Squarci | lunedì 23 novembre 2020

Giuseppe Sterlicco

Il mio ritorno dall’Abisso

Lessi Charles Bukowski per la prima volta quando avevo, credo, quindici o sedici anni. Ne ho già scritto, ne ho già parlato. Mi folgorò.
Le parole, semplici, dirette, crude, mi sembravano proiettili, coltellate, pugni; il pensiero scorreva velocemente ed era chiaro, limpido, senza fronzoli, senza ghirigori, senza francesismi, senza censura. Il mio cuore, da giovane ribelle che credeva di saper tutto, esplose.
Avevo trovato un amico, un confidente, uno che la pensava esattamente come me e che non si vergognava di quello che diceva, scriveva, pensava e con un orgoglio che tanto sapeva di altezzosità raccontava le sue esperienze e sparava le sue sentenze, sentenze che dettavano legge e diventavano verità assoluta, senza compromessi, senza ripensamenti, senza cercar per forza di cose l'approvazione degli altri.
Bukowski divenne il mio eroe, istantaneamente.

Negli anni, il mio amore per il buon vecchio Hank è rimasto immutato e i miei maldestri tentativi di mettere su carta quello che provavo (istinto irrefrenabile per me) scimmiottavano il suo stile, stile che mi veniva come ora mi viene il respirare o il battere le palpebre o il cuore pulsare: naturale.
Reputo tuttora The shower la più bella poesia d'amore mai scritta: vera, sincera, concreta, reale, cruda.

Ma sto andando oltre.

Ho provato, sulla pelle, la fatica del capitale che Bukowski racconta, il dolore del sentirsi sempre soli, la fatica del doversi svegliare la mattina per un ideale costruito, la stanchezza del mettersi a letto la sera e sentire il cuore inquietarsi per domani senza aver goduto nemmeno un istante di bellezza del giorno appena passato perché di bellezza non ne ha trovato, nemmeno un granello.

Poi è arrivato Jack London.

L'aver letto London a 33 anni e non 20 mi ha aiutato a non rovinarmi la sorpresa perché, a meno che tu non sia un giovane marinaio del 1800, tante sfumature di colore nemmeno le noti; la natura, la ricerca di se stessi, il senso al sanguinare sono tutte cose che non appartengono all'Uomo di fine '900, uomo che oggi io sono.
Io sono figlio della Generazione X, di quelli che si puntano da soli la pistola alla tempia, di Kurt Cobain ed Amy Winehouse: sono figlio dell' Antracite, del colore grigio e cupo della città urbanizzata, del millennium bug, delle torri gemelle che crollano su se stesse colpite dagli estremismi, dell'autolesionismo, della musica metal, del grido disperato di mille band, della narrativa scolarizzata che rifiuta le accademie; sono figlio, io, di un presente che non ha memoria, che vive alla giornata, che non progetta perché non ha un piano ben preciso, che legge Kerouac supino sul letto mentre nella camera accanto il padre si danna per l'ennesima bolletta Enel: io non ho futuro.

Ma ho un’Anima. Che si danna, che si contorce, che cerca Verità e Memoria, che sta attraversando la Selva Oscura e solo in quest'ultimo periodo se ne sta rendendo conto.
E allora tutte le lucine gettate alla rinfusa nel buio vengono unite dal filo di Arianna e sembrano formare un disegno preciso: tutto accade per un motivo, diceva a volte mia nonna che, come ho scritto altrove, vestiva il dolore come uno scialle e allora può darsi abbia avuto sempre ragione.

Io ho dovuto rinnegare le mie radici ed estirparle dalla terra in cui sono nato per poterle riconoscerle e riconoscermi; il Viaggio lontano da casa mi ha cambiato.
Leggo del giovane 'Ntoni e provo pena e commiserazione, un senso di terrore nel pensare che al mio ritorno nemmeno il cane riesca a riconoscermi.
Lo scoglio mi ha richiamato come il canto di una sirena, come la natura selvaggia richiama Buck ricordando la legge del bastone e della zanna: non è un caso se Napoli è nata da Parthenope e venga definita, tuttora, una terra selvaggia.
Ma ho anche l'Anima tormentata di Ulisse, mosso dalla hybris e dalla sete di conoscenza del diverso, dalla curiosità quasi scientifica del vedere per credere e credere per ricredersi, ed ecco che, ancora oggi, zaino in spalla, mi perdo nell'Altrove per cercarmi.

Jack London, dicevo.
A 20 anni mi sarei rovinato la sorpresa di trovare uno scrittore che con Bukowski non ha nulla a che fare.
Charles e Jack sono agli antipodi, e mi spiego meglio cercando di essere coinciso, preciso, breve riservandomi a un prossimo futuro il piacere di scrivere meglio su un autore, London, di cui non ancora conosco tutta la produzione, né biografia, né pensiero (come invece mi accade per Bukowski).

Ho letto finora Il vagabondo delle stelle, Martin Eden, Il richiamo della foresta, Il popolo dell'abisso, e qualche novella sparsa ma mi sembra chiaro, come il sole, dove voglia andare a parare.

Innanzitutto, il linguaggio.
Di Bukowski mi ha sempre colpito la semplicità, la rozzezza, l'essere diretto e schietto. È per questo che oggi, nell'epoca dei social network, è tra i più citati anche a sproposito: il populismo è parte integrante non tanto del suo pensiero quanto del suo linguaggio.

London, invece, è figlio del 1800 e di un naturalismo neanche troppo velato; un linguaggio vasto, descrizioni dettagliate, un uso di sinonimi precisi, tante subordinate, qualche perifrasi qua e là: Jack London riuscirebbe a rendere BELLO e interessante anche lo squallore dell'East End londinese (cosa che ha appunto fatto nel Popolo dell'Abisso).
Ciò comporta una maggior attenzione quando si legge una pagina di Jack London che scorre come il letto del fiume, placidamente, ma ha improvvisi vortici e improvvise, enormi, paurose, cascate che obbligano a tenere gli occhi aperti e la mente viva durante la lettura per evitare di infrangersi sul fondo, alla fine della cascata e doverla risalire come un salmone per dover venire a capo del messaggio.
Al di là dei tecnicismi (soprattutto del linguaggio della navigazione), è lo spirito di avventura che muove l'Universo di London e la sua scrittura, scrittura dinamica, vivace, colta e mai rassegnata: l'esatto opposto di quella di Bukowski che sebbene sia anch'essa abbastanza dinamica e vivace rimane, a mio parere, chinata su se stessa e, qua e là, pregna di rassegnazione e nichilismo.

È proprio su Nietzsche in entrambi che ieri riflettevo: reputo il pensiero di Nietzsche fortemente frainteso nel corso del '900: in molti hanno visto nella sua vita e nella sua opera un nichilismo e una autodistruzione che in realtà non gli appartengono. Nietzsche, per me, non è mai stato nichilista.
Superuomini che si ergono dalla massa come individui unici e perché unici anche meritevoli di potersi ergere e imporre la propria personale testimonianza sulla terra: è questo Nietzsche. Non omini rannicchiati su se stessi che piangono e si lamentano senza agire per cambiare le cose. Questo è nichilismo.

Forse, in parte, anche London ha frainteso Nietzsche quando ha chiuso Martin Eden: il suicidio come scelta obbligata a una nausea e una noia alienante. No, io non avrei chiuso Martin Eden così; scrittore di successo, studioso di biologia e della filosofia nicciana, evoluzionista, l'avrei forse reso un superuomo a quel punto, il piede nella scarpa dal tallone di ferro forse.
Ma London è London e io sono io.

Bukowski è un nichilista.
Un nichilista che ha incontrato la fortuna. E lui stesso lo ammette, placidamente.
Condivide con Martin Eden il pensiero di essere stato sempre lo stesso, prima e dopo la fama e che l'unica differenza sia stata una botta di fortuna e nient'altro.
Bukowski ha viaggiato, ha vagabondato ma sempre con la sconfitta e l'autodistruzione nel cuore. Si è arreso al sistema, ha trovato "il posto" che Martin Eden ripudia, si è adattato lamentandosi del suo adattamento senza cambiare la sua situazione.
Sconfitto, dal sogno americano, carne da macello macellata dal capitalismo.
Martin Eden ha rigettato il lavoro in lavanderia, ha concentrato tutte le sue forze per seguire la sua vera natura.
Questa è un'altra differenza tra London e Bukowski:
Henry Chinaski, alter ego di Bukowski, si muove come uno zombie spinto solo dall'impulso sessuale, l'alcol e il pensiero della morte;
Martin Eden, a mio parere chiaro alter ego di London, a metà romanzo sta per diventare quello zombie, quell'automa ma ripudia questo cambiamento.

London era un avventuriero, leggo.
Bukowski era uno della working class, credo.
E si vede, si sente.

La mancanza di denaro è stata sicuramente decisiva ma la differenza, forse, sta nella reazione caratteriale e nell'arrendersi al nichilismo, per l'appunto.

Ma Bukowski, nato nel 1929, figlio del '900 non può mai essere London, figlio dell''800.
Ecco perché a 20 anni io avrei ripudiato London: non sarei mai riuscito ad avere il tempo e lo spirito giusto per fermarmi e comprenderlo.
Con Bukowski è stato più facile, siamo entrambi figli del' 900, entrambi figli della working class.

Ma sento, vivo in me, il desiderio di denunciare e urlare e ribellarmi; denuncia e urlo che vivono in London più che Bukowski perché Bukowski è un cinico populista mentre London un socialista che crede, nonostante tutto.

Ecco la differenza sostanziale nel pensiero dei due e perché sono agli antipodi: Bukowski non denuncia, racconta, non si fa esponente di una classe, non gli interessano le sfumature i ghirigori le storture politiche; è un cinico, un disilluso, un populista individualista.
London è, al contrario, uno scrittore che denuncia ed enuncia, impegnato politicamente e socialmente, uno che nutre ancora la speranza che, nonostante la legge del bastone e della zanna c'è ancora differenza tra l'Uomo e le bestie anche quando l'Uomo cede all'impulso e si comporta da Bestia.
Bukowski lo scrisse come titolo di un racconto "confessioni di un uomo abbastanza pazzo da vivere tra le bestie".

Le facce di una stessa medaglia ma irreversibilmente diverse.

E ora, a 33 anni, sento di essere in una fase della mia vita nella quale il bisogno di sentirmi più London che Bukowski è vivo, forte, coriaceo, ardente.


23 novembre 2020.


Su Giuseppe Sterlicco
E' nato il 17 maggio 1987, una settimana in anticipo rispetto ai calcoli e alle aspettative: evidentemente, secondo lui, teneva molto a vedere questo mondo il più presto possibile. A dieci anni ha fatto la prima (ed ultima) comunione. A sedici anni ha conosciuto Leopardi, Baudelaire, Nietzsche, Bukowski, e a diciotto ha scritto la sua prima vera poesia e fondato un gruppo rock, col quale suona ancora oggi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Poesie dure&crude, di Giuseppe Sterlicco (Gli Scacchi, 2008)