Da Kyoto | giovedì 17 agosto 2006
Alessandro W. Mavilio
Identità e libertà
Parlavo con una giovane donna giapponese e il discorso è caduto sull’aspetto delle persone. “Gli orientali appaiono giovani, gli occidentali sembrano più maturi”, si sa… Da qui il discorso è fluito sulle fotografie e in particolar modo sulle fotografie dei documenti.
- Sono una disgrazia - ho banalmente esordito.
- Non più di tanto, ha risposto lei…
- Ah, no? E guarda questa mia fototessera sulla carta d’identità. (E ho estratto la mia carta di identità di residente straniero).
- A cosa ti serve questa carta?
- Personalmente a niente, ma devo portarla sempre con me. È la legge!
- Hai ragione: sembri più vecchio in questa foto!
- E tieni conto che è una foto del Duemila!
Un attimo di pausa e anche io le ho chiesto di mostrarmi la sua carta di identità. Per ridere magari, insieme, della foto.
- Io non ce l’ho…
- Dovresti portarla anche tu nel portafoglio!
- Io non ce l’ho proprio!
- Come? Non hai il documento di identità?
- No… Ho la tessera della biblioteca ma non porta la fotografia…
- Ma quella non vale! E la patente di guida?
- Non l’ho mai presa…
- A casa hai il passaporto?
- No, non sono mai uscita dal Giappone. A cosa mi servirebbe?
D’improvviso, forse stupidamente, un’ombra mi è calata addosso. Chi è la persona di fronte a me? Mi sono chiesto… E ancora, per provocare, le ho chiesto:
- E se ti ferma la polizia per un controllo?
- La polizia non ferma le persone come me! - e accenna un risolino di scherno.
- Va bene, ma mettiamo che hai un problema per strada e le autorità hanno bisogno di controllare la tua identità.
Al mio pronunciare la parola “identità” lei ha come un attimo di smarrimento, e con lentezza risponde:
- Se mi chiedono “chi sono”, rispondo con il mio cognome e nome.
- D’accordo! Ma come dimostri legalmente la tua identità?
- Io… Rispondo col mio cognome e nome.
Mi sono accorto di aver condotto questa donna in un’ansa della sua vita, della sua stessa società, che non ha mai esplorato. E incuriosito dal problema dell’identità le ho chiesto ancora:
- Siamo d’accordo che non sarai mai fermata dalla polizia. Ma ci saranno persone, non so, ubriachi, molestatori, ladri, che vengono fermati dalla polizia. Come si dichiarano?
- Credo che se non dichiarano qualcosa vadano subito in prigione… E poi la polizia, prima del nome, chiede l’indirizzo. Ci sarà qualcuno a casa, no?
- E se si forniscono nome e indirizzo falsi?
- La polizia se ne accorge e resti in prigione finché non dici la verità! – E ride.
- Quindi chi viene fermato tende a dire la verità?
- Certo. Ma nessuno viene fermato. – insiste.
Dunque questa conversazione ha spalancato una porta su un universo incredibile. Sono in un Paese certo sovrappopolato, dove il problema dell’identità legale pare non essere affrontato dalle autorità, a eccezione dei residenti stranieri. Tutto si svolge in un regime di autocertificazione, c’è la libera circolazione degli individui, e la mancanza di un documento di identità fa in modo che virtualmente chiunque possa essere chiunque. Il passaporto è un’istituzione creata ad hoc per i Paesi esteri, ma si scopre che l’identità dei sudditi giapponesi in Giappone … non è importante. È certamente più utile per le autorità fare in modo che tutti i “signor chiunque” facciano ciò che devono fare, più che preoccuparsi del delicato, sottilissimo problema della loro identità. Lo capisco. D’improvviso capisco. Anzi, mi sembra lampante.
E d’improvviso capisco la polizia di questo Paese che – a ragione - mi è sempre sembrata inerte. La polizia giapponese è molto presente ma le sue azioni sono esclusivamente di ordine pubblico. Essa gestisce la folla nelle grandi manifestazioni, i gruppi, finanche i singoli che richiedano il suo aiuto, ma sempre, se possibile, in un regime di anonimato. Non certo per rispetto della privacy, problema che qui non si pone, visti i presupposti. Alla polizia non interessa per nulla l’identità delle persone, e preferisce applicarsi nel quotidiano alla educazione della massa. Se il signor Yamada attraversa col rosso, una volante nascosta nel buio si limiterà ad azionare il megafono e dire che attraversare col rosso è pericoloso. E si potrà vedere il signor Yamada sgusciare via nel buio con una sagoma annichilita. Se una coppietta felice sfreccia in due su una bicicletta (lei in piedi sul mozzo della ruota di dietro), la stessa volante le intimerà di scendere. Ma non si sognerà di intervenire. Perché la ragazzina scenderà davvero.
Perché accade ciò? Certamente perché i Giapponesi godono della più grande libertà, di una libertà sconosciuta ai popoli di altri Paesi: la libertà sull’identità.
Tra la libertà – desiderabilissima - di non esistere per la società, di muoversi in essa come fantasmi liberi, e il non intervento delle forze dell’ordine c’è comunque un vuoto. È quella zona oscura in cui avviene il miracolo della società obbediente seppur non perseguibile. Qui non ci vuole nulla a dileguarsi nel buio, a sfuggire a una cattura: tante volte ho simulato questa cosa. Ma il sistema porta comunque tutti all’obbedienza, stranieri compresi. Perché è un sistema studiato ad arte, non certo casuale.
Addirittura: fare un illecito sotto gli occhi della polizia non porta all’arresto! E c’è ancora dell’altro, ancora più incredibile! La polizia si muove solo su chiamata di qualcuno, su denuncia o segnalazione di terzi. Tutto ciò che non ha ancora portato danno non autorizza a svelare la coltre di anonimato che regna nel Recinto. Forse perché proprio quest’ultima è il sostegno della società.