Squarci | lunedì 1 aprile 2019

Giuseppe Sterlicco

Sulla Brexit - Note di vita a Londra

Tre anni fa sembrava impossibile una vittoria del Leave. Ero qui da un anno e mezzo, lavoravo alla caffetteria di una libreria ad Holborn, “prima o poi salterò lì dietro la cassa cosa libraio” mi ripetevo, tra un caffè e l’altro, come un mantra, nei momenti più duri, quando tutto sembrava più pesante del solito, quando tutto quel svegliarsi alle 4 del mattino e infilarsi i pantaloni sporchi di caffè sembrava insensato. Ci credevo, veramente.

Spesso mi fermavo a chiacchierare con i commessi, rigorosamente tutti inglesi, io, col mio inglese incerto, imparato per strada, in Tube, alla macchinetta del caffè, leggendo Bukowski e Orwell. Gli davo il mio curriculum, mi dicevano “no purtroppo non abbiamo nessuna vacancy al momento”, poi spesso capitava facessero colloqui proprio lì davanti a me, i candidati tutti rigorosamente inglesi; abusando del mio essere amichevole e cordiale, tracannando i caffè che gli facevo gratis, perché ero lì da più di un anno e li consideravo amici.

Ero cieco. Ero sordo. Sembrava impossibile una vittoria del Leave. Una società multietnica, multiculturale, moderna, aperta, mica l’Italia di merda che mi ero lasciato alle spalle? I miei curriculum nel cestino accanto alle scrivanie, li trovavo quasi tutte le mattine ma ero così preso da quel lavoro che non mi interessava che alla fine manco ci facevo caso. Poi votano Leave. Il primo cliente il giorno dopo la vittoria del leave, un grasso uomo dal forte accento londinese, di quelli che pronunciano “grande” Grendy; era un cliente fisso, cordiale, gentile, amichevole. Arriva e mi fa “posso avere un english breakfast tea e oggi più che mai posso dire ENGLISH con orgoglio!”. Lo guardo, mi guarda “non dobbiamo essere per forza nella stessa unione per essere amici e ah non temere: anche se fuori dall’Europa ormai tu puoi continuare a servirmi, come hai sempre fatto.” Sì, aveva detto proprio S e r v i r m i. Non rispondo, gli sorrido, lui si volta, gli sputo nel suo english breakfast tea. Glielo s e r v o. Lui lo afferra, manco ringrazia, va a sedersi, beve il mio sputo.

Uno dei ragazzi in libreria, per scherzo gli dico “stiamo cercando persone alla caffetteria”, mi guarda, sorride “non parlo italiano, quello è posto per te” mi dice sorridendo. Non sto più dormendo, leggo tra le righe. La maschera è caduta. Questi sono i veri inglesi. Ecco, per me la Brexit è stata questa: una maschera che è caduta. Il loro sentirsi orgogliosamente inglesi, schiacciando tutto e tutti ha prevalso. Come sempre. Non mi chiedo più perché sono così odiati, nel mondo. Arroganti, ipocriti, falsi, finti. Tutti, nessuno escluso. E pigri. Hanno votato leave sostenendo che noi immigrati gli rubassimo lavoro, e che lavoro!

Ricordo una intervista a una tizia che aveva votato leave: lei ha votato leave, come mai? Perché i polacchi rubano il lavoro. Quindi lei è andata a cercare lavoro e ha trovato polacchi un po’ ovunque? In realtà non ho mai cercato lavoro, vivo di benefits, ma sono sicura che se andassi a cercarlo non troverei nessun lavoro perché i polacchi prendono qualsiasi lavoro. Fuori un centro polacco ad Hammersmith, pochi giorni dopo il voto per la Brexit qualcuno scrisse a caratteri cubitali V E R M I, parassiti. Qui, nella Londra aperta, emancipata, futuristica. Eppure, da quando sono qui sono pochi gli inglesi che ho visto lavorare. A loro piace la scrivania. E comandare. Quando provano a fare qualcosa che non sia comandare quella cosa fa schifo.

Penso alla Grenfell tower. Sa quante ce ne sono simili? O penso a un qualsiasi tipo di lavoretto in casa. L’altro giorno un “ingegnere” è venuto ad aggiustare il rubinetto dell’acqua calda che usciva tiepida. Sono tre giorni che, dopo la sua visita, l’acqua è fredda. Questi sono i “lavoratori” inglesi. Le manifestazioni dei giorni scorsi che chiedono un secondo referendum, le petizioni, sono una farsa. Ci siamo noi, immigrati, in 2 terzi di quelle petizioni, di quelle marce. Noi, che teniamo su questo sistema dalle fondamenta. Noi nei bar, ristoranti, caffetterie, nella logistica, nelle costruzioni, nella sanità. Ma il voto, quello esclusivo agli inglesi, ha parlato. Hanno avuto 3 anni per organizzarsi e preparate un piano di uscita dall’Europa che avesse un senso e che mettesse tutti d’accordo. Loro, così precisi, così convinti di essere moderni, primatisti, avanti. La maschera è caduta, questi sono i veri inglesi. Razzisti, ipocriti, disorganizzati, incapaci di sopravvivere o arrangiarsi senza le freccette che gli indicano la strada da seguire.

Io spero vivamente escano dall’Europa e vadano in forte crisi economica, così da rimettere i piedi per terra e svegliarsi. Un po’ come ho fatto io quando aprendo gli occhi, tutto un tratto, ho capito che in una società come questa non potrò mai integrarmi.


Su Giuseppe Sterlicco
E' nato il 17 maggio 1987, una settimana in anticipo rispetto ai calcoli e alle aspettative: evidentemente, secondo lui, teneva molto a vedere questo mondo il più presto possibile. A dieci anni ha fatto la prima (ed ultima) comunione. A sedici anni ha conosciuto Leopardi, Baudelaire, Nietzsche, Bukowski, e a diciotto ha scritto la sua prima vera poesia e fondato un gruppo rock, col quale suona ancora oggi.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

Poesie dure&crude, di Giuseppe Sterlicco (Gli Scacchi, 2008)