Squarci | lunedì 1 aprile 2019

Giuseppe Sterlicco

Note di apprendistato - Inghilterra e Italia

Nel complesso è una esperienza che non rinnego, questa londinese. Ho dovuto imparato a sopravvivere in una giungla urbana lontano dal sostegno e dall'ombrello della famiglia. Ho fatto e sto facendo qualsiasi tipo di lavoro per sopravvivere ed è un bene: ho visto e vissuto quelli che consideriamo lavori umili, quelli del basso, quelli che ti rendono una persona migliore secondo me.

Ciò che ho capito è che questa londinese è una fase, un pezzo di cammino, una esperienza che è quasi al termine e che volerò da qualche altra parte prima o poi.

Sto iniziando a mandare cv in Italia perché vorrei rientrare, precisamente a Bologna, ci sono stato lo scorso agosto e ho avuto quelle che qui chiamano good vibes. Una città grande ma non troppo, un centro piccolo ma non troppo, la città delle giuste misure. E dopo la grande abbuffata di umanità che ho fatto qui, a Londra, ho capito il peso della giusta misura.


L'estate scorsa ero a Firenze, guardavo il Duomo e pensavo che è tra le cose più belle che avessi mai visto. Imperioso, bello, sotto il sole cocente di una estate italiana qualunque, ne avrà viste a centinaia di estati qualunque, sotto il ducato, sotto la repubblica, sotto la monarchia, sotto la dittatura e poi sotto la repubblica e ancora e rimane lì, al centro di tutto, e non c'è Tower Bridge o Buckingham Palace che tenga, il confronto non regge.

L'estate all'italiana è forse la cosa che più mi manca e alcuni modi di fare che ho dato sempre per scontato, che mi apparivano alieni ma che oggi sanno toccare alcune corde, dentro di me.
E poi sono andato a Bologna, sotto la Torre degli Asinelli, tra l'odore di tigelle e mortadella e la birra che non manca mai e me ne sono innamorato.

Gli chalet dove sedersi e godersi un caffè, una tagliata di salumi, un aperitivo; bere una birra per socializzare e non socializzare per bere; avere dei punti stabili nel proprio percorso di vita, come un amico a cento metri, un parente dietro l'angolo, qualcuno con cui scambiare una chiacchiera ogni tanto, perché stare da soli è bello ma aprirsi, a volte, è meglio; perché come diceva John Donne, "nessun uomo è un'isola". Questa, invece, è un'isola arida, negli affetti come nei modi di fare e mangiare e bere e dire e essere e rapportarsi e sentirsi e mettere sempre il piede sopra qualcun altro per sentirsi meglio perché ogni giorno qui è una gara al risparmio.

Si risparmia sulle parole, le sillabe, i sentimenti, gli sguardi.

Si socializza per bere. Non si beve per gusto o per sete: si beve per necessità. La necessità di sentirsi vivi, di dare un senso a questo rotolarsi dal letto alle quattro del mattino per pagare un affitto che costa un quanto un rene al mercato nero. E allora tutti capo chino sugli iphone, tutti uguali, tutti omologati, tutti tristi, spenti, vuoti, tutti con un unico pensiero, "your annual income" e per quell'annualincome si calpestano dignità, diritti, si calpestano gli altri, quello che pensano, fanno o dicono, e tutto il sistema ha su una maschera ipocrita di tolleranza e multiculturalismo, multiculturalismo forzato, finto, inutile che grazie a dio con la questione Brexit sta cadendo e il vero volto di questa società si sta pian piano smascherando.

E la lingua... Imparare dalla strada una lingua non è come aprire il libro e impararla in maniera fredda e meticolosa. No no, la lingua in strada te la tirano in faccia come schiaffi, come un secchio d'acqua gelata. E sei lì, mezzo sordo, a chiederti se quello che hanno detto è quello che hai capito o altro. Guardia alta, pugni stretti nelle tasche, perché una parola può essere anche un insulto e qui in certe zone all'insulto segue una coltellata. Ecco, impari la lingua per sopravvivere. Per non farti ammazzare. Ed è diverso dal libro aperto sul tavolo e la cioccolata calda mentre mamma ti chiede se per pranzo vanno bene le penne al sugo o la pasta con le patate. Le prime parole che ho imparato sono state "money" e "now". A dire il vero già le conoscevo ma non ne avevo compreso il ero significato. Danaro e tempo. Dopo un giorno che ero qui avevo inconsapevolmente già imparato il mantra di questa città, di questa società. Non ero capace di articolare una frase, non capivo quello che mi veniva detto ma una cosa avevo capito subito: Money now.

Ecco questo è il genere di esperienze che ho avuto qui e sto avendo, ho fatto e sto facendo un carico di vita che un giorno vorrei tramutare in qualcosa da dire. Ma sento anche il bisogno di dover cambiare il tiro, dover cambiare il calibro della penna come fosse una pistola. Vorrei lavorare su quell’ humor che leggo in Bukowski e Orwell. Uno humor spietato ma anche formale in un certo senso. Usare la parola "merda" quando veramente ha senso usarla e non tirarne un grappolo sul foglio a mo’ di coriandoli. E quindi devo lavorare sulla rabbia.


Quando l’ho scritto nel pezzo per il volume di Oxp gli scorsi mesi era vero. La rabbia, arriva, mi salta addosso, e non mi fa concludere nulla. A volte, spesso, per calmarla devo prendere a cazzotti qualsiasi cosa che mi capita a tiro, mura porte materasso qualsiasi cosa. È una brutta puttana. Ma la domerò, sono ancora in cammino, sto ancora vivendo quello che domani racconterò. Il mio apprendistato non finisce qua.


Su Giuseppe Sterlicco
E' nato il 17 maggio 1987, una settimana in anticipo rispetto ai calcoli e alle aspettative: evidentemente, secondo lui, teneva molto a vedere questo mondo il più presto possibile. A dieci anni ha fatto la prima (ed ultima) comunione. A sedici anni ha conosciuto Leopardi, Baudelaire, Nietzsche, Bukowski, e a diciotto ha scritto la sua prima vera poesia e fondato un gruppo rock, col quale suona ancora oggi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Poesie dure&crude, di Giuseppe Sterlicco (Gli Scacchi, 2008)