Da Kyoto | mercoledì 9 agosto 2006

Alessandro W. Mavilio

Shinkansen, il treno proiettile

“Shinkansen” è un termine che designa la linea ferroviaria giapponese ad alta velocità. Tale linea attraversa tutto il Giappone ed è percorsa dai cosiddetti “treni proiettile”.

In tanti anni, per vari motivi, non mi era mai capitato di dover fare un viaggio a bordo di uno Shinkansen. Recentemente, per raggiungere un amico che abita a Tokyo, se ne è materializzata l’occasione e mi sono accorto di quanta aspettativa nutrissi nei confronti di questo treno mitico. Un treno mitico perché si tratta del primo treno al mondo che abbia realizzato la vera “alta velocità” commerciale. Mentre in Europa si progettavano locomotori e treni ad alta velocità, senza pensar troppo alle linee che avrebbero dovuti accoglierli, in Giappone il progetto Shinkansen partiva nel 1956 e nel 1964 era già disponibile alla clientela. Oggi è divenuto parte integrante dell’essere giapponesi, elevandosi a vero e proprio simbolo del Paese, vicino allo stesso mitico monte Fuji, col quale lo Shinkansen sembra condividere lo spazio nell’Olimpo dell’immaginario giapponese. (Una domanda che l’addetta alla biglietteria Shinkansen mi ha fatto è: “Desidera un posto finestrino con vista Fuji? Ce ne sono ancora di liberi.”)

Se le linee ferroviarie normali non mescolano i loro binari per garantire la puntualità dei movimenti, tanto più lo Shinkansen è distaccato dalle ferrovie normali. È distaccato fisicamente ma tale appare anche nei discorsi degli stessi Giapponesi. Questi non possono cogliere fino in fondo la perfezione maniacale delle loro ferrovie tradizionali perché sono convinti che anche negli altri Paesi le metropolitane e le suburbane siano altrettanto servizievoli. E allora applicano tutto il loro orgoglio tecnico-nazionalistico allo Shinkansen, il loro vero primato ferroviario. Un biglietto dello Shinkansen costa un po’ più di quello dell’aereo per la stessa tratta ed è lampante che per la cura del passeggero le Ferrovie Giapponesi si siano vagamente ispirate alla esperienza delle aerolinee. Nelle indaffaratissime stazioni, punti nevralgici della circolazione di Giapponesi, si aprono aree dedicate alla linea Shinkansen dove la atmosfera e i servizi al passeggero cambiano all’improvviso. Non migliori, non peggiori, solamente una diversa psicologia degli ambienti che comunichi senza errore la differenza di servizio. I Giapponesi passano grandissima parte del loro tempo a bordo di treni e dunque qualcuno ha pensato di investire progettazione e risorse sulla creazione e il mantenimento del mito dello Shinkansen.

Dunque lo Shinkansen è un treno diverso, lontano dagli altri. I suoi convogli – a composizione bloccata di sedici vetture – sono lunghi quasi 400 metri e tanto lo sono le banchine a esso dedicate. Tutta l’esperienza ferroviaria giapponese si ritrova ottimizzata al massimo e al servizio dello Shinkansen, che, a dispetto dello scartamento ridotto delle rotaie, è da quarant’anni il primo treno ad alta velocità del mondo. Oggi la velocità commerciale dello Shinkansen è di soli 300 km/h, ma di fatto il miracolo tecnologico di questo treno è la sua puntualità.

Per la stessa destinazione ne arrivano e partono decine ogni ora, anche con scarto di soli quattro o cinque minuti. Entrano silenziosi in stazione e trovano conforto nel lavoro dei capibanchina, esseri umani che si incaricano di smussare/agevolare l’incontro tra la clientela umana e questa macchina ormai quasi divina.

Il capobanchina inserisce la sua voce tra i vari annunci registrati e predefiniti e personalizza/ridefinisce l’azione affinché il treno – pulito, muto e servizievole – possa uscire dalla stazione silenzioso e sicuro come vi è entrato, col suo nuovo carico di passeggeri.

C’è un appunto curioso da fare. I messaggi rivolti alla clientela – che in Giappone raggiungono spesso livelli di cortesia linguistica spinta, eccessiva – non sembrano valere per lo Shinkansen. Qui il dio non è il cliente ma sembra essere proprio il treno.
Il cliente deve adeguarsi al volere e ai tempi del treno e mai intralciare le sue operazioni, contaminare il suo palco, rovinare il suo fluido spettacolo. Il capobanchina, con un microfono senza filo, indirizza ai viaggiatori maleducati o irrispettosi del dio vere e proprie invettive, senza riguardo alcuno e con un tono di voce alto e sprezzante che non si sente nemmeno nella più becera linea suburbana. Non è l’alta velocità la caratteristica di questo treno ma – come detto - la sua puntualità, il dominio che esso può avere sul tempo. Ed è singolare che il capobanchina si rivolga ad una certa signora o a un padre con bambino così come il regista nervoso dirige e martella i suoi attori. (Sembra di assistere al film “Effetto notte” di Truffaut.)

Bianco e blu, lucido come una antica ceramica cinese, bianco e rotondo come una bella donna dalla carnagione lunare, lo Shinkansen entra in stazione con una grazia che lo fa sembrare più padrone dei suoi padroni. Nei piccoli finestrini quadrati si scorgono visi annoiati e assonnati, persone che sembrano venire da altri mondi: chi avvolto in una nuvola di fumo di sigaretta, chi intento a leccare i bastoncini unti del suo pranzo. Il musetto può cambiare da modello a modello e, come per tutti i veicoli, è la cosa che ne caratterizza l’anno di costruzione, il gusto dei progettatori, la fase estetica che il Giappone ha attraversato in un dato momento storico. Non si può non seguire il muso di un veicolo per afferrarne il carattere. Di forma certamente aerodinamica: lo sguardo si poggia sulla fusoliera a partire dalla parte più bassa, scorre su come seguendone i filetti fluidi, oltrepassa i fari e incontra il parabrezza, vetro temperato di colore nero. Come Polifemo, l’elettrotreno dell’Italia fascista così chiamato per il suo unico e piccolo finestrino frontale, anche lo Shinkansen sembra volutamente incarnare i tratti razziali giapponesi. Il finestrino-occhio (sottile e imperscrutabile) è più ampio al centro e si allunga alle estremità proprio come un occhio a mandorla. Lucido come una cornea, non si può non guardarlo con attenzione, cercando di coglierne riflessi, balenii e interiora. È quello il fuoco di questo viso e, se si guarda bene, c’è vita dentro: l’unico macchinista, vestito di nero, immobile, ma di fatto vivo e vegeto, ne è la pupilla misteriosa e scintillante.

Entrato e sedutomi al mio posto ho capito di non essere in un treno. Sono salito in qualcosa che è… meno di un treno. Un veicolo che certo sembra un treno, che fu presentato come treno ma che nel tempo ha cambiato la sua essenza. Il mio Shinkansen era un po’ sporco. Certo più sporco di una normale metropolitana giapponese. L’idea di alta tecnologia che avevo è stata subito delusa. Al servizio del passeggero non c’e’ nulla di tecnologico. Le tendine sono manuali, la reclinabilità dei sedili è manuale. C’è solo tanto spazio a disposizione per le gambe e, a dire il vero, lo schienale può abbassarsi di molto. Ma tutto ciò non ha relazione col mito di un treno superveloce. Dunque, possiamo dire che lo Shinkansen non si è ispirato – per i suoi interni – agli aerei. C’è infatti troppo spazio. L’intera cabina appare fin troppo larga se si considera che lo scartamento delle rotaie è ridotto e che il treno sfreccia a 300 km/h. I finestrini sono quadrati e non troppo ampi e la loro forma sembra non assecondare il progetto di velocità. I finestrini quadrati, infatti, intozziscono questo treno dandogli un aspetto meno veloce, meno slanciato. Tutto ciò è senz’altro voluto perché anche gli annunci sonori all’interno della cabina sono strutturati in maniera da rallentare la percezione della velocità: passa troppo tempo tra il din-don che introduce il messaggio e il messaggio stesso. Sebbene, una volta lanciato a forte velocità lo Shinkansen stupisca con ulteriori, leggere ma sensibili accelerazioni lineari, l’atmosfera che vi regna sembra voler mortificare l’esperienza di velocità in favore di quella del solo spostamento. Gli stessi Giapponesi hanno imparato a viaggiare nello Shinkansen in maniera annoiata, normale. Qualcuno si appisola, qualcuno resta in piedi nel vestibolo, molti guardano uno schermo spartano in attesa dell’ avviso per la prossima stazione. A poco serve guardare fuori perché il paesaggio giapponese – seppur immenso - offre poca varietà e tanti, troppi, cavi e rotaie. Per assurdo, il treno superveloce per eccellenza non è più un treno, ma è stato ridotto a un ascensore… orizzontale. Una piattaforma che corre orizzontale, dove non è importante il viaggio, la velocità, ma solo la certezza millimetrica e puntuale delle sue fermate.


Su Alessandro W. Mavilio
Orientalista, scrittore, cineasta. Laureato in Lingua e Letteratura giapponese presso l’Università “L’Orientale” di Napoli, Alessandro Mavilio ha insegnato per più di un decennio all’Università Industriale di Kyoto. Nell’àmbito del progetto “Taoist Movies” è autore anche di numerosi cortometraggi sperimentali girati in Giappone.

Sulla rubrica Da Kyoto
Di tanto in tanto un contributo da Kyoto, l'antica capitale del Giappone. Perché questo è un mondo immenso e le grandi distanze, le culture diverse, mettono alla prova le capacità del pensiero. Il pensiero e le visioni del mondo non sono mai scontati. Se si cambia orizzonte geografico, e l'angolo d'osservazione per guardare il mondo e per riflettere su di esso, ci si accorge subito che i punti di vista - gli stili del pensiero - sono innumerevoli... Questi scritti sono stati raccolti in circa dieci anni e si sono condensati e completati nel libro "Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone".

Il Recinto. Sguardi e riflessioni sul Giappone, di Alessandro W. Mavilio (Gli Ibischi, 2015)