come acqua. La lingua giapponese riflette ancora oggi questa condizione unica al mondo e durata a lungo.

È una lingua polisillabica con molti omofoni (termini dalla pronuncia uguale o – a secondo dei dialetti - molto simile). Forse, a pensarci oggi, solo il sistema di scrittura cinese (ideografico, ma strutturato per una lingua monosillabica) poteva venire in aiuto di questo popolo e sbrogliare le matasse intricate dei loro discorsi. Ma gli ideogrammi (bellissimi, eleganti e brillanti) non sono un metodo semplicissimo, soprattutto per soddisfare l’urgente esigenza di scrittura di un intero popolo. Nonostante ciò i Giapponesi, abituati a cibarsi di ciò che culturalmente le onde portavano a riva (o sottobordo), hanno saputo fare anche questo miracolo.

Qualche giorno fa, in una normale conversazione, mi sono trovato improvvisamente di fronte a un problema di omofonia. Due parole dalla stessa pronuncia. Ma ero al cospetto del tipico esempio di omofonia che molti libri di grammatica presentano come curiosità a chi intende studiare questa lingua.

“Shiritsu” vuol dire “privato”. “Shiritsu” vuol dire “pubblico”. Si parlava di scuole.

Se ci si imbatte in queste parole scritte su un testo, la differenza di ideografia consente di capire quale scuola sia privata e quale sia pubblica. Ma in una conversazione, dove gli occhi non leggono gli ideogrammi, è pressoché impossibile cogliere la differenza.

Mi è capitato proprio questo. Io non avevo capito se la scuola era privata o pubblica, ed era una differenza cruciale nel discorso. Tuttavia il mio interlocutore non mi ha dato spazio per fermarlo e chiedergli di chiarire la cosa...

Sebbene parli ora di una diversa concezione di “pubblico e privato”, ho riportato alla mente le esperienze di cui ho scritto più sopra. E ho pensato con un risolino che il concetto di “pubblico e privato” deve essere stato il peccato originale dei Giapponesi. Ed è tuttora la loro maledizione.

Da noi tutto è nato da una mela. In Giappone, in origine, qualcuno deve essere entrato per sbaglio nel retro dell’Eden.

Pensando ai due termini omofoni “shiritsu” (pubblico e privato) ho ricordato altri omofoni eccellenti.

“Ame” vuol dire sia “pioggia” che “caramelle”. “Ame ga furu” deve voler dire – letteralmente – “scende la pioggia” o “cadono caramelle”, a seconda se chi pensa è un uomo che apre un ombrello o un bimbo goloso e credulone.

Ma qui viene il bello. Spesso il contesto viene in aiuto a chiarire il vero significato di questi omofoni, per cui è ovvio che nel 99% dei casi è la pioggia che scende e che invece, solo a una festa per bambini, dal soffitto possono piovere davvero caramelle.

Ma nel caso delle due scuole “shiritsu”, l’unico modo per capire al volo se si tratta di scuola pubblica o privata è vedere, leggere gli ideogrammi. O costringere l’interlocutore a un interminabile giro descrittivo di parole, per il quale non c’è mai tempo. (Qualcuno pronuncia lo "shiritsu" pubblico "ichiritsu" [proprio per distinguere i due termini] ma anche questo è un atteggiamento mobile, qualcosa che a volte capita e a volte no...)

Gli ideogrammi in giapponese si chiamano “kanji” (letteralmente: caratteri cinesi). Quindi il kanji è il disambiguatore ufficiale delle migliaia di omofoni della lingua giapponese. Il kanji, con alcune accortezze, è il nostro equivalente di “carta canta”, la scoperta di secoli fa che ha messo a posto tante cose in Giappone.

Ma per sfortuna siamo di fronte a un altro omofono che ha dell’incredibile... “Kanji”, l’antico carattere cinese, paladino della precisione, nemico delle ambiguità, destriero dei concetti, vettore di precisione, vuol dire anche... “sensazione personale, inesplicabile impressione, ‘a me pare così poi non so’...”

“Uchi no kanji”. LA CASA. (Concetto scritto, vergato, impresso su carta, in essenza inconfutabile di “casa”.)
O anche: “sensazione di casa...” (Ma il parlante potrebbe stare anche in una stalla.)


Compreso questo fenomeno di omofoni che uniscono due termini dal significato spesso opposto, si sorride, e si perdona ai Giapponesi il loro cortese indugiare in un mondo ondulato, nel quale ogni individuo ha la sua imprevedibile marea.


Su Alessandro W. Mavilio
Orientalista, scrittore, cineasta. Laureato in Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, Alessandro Mavilio ha insegnato per più di un decennio all’Università Industriale di Kyoto. Nell’àmbito del progetto “Taoist Movies” è autore anche di numerosi cortometraggi sperimentali girati in Giappone.

Sulla rubrica Da Kyoto
Di tanto in tanto un contributo da Kyoto, l'antica capitale del Giappone. Perché questo è un mondo immenso e le grandi distanze, le culture diverse, mettono alla prova le capacità del pensiero. Il pensiero e le visioni del mondo non sono mai scontati. Se si cambia orizzonte geografico, e l'angolo d'osservazione per guardare il mondo e per riflettere su di esso, ci si accorge subito che i punti di vista - gli stili del pensiero - sono innumerevoli... Questi scritti sono stati raccolti in circa dieci anni e si sono condensati e completati nel libro "Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone".

Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone, di Alessandro W. Mavilio (Gli Ibischi, 2015)