Squarci | mercoledì 24 aprile 2019
Agostino Forte
Giacomo, un giorno come tanti
«Orsù, il ricordo stesso delle sciagure è funesto» disse, «poiché mi fa scordare il diritto dei supplici. Avrai il tuo pane al tramonto; la tavola sarà imbandita sotto gli olivi. Avvicinati senza timore. Vorrei poter alleviare la tua pena».
(Jean Giono, Nascita dell’Odissea)
“Guarda sempre davanti a te se non vuoi pestare il muso contro qualcosa”, soleva raccomandarsi sempre la madre di Giacomo. Malgrado quelle continue raccomandazioni, il figliolo tornava sempre a casa con dei gran bozzi sulla fronte o con escoriazioni multiple, per via delle varie quanto numerose cadute o scontri, racimolati durante il corso di una giornata.
Giacomo era un ragazzotto fatto a modo suo. Non dava molto retta alle raccomandazioni di chicchessia, voleva disperatamente fare le sue esperienze, anche a costo della vita, pareva. Stringeva i denti ed anche i pugni, ostinandosi a compiere il suo destino. Sì, perché per Giacomo il vero destino era quello deciso da lui, giorno per giorno. E questo, detto chiaro e tondo era il cruccio del sacerdote del suo oratorio, don Angelo.
Don Angelo credeva di aver perfettamente capito quel ragazzo: era l’anticristo, l’eresia in persona, il sovvertimento delle Scritture o, come era solito definirlo, l’anti-testamentario. Più di una volta don Angelo si era sentito costretto a non consentire a Giacomo di restare cogli altri ragazzi, per tema che il suo comportamento potesse influire su quelle sprovvedute personalità in formazione. Francamente tutto ciò era eccessivo, e molto. Cosa si poteva pretendere da un ragazzino di otto anni, a digiuno di teologia nonché interesse religioso o frequentazioni di dottrina ?
Eppure, Giacomo sentiva la propria vita come un’ovvietà. Era così, si parlava così, si viveva così, semplicemente così! Giacomo consacrò quei suoi otto anni a costruirsi la vita. E, non sapendo come iniziare né figurarsela, guardando decisamente al futuro si gettò a capofitto nell’insondabile, tentando l’abracadabra delle possibilità; in poche parole scommise sé stesso all’insaputa del mondo.
Sono passati molti anni da allora. Chissà dove si trova ora don Angelo e l’oratorio, come tutti gli oratori nel corso degli anni, sarà un po’ cambiato. Gli amici saranno a loro volta cresciuti e, per la maggior parte, saranno diventati genitori. Chissà poi quelle rare e ideali morosine ...
Ora Giacomo sa perfettamente di tutti gli anni trascorsi, sembra quasi percepirne i tratti sul corpo. Tutto gli appare come se ogni anno passato avesse un suo volto specifico. I pianti e le risa, le gioie e il dolore; padre madre fratelli amici conoscenti vari, tutto è ormai in un calderone e di una fattezza tale per cui tutti gli ingredienti vi sono perfettamente riconoscibili.
Ma il passato è anche una sorta di sonno in continua progressione. Il passato pare perfettamente avvertito, sentito, digerito. Non di meno si presenta come un c’è-non c’è.
Ora davanti ai suoi occhi corre l’idea della solitudine. Lontano da tutto il conosciuto, da tutti i conoscenti.
Lui afferma di lavorare la terra e di non avere orari – non gli importa averne, è lui che li fa, proprio come quando era piccolo e decideva del suo futuro trasferendovisi –, ha trovato una fattoria dove gli danno da lavorare ripagandolo con vitto e alloggio ... e qualche sigaretta. Lui è contento così, quanto al resto “ci penseremo al momento” dice.
Là, al riparo della collina e dell’ospitalità del paesaggio, Giacomo vive la grande rinuncia a sé stesso. Sa che tutto ciò che ha lasciato “è stato il prezzo pattuito”. Vada come vada. Il tramonto senza una voce che lo chiami alla cena e la vecchiaia senza la compagnia dell’umanità, non sono altro che le sue scelte decisive di come presentarsi davanti al destino, spiattellandosi di fronte alla fine, inesorabilmente.
La fine dei giorni, la morte, rappresentano l’ovvio scadere del transito terreno. Verrebbe da dire che Giacomo aspetta ogni istante della vita con cinismo e senza raccapriccio. Sa che dietro le pieghe dell’esistenza sono in agguato immagini e vestiti esistenziali terribili: malattie, immobilità, pessimi caratteri, oblii e quant’altro. Sa, però, essere questa “una fetta e non la torta intera”.
La fine dei giorni, la morte, Giacomo li attende sulla soglia di casa, solo. Una cosa non sa con sicurezza: quanto sia lo spreco perpetrato dal suo vivere. O forse lo sa ma non riesce a contenerlo nelle sue braccia. Ineluttabile il suo cammino, con ostinazione quasi narcisistica. Ogni ora decide la pervicacia di un’agonia.
Eppure, gli anni hanno maturato in questo uomo tutta una sorta di pensieri, pensieri che lo portano a pensare alla dissipazione del dono ricevuto nel suo venir posato su questa terra. Egli è lontano da moglie, figli, fratelli, genitori, umanità tutta. Con tutto ciò, è loro così vicino da ridurlo quasi alla perdita della ragione.
Giacomo invidia il giorno quando lascia il posto alla notte senza gelosia. Loro, gli amanti insensibili al dominio, ai quali desidera contendere quella capacità a non-avere. Come vorrebbe cancellare gli istinti di possesso, come vorrebbe poter scomparire, essere senza un nome, senza voracità. Annullarsi vorrebbe, ma una voce torna a ricordargli che pure nell’annullamento di sé stessi può esservi nascosto un compiacimento.
È qui la sua solitudine, alla quale non può trovare rimedio se non nell’esercizio della pazienza, cercando di guardare avanti per non scontare le conseguenze della disattenzione, come era solita indicargli la madre.
Ogni tanto si sofferma sul monito di San Nilo abate, il quale rammentava che perdersi nella moltitudine causa il ritornarne costellati di ferite.
Giacomo sa cosa significano queste parole. Ora, Giacomo sa bene cosa significhino quelle parole d’avvertimento.