Squarci | martedì 7 febbraio 2006

Carmen Vicinanza

La mia canzone per Maria (Mogol- Battisti)

Maria è nata all’inizio del secolo, in un paesino dell’Irpinia che non contava più di cento abitanti. Era la terza di cinque figli. La sua famiglia si potrebbe definire matriarcale visto che tutto ruotava attorno alla severa, imperscrutabile, rigida figura della madre, Vincenza. Una donna intollerante e restia a qualsiasi forma di mutamento e progresso.
Il marito, Raffaele, è un umile e ingenuo contadino completamente succube di questa dispotica donna. Partito per la prima grande guerra lascia alla benevolenza dei suoceri una moglie incinta e una malinconica prole. Il bimbo che nasce, il quartogenito, viene chiamato con lo stesso nome del papà, nella macabra possibilità che il senior non tornasse vivo dalla guerra. Ma Raffaele riesce a sfuggire dalle minacce della guerra e torna in una casa che sembra sopravvivere bene, anche senza la sua figura, divenuta ormai soltanto simbolica.
Relegato al ruolo di chi deve provvedere al sostentamento materiale del suo nucleo familiare, ogni suo desiderio, vizio o passione viene, sempre più esplicitamente, represso sul nascere. Per fumare le sue sigarette avvolte in una sola foglia di tabacco, lo stesso tabacco che egli coltiva, è costretto ad allontanarsi da casa, fino alla fine della strada, e anche da lì a sua moglie arriva l’odore che le dà nausea e la fa protestare con violenza. Raffaele riuscirà a trovare la sua rivincita d’individuo solo da nonno e poi bisnonno, quando potrà liberamente riunire attorno al fuoco i suoi cuccioli raccontando fantastiche storie tramandategli dal nonno o inventate di sana pianta. Storie contadine, di fantasmi e strani spiriti che tentano di rompere la monotonia di una vita triste e scontata. Favole in forma di filastrocca, spesso completamente in versi, e che evocano uomini leggendari e imprese meravigliosamente semplici. Favole eccezionali per bambini ingenui e incontaminati da tubi catodici. Per fortuna, questo fantasioso intrattenitore non dovrà mai confrontarsi col nemico della conversazione domestica, la televisione.
Maria è una fanciulla bionda dagli occhi azzurri, che ricordano tanto i normanni passati nella regione e sono assai diversi dagli abituali colori degli abitanti del luogo. Non deve andare a lavorare nei campi: forse il suo incarnato le ha riservato un posto in cucina.
Lascia la scuola in seconda elementare, senza particolari drammi: a quei tempi e in quei luoghi, l’istruzione scolastica non godeva di particolare importanza. Viene mandata da una ricamatrice che le insegni il mestiere. Non certo perché questo diventi un lavoro - lei non deve svolgere altra mansione che quella di occuparsi della casa. Agli inizi del Novecento una donna deve sempre possedere alcune attrattive dovute alla sua bravura in qualche faccenda domestica. E poi, in tempi così austeri, bisogna provvedere da soli a preparare lenzuola tovaglie e asciugamani per il momento del matrimonio.
Comincia ad arrivare qualche sparuto pretendente, ma lei non è interessata a nessuno. La sua esistenza si svolge tra il focolare domestico e la messa della domenica, qualche volta allietata, al suo finire, dai racconti variopinti dei cantastorie. Personaggi affascinanti e carismatici che, incantando le folle di tutto il Sud, si sono spinti fino a questi borghi inaccessibili e dimenticati.
A ventisei anni, quando ormai sembra che sia relegata al ruolo di zitella, tra l’altro abbastanza frequente in quasi tutte le famiglie, ecco che arriva Biagio, il grande amore. Non so se si trattasse davvero di grande amore, ma lei, ormai stufa di limitarsi a sognare la vita coniugale, vuole a tutti i costi crearsene una reale. Lui è un uomo alto, prestante, dal cuore grande e con tanta voglia di lavorare. Proviene da una famiglia che ha acquisito una media industria agricola e che non se la passa così male. Suo padre, però, ha il vizio del gioco e del bere che, in pochi anni, porteranno la famiglia al tracollo totale.
La giovane coppia vive in una casa isolata a ridosso di un passaggio a livello. Ben presto nasce la prima bambina, Titina, dalla bellezza della madre e l’indole umanitaria del padre, che con la madre non riuscirà proprio ad andare d’accordo. Maria aspetta il suo secondo bambino quando la situazione politica preannuncia un’altra guerra. Biagio decide di arruolarsi volontario, è un meccanico dell’aviazione, potrebbe fare carriera e rimpinguare le deboli finanze della casa. Inoltre, il duce afferma che tutto finirà in un baleno e l’Italia governerà il mondo. Prima della nascita del bambino egli sarà a casa con tanti soldi sicuri per avviare un promettente futuro. E poi, meglio essere presenti a dividere il grande bottino che fare i vigliacchi e tirarsi indietro dalla guerra e dalla spartizione finale. Parte per l’Etiopia all’inizio della guerra. Maria, rimasta sola con una bambina da accudire e un altro in arrivo, non si rassegna a tornare dai suoi genitori. Lui, intanto, le manda i soldi e le fa scrivere che la guerra si prolunga ma di non stare in pensiero.
Nasce Bernardo, il figlio maschio. Lei è sola con due bambini, e già qualcuno l’ha importunata approfittando della situazione. Costretta dall’insicurezza della sua situazione, si trasferisce dai genitori, dove c’è il fratello minore, che non è partito perché ha finto una malattia per farsi riformare, e la sorella “signorina”. La convivenza è difficile, si sente diversa, evoluta, superiore perché suo marito lotta per la patria e la famiglia. La guerra comincia a toccare anche questi paesini sperduti. Avviene la raccolta dell’oro in tutte le case per sostenere la causa della patria. Lei si disfa di tutto, anche dell'anello simbolo della sua condizione e del suo amore.
Biagio le scrive che ha acquistato una villa fantastica all’Asmara, con tanto di servitù nera in livrea che aspetta soltanto l’arrivo della padrona e dei padroncini. Le invia i biglietti per la nave e una scorta pagata. Benché tentata dall’idea di una nuova vita in un altro continente, lei è spaventata dai discorsi della madre e dei fratelli sui pericoli del viaggio e sugli imprevisti, e decide di non partire. Ma invia a Biagio bellissime foto dei bambini con la divisa da balilla.
Iniziano i bombardamenti. Bisogna lasciare le case e rifugiarsi in un grande tunnel a pochi chilometri, che ospita centinaia di famiglie. Non c’è quasi nulla da mangiare, anche le bucce delle patate diventano un cibo prelibato. Non si divide niente con i vicini, si nasconde tutto ciò che si possiede.
All’improvviso l’Italia tradisce l’alleato, i tedeschi presenti sul territorio iniziano a vendicarsi. Violenze e furti dilagano dappertutto. Bisogna barricarsi in casa sprangando le porte che, molto spesso, sono comunque sfondate esponendo gli abitanti a razzie e saccheggi. Poi arrivano gli americani, visti da questi sventurati, abbrutiti dalla guerra, come se fossero ancora peggio dei tedeschi. Finalmente, dopo cinque anni di sofferenze, e di fame, la maledetta guerra finisce, e i soldati cominciano a tornare. Uno alla volta, a piedi, emaciati, riescono a ricongiungersi coi propri cari.
Biagio non torna. Le arrivano notizie che è stato fatto prigioniero. Che gli hanno tagliato le dita delle mani, che è sempre incatenato e forse sta morendo di fame. Lei non vuole perdere le speranze, non può sopportare anche questa sventura, dopo tutto quell’orrore. La vita riprende quasi normale. Inizia la ricostruzione, sono sempre installati a casa dei genitori. Sono una folla, ormai. Dovranno passare sei anni prima che un uomo che sembra lo spettro di se stesso arrivi nel cortile. Il primo a vederlo è Bernardo che gioca con gli amici, quel bambino non ancora nato alla sua partenza e che lo riconosce ricordando le foto mostratele dalla mamma. Biagio piange, lei, per la gioia, perde i sensi appena lo vede.
La vita familiare sembra riprendere un nuovo corso. Lui ha perso tutti i possedimenti africani, è stato tenuto prigioniero per sei anni e cova un odio profondo per neri e preti, poiché questi ultimi sembra si siano particolarmente accaniti contro di lui e gli altri prigionieri di guerra. Trova un lavoro, parte di nuovo ogni domenica sera in bicicletta per Battipaglia, dove lavora, prima nei campi di uno zio e poi in una fabbrica. Maria è di nuovo incinta. Ha quarant’anni, si sente vecchia, si vergogna del suo stato e rifiuta questa gravidanza, ma a nulla servono gli amari intrugli che le fanno bere per interrompere la sua condizione. La terza bimba, Raffaella, vispa ed intelligente come una volpe, vede la luce. Dopo due anni di pendolarismo, Biagio porta tutta la sua famiglia in questo paese molto più grande ed avanzato che, sembra, acquisterà sempre più importanza. Vi stanno impiantando tutte le fabbriche più grandi, a sud di Napoli.
Maria è felice in questo villaggio poco più grande del suo, ma che le appare come una grande città. Ha sempre desiderato emanciparsi dal suo paese. Titina, la primogenita, non si è mai adeguata a questa nuova condizione, e ben presto, a soli 18 anni, è ritornata nel paese d’origine, dove sposa un coetaneo. È lì che è nata, lì che è cresciuta e tutto sembra legarla a quel piccolo borgo. Diventa mamma di quattro bambini e apre un bar col marito. Passerà lì il resto dei suoi giorni.
Dopo pochissimi anni di tranquillità, un nuovo dolore incombe sull’esistenza di Maria. Un pomeriggio, Biagio torna molto presto dal lavoro, non si sente bene, si mette a letto, e quando il medico arriva per visitarlo, lui è già passato nel mondo della verità. Un infarto gli ha stroncato l’esistenza, sacrificata a tutto tranne che a se stesso.
Bernardo vive in Germania dove ha trovato lavoro. Maria rimane sola con la figlia più piccola. Tutti i soprusi e le angherie subite dalla violenta figura della madre si sono insinuati nell’indole di Maria. Ha paura di tutto, diffida di tutti. Impedisce a sua figlia, l’unica sulla quale è convinta di avere potere, ogni espressione di pensiero e qualsiasi azione. Non la lascia uscire, non le permette nemmeno di andare a ballare. Raffelina, che intanto, caparbia e sagace com’è, riesce sempre e comunque a fare ciò che vuole, cresce e si diploma. Arriva all’Università quando scoppiano i moti del sessantotto. Poi si sposa, incinta: un colpo tremendo per Maria che avversa quest’unione perché il genero è figlio di una famiglia disgregata che porta il fardello di uno scandalo.
Ormai è tutto stabilito anche senza il suo consenso, e a lei, che non vuole tornare dalla prima figlia nel suo paese natale, non resta che andare a vivere con questa giovane coppia che farebbe volentieri a meno di una donna invadente, che non ha nessun barlume di gioia di vivere.
In questa casa io l’ho conosciuta, amata, odiata, commiserata. Lì, ho sentito i suoi racconti della guerra, di quell’infernale galleria, della sua vita miseranda. Lì, mi ha raccontato le storie più melodiose e le più macabre. Lì, mi ha insegnato le canzoni classiche napoletane. Lì, ha sempre criticato i miei amici e quelli di mia madre. Lì, ha pianto e urlato se non si rispettava la sua volontà. Di lì, ha minacciato di andarsene centinaia di volte perché litigava con la mia sorella minore. Lì, ci abbracciava e regalava i soldi a Natale, più di quanti ne desse agli altri cugini. Ha cercato invano di inculcarci le sue medievali credenze, il suo amore per l’ordine, la casa, l’apparenza e l’ipocrisia. Lì, ha provveduto ogni giorno a cucinare per tutti, mentre si lamentava della meschinità della vita e della gente. Lì, a ottant’anni è morta per un tumore al pancreas.
Questa è la storia di una donna la cui esistenza ha abbracciato un arco di tempo lungo quasi un secolo, e che ha visto i più grandi cambiamenti della storia dell’uomo. Dall’energia elettrica nelle case ai videogiochi, dalle carrozze agli uomini sulla luna, ai morti per overdose. Il sessantotto, la rivoluzione femminista, il libero aborto e il divorzio. Raffaella Carrà e Pippo Baudo. Le Kessler e Stefania Rotolo. Renato Zero e Chernobyl. Le guerre di Corea e del Vietnam. La penicillina e i raggi laser. I Concorde e i satelliti. Il colera e il videoregistratore…
Tutti questi mutamenti l’hanno talvolta sfiorata, altre volte coinvolta, ma non hanno mai intaccato le convinzioni e il rigore morale che erano suoi. La sua scomparsa ha lasciato un forte vuoto. Il suo gracile corpo non ha mai celato la sua ferrea volontà. Integra, ferma nelle sue credenze e opinioni, non si è mai concessa il beneficio del dubbio. È stata una presenza continua e dominante per tre diverse generazioni. Una donna normale per i tempi e i luoghi in cui ha vissuto. Una donna che ha amato e sofferto. Mia nonna.


Su Carmen Vicinanza
Nasce a Salerno nel 1970 sotto il segno dello Scorpione, che per l’astrologia indiana è la peggiore disgrazia astrale che possa capitare ad un essere vivente… Si è laureata in “Lingue e letterature straniere moderne”, con indirizzo orientale, studiando le lingue hindi e urdu. Con la laurea ben riposta nel cassetto, ha sempre lavorato in altri settori. Ha iniziato col teatro, come attrice, regista, autrice. Ha fatto traduzioni e lavorato come interprete. Ha poi trovato il lavoro che più sembra appartenerle: una società di ufficio stampa e pubbliche relazioni per manifestazioni culturali. Ha una passione smodata per l’India dove va appena le è possibile. Ha sempre adorato scrivere, appuntare, fissare sensazioni, emozioni, umori. Non è mai stata pubblicata forse anche perché ha sempre custodito, con un senso di possesso misto a pudore, i propri libercoli.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.