Da Kyoto | mercoledì 9 agosto 2006
Alessandro W. Mavilio
Il sapore delle bacchette.
Anche stasera ci sono andato. E non pensavo che si potesse giungere a un tale livello di intimità.
All'inizio, quando entravo, non parlava, non emetteva nessun suono. Mi guardava con quei suoi occhi un po' febbricitanti, a volte proprio gonfi - come di chi piange spesso e a lungo - e mi lasciava accomodare, sistemare, scegliere, in un silenzio quasi non umano.
Poi pian piano ha cominciato a capire, a prenderci gusto, quando ha capito che non si trattava di una volta sola. (Ce ne sono di quelli che mangiano una volta nel tuo piatto e poi scompaiono!)
Poi volta dopo volta, mentre nasceva l'amore, ha cominciato a salutarmi compiutamente, a sciogliersi e finanche a parlare di me ai suoi uomini.
Con Matsumoto non c'e' molta scelta... Potrei dire che il menu è quasi fisso. Ma tutto il Recinto è così... Le variazioni sul tema spettano a me. Ma dunque, chi è che conduce il gioco? Chi mi costringe a un rapporto banale, ripetitivo, oppure io, col mio continuo desiderare variazioni sul tema?
Una volta che non ci sono andato per quasi una settimana ha ricominciato a non salutarmi, quasi a non guardarmi per tutto il tempo. Certo non poteva non farmi entrare. Io sono stato sul chi va là per tutta la serata finché non ha sbottato dicendomi della sua preoccupazione, della sua paura che io fossi ritornato al mio Paese, che potevo addirittura essere malato e aver bisogno di aiuto! E chi aiuta uno straniero nel Recinto? E' stata l'unica volta che abbiamo propriamente parlato...
Recentemente il suo tono sembra essere ancora calato. Alludo ai miei confronti. La sua preoccupazione di oggi era come avevo parcheggiato la bicicletta fuori. Non me l'ha detto ma l'ho capito. Quasi come a dispetto me l'ha risistemata, e rientrando mi ha lanciato un'occhiata furibonda. Ma giuro che era a posto e che l'ha fatto solo per comunicarmi qualcosa. Forse che non ci vado più spesso come prima...
Spesso mi scopro a pensare "ma che rapporto può esserci tra di noi?". Che senso hanno le sue occhiate furibonde, o la sfuriata (assolutamente inopportuna) sull'essere straniero nel Recinto? Forse proprio nessuno.
Da qualche settimana, dicevo, non parla più. Cambia ragazzo ogni due o tre giorni, e gli ultimi due sono studenti della Università dove lavoro. Potrei pensare che sia più di una casualità ma... Non mi sogno di chiedere nulla, mi sta benissimo questo silenzio. Dal momento in cui un vero discorso non lo abbiamo davvero mai fatto.
Abbiamo tutti le nostre cose, certo, lo so. Fatto sta che stasera ho voluto spiazzarlo.
Al posto del solito "S-Lunch" ho chiesto "Sakana Fry". Ci è rimasto quasi secco. Ed è tornato l'amore! E' esploso un grazie sonoro e ha detto ai due ragazzi di portarmi del tè tiepido (il Recinto è ancora fresco) e gli stuzzichini.
Anche io mi sono rilassato e mi sono sentito uno stupido. Che motivo c'era di darsi tanta pena? “E' la routine, è la routine!” ho pensato, e mi è venuto in mente il mio aspirapolvere, col suo cavo elettrico attorcigliato.
Mentre mangiavo pensavo alla routine e ho cominciato a perdermi nei sapori di questa bettola giapponese. Ormai sono sapori che conosco come la mia stessa bocca.
Prendo le bacchette, le spoglio della carta (sopra v'è scritto "Pranzi Matsumoto") e le divarico fino a sentire il "crac".
(Lo so che il legno non andrebbe usato, ma poi ho pensato che non mi interessa.)
Come al solito, prendo subito i vermicelli freddi e li pongo sopra il pesce fritto caldo. Ma a volte lo faccio anche con la carne. Mentre scarto il pomodoro fresco (che a me non piace) e due-due pezzi sottilissimi di cetriolo, i vermicelli si scaldano al punto giusto.
Poi verso delle verdurine dure e callose sul riso bianco e guardo la montagnella di riso striarsi di verde.
I vermicelli sono pronti! Sono pochi e li mangio come se fossero il mio primo piatto.
Nel frattempo la zuppetta bollente con le alghe si raffredda al punto giusto.
Poi passo al pesce. Matsumoto è preciso come un architetto quando costruisce i piatti. Sotto un solo pezzo di pesce bianco fritto c'è una foglia di insalata verde buonissima, ma sempre al limite della sua naturale conservazione. Questo indugiare dell'insalata tra la vita e la morte mi rende il mangiarla qualcosa di sacro. E' una sola foglia, direi bella e malandata insieme, ma io ne sancisco la vera fine.
Intingo il pesce in una macchia di maionese che sembra misurata al grammo. Non avanza mai e non è mai poca. E non è previsto chiedergli extra di nulla.
Finito il pesce torno alla zuppetta di miso, tenuta d'occhio per tutto il tempo. Prima fumava come un vulcano, adesso sembra più una pozza di acqua termale immersa in un bosco sconosciuto. Prendo la coppetta di legno e ci tuffo dentro le bacchette. Il ghirigoro in superficie si rompe come uno specchio e si disegnano riccioli vorticosi e volute giallastre. E' un gioco che dura un attimo: tiro fuori le bacchette rugose, e vengono su le alghe (che dormivano placide al fondo), tutte attaccate ai bastoncini. L'illusione di una pesca miracolosa ancestrale: da un'acqua stagnante e bollente qualcosa di commestibile.
Alterno sorsetti di zuppa a pugnetti di riso. La mia cena sta finendo, sono pieno ma ho ancora fame.
Mentre sul fondo della zuppa intravedo detriti gialli di forma squadrata (immaginate di svuotare i mari della Terra?) le bacchette, gentilissimo strumento che migliore non esiste, stanno finendo di mangiare con me. Il legno rugoso fa sì che particelle infinitesimali di cibo diventino parte stessa delle bacchette. Il legno si deforma, a tratti si sfilaccia. La morte, il corrompersi-decomporsi della materia sotto agli occhi.
Gli ultimi piccoli bocconi sono come uno spettacolo che finisce. Mentre occhi e papille gustative applaudono, il direttore d'orchestra si inchina e saluta. Le bacchette rilasciano tutto il loro sapore. Io le lecco e - senza farmi troppo vedere - le mordicchio delicatissimamente. Talvolta mi sono scoperto a mangiare di gusto filini di legno.
Un sapore di foresta, alberi e pioggia. Chiudo gli occhi e vedo miliardi di scimmie sedute a gambe incrociate e lo sguardo sapiente.