Squarci | sabato 30 gennaio 2016
Alessandro W. Mavilio
Alicudi '90
Nell’estate del 1990 mio fratello e io avevamo lavorato in coppia consegnando dentiere e apparecchi dentali per tutta la città. Io avevo girato con buste di plastica della spesa piene di denti finti, mandibole di gesso, qualche attrezzo… Una volta fui mandato a via Toledo a comprare urgentemente dieci litri di acido fluoridrico. Il commerciante mi chiese se desideravo che un garzone mi portasse il boccione fino al furgone. Io risposi che ero a piedi e sarei risalito con la funicolare. Mi guardò con pena; silenzioso e irritato mi mise questo pesantissimo boccione in braccio e mi disse: - Guaglio’, se ti dovesse cadere… scappa il più lontano possibile. Hai capito? Non restare a guardare quello che succede. Hai inteso? - E così risalii al Vomero con il mio carico speciale ma con un unico vero pensiero. La vacanza. Mio fratello aveva organizzato una vacanza con i suoi amici e mi aveva chiesto se avessi voluto andare anche io. Certo che sì! Saremmo andati alle isole Eolie, sarebbe stata una bellissima vacanza di mare. Dovevamo pur premiarci: mezza Napoli in autunno avrebbe masticato grazie a noi.
- Sai perché si chiamano Eolie? – mi chiese mio fratello.
- No… - risposi.
- “Eolo”. Non ti dice niente?
- Ah, sì!
Nella Napoli deserta di quegli anni, quando “vacanza” voleva davvero significare il vuoto delle strade andai a piazza Municipio per comprare il mio biglietto della nave e poi alla Duchesca per comprare un sacco a pelo; quest’ultimo pagato solo duemila lire, un affare. Saremmo partiti dopo qualche giorno, non ero nella pelle. Lui si recò per pochi giorni a casa di altri amici per un’ulteriore breve vacanza di mare più locale. Restammo d’accordo che ci saremmo trovati al porto di Napoli per la partenza. Anche i suoi amici sarebbero stati già lì e tutti saremmo partiti. “Non portare troppa roba”, mi disse; “perché non usi lo zaino di quando papà era militare? Hai comprato il sacco a pelo?”. Era il mio primo viaggio in assoluto, senza la famiglia. Tutto stavolta era affidato a noi soli, il mangiare, il dormire, la sicurezza. Era la prima estate dopo la morte di nostra madre e tutto nella vita aveva assunto un’aria di grigia insufficienza. Io vivevo nella inespressa speranza di qualcosa.
La sera della partenza ero al porto. Riconobbi il gruppo di amici che si era riunito e mi unii a loro. Erano tutti molto più grandi di me. Fecero per imbarcarsi ma mio fratello ancora non si vedeva. Quando lo feci notare mi dissero che forse era già sulla nave e che comunque ci voleva ancora un po’ prima della partenza, ci avrebbe raggiunti a bordo. Esplorammo un po’ il ponte della nave, lì avremmo dormito. I più avvezzi avevano già occupato le nicchie più riparate. Io non sapevo niente di gas di scarico e dell’insistenza del vento. La nave salpò e di mio fratello nessuna traccia. Partire in nave da Napoli è un’esperienza che richiede polso. Dalla poppa, la vista del porto, poi del Vomero e della Certosa di San Martino, poi del golfo intero, di tutto quel presepe che all’imbrunire rimpicciolisce ineluttabilmente sembrò condurmi a un passo dalla pazzia, era come uno strappo lentissimo e doloroso, struggente bellezza di indicibile sofferenza. Ero anche furioso con mio fratello e impaurito da quel primo imponente distacco dei miei primi quindici anni. Gli amici mi tranquillizzarono, forse ci avrebbe raggiunti qualche giorno dopo. Napoli era ormai scomparsa, gli sguardi volgevano a prua. Seduti in cerchio, facemmo tutti conoscenza. Gianni e Rosa (fratelli), Annalisa (che stava con Gianni), Grazia con un’altra amica, un altro Gianni e io. Quando chiesi come avevano conosciuto Stefano, mio fratello, mi risposero: - Chi?
Solo uno di loro lo conosceva. Era l’altro Gianni, Giovambattista, un ragazzo agitato, esplosivo e molto intelligente, si diceva il discendente del Monsignor Giovanni Battista Alfano, il famoso vulcanologo. Mi colpiva di Gianni la sua evidente classe, e tuttavia il divertimento di vivere Napoli e la napoletanità nel modo tipico degli stranieri che la visitano a lungo. Parlava molto bene il napoletano ma era ovvio che fosse per lui come una seconda lingua, studiata con attenzione e praticata con genio. Gianni era un’esponente storico della gioventù alternativa della città, ridotto male nel vestiario ma decisamente di buona famiglia, intellettuale, artistoide e libero. Per tirarmi un po’ su disse, ritmicamente:
- Va bbuo’, mo’ nun ce penza’ cchiù. Stamm’ ‘ccà! Appicciate ‘na sigaretta.
- Ma io non fumo…
Dopo alcune ore tutti aprirono i sacchi a pelo con evidente scioltezza. Feci lo stesso ma il mio sacco a pelo si strappò completamente non appena vi infilai le gambe. Eccolo, l’affare alla Duchesca, pensai… Gianni rise sonoramente e disse a tutti che mi avevano venduto ‘na felinia, una ragnatela. Lo usai comunque, come fosse una mappata di stracci sintetici. Sempre meglio di niente.
All’aurora eravamo sotto Stromboli. La fornace nella notte. Che spettacolo…
A Panarea venne una barca a remi sotto bordo a prendere i pochi turisti destinati a lei.
Poi attraccammo a Filicudi e Gianni mi disse, gravemente: - È l’isola dei lebbrosi.
E infine comparve Alicudi. Lo scoglio brullo. Per quel po’ che la nave l’aveva lambita, l’isola non aveva presentato zone d’ombra e il sole era già alto. Il nostro gruppo sbarcò. Fu anche sbarcata una vecchia automobile, quasi d’epoca, nell’ilarità dei marittimi che continuavano a dire al proprietario che l’isola non aveva strade ma che… contento lui. La prima notte dormimmo tutti insieme a due passi dal molo, in una stanza affittata non molto diversa da una stalla. Mi svegliai prima di tutti perché sentii urlare. Spiai tra le assi di legno della porta e vidi aldilà della mulattiera una giovane isolana che veniva frustata dentro un pollaio. Non potevo credere che accadesse a un passo da me. Il padrone le urlava insistentemente “puttana ‘mmaculata”. Ciò avveniva a un metro da noi, ed ebbi la netta sensazione che quella donne stesse subendo una punizione proprio a causa nostra. E infatti fummo subito messi fuori casa: niente sconcerie, ci fu detto. Forse il padrone era disturbato da un gruppo promiscuo di giovani che dormissero tutti insieme. Altre sistemazioni non ce n’erano sull’isola. Si era pensato di occupare la casa vuota di un tedesco, ma era molto in cima all’isola e troppo lontana dal mare. Il gruppo si spostò definitivamente su una spiaggia un po’ nascosta. Ci saremmo accampati lì e sarebbe cominciata l’avventura.
Alicudi ci presentò presto il conto, salatissimo in tutti i sensi. Non c’era ombra, non c’era acqua potabile né acqua corrente, non c’era elettricità, non c’era gas. La civiltà era solo una promessa, smembrata e rimembrata nella mente. Alle undici del mattino apriva per poco tempo il minuscolo emporio di Ettore, giù al molo, dove si poteva comprare qualcosa.
Alicuri è ovunque sterile ed alpestre,
e non ha di circuito più di 7 miglia.
Vi nasce in gran copia l'erica.
Mariano Scasso, Storia generale di Sicilia, 1788.
Esaurite le prime scorte di cibo degli zaini, mangiavamo e ci muovevamo il meno possibile, specialmente durante il giorno. Al sale sulla pelle si aggiungeva il sale di successive irresistibili immersioni. Si andava al bagno dove si poteva. Si parlava pochissimo perché ci si comprendeva pochissimo. Nel giro di pochi giorni eravamo tutti ridotti ad automi biologici: corpi interessati esclusivamente dalla loro lenta dissoluzione. Ma dopo poco avremmo lasciato l’isola per provarne un’altra. Finché il mare non si ingrossò e le navi, già rare, smisero di frequentare Alicudi. Fummo costretti a un’altra settimana di vita selvaggia, una settimana che sembrò infinita. Anche l’emporio chiuse perché non riceveva più i rifornimenti da Lipari. Non pensavo più a mio fratello, ero invece contento che si stesse risparmiando questa incomprensibile esperienza. Io alla fine me la stavo cavando.
Gianni il fratello di Rosa, ragazzo bellissimo e fine, fotografo provetto che spesso parlava della sua vita a Londra, finì di leggere un libro e mi chiese se per caso non andasse anche a me di leggerlo. Lo accettai per cortesia, ero intontito e non avevo molta voglia di leggere. Mi sentivo già in una dimensione irreale, quanto oltre potevamo andare fuori di corpo e di testa? Ma lo accettai e lo tenni per un secondo momento. Poi un giorno cominciai a leggerlo e ne fui rapito. Era Confessioni di una maschera, di Yukio Mishima. Mai lettura fu “travaso più endovenoso ed effettivo” di quella. La distorsione causata da Alicudi era speculare alla distorsione che mi offriva il libro: parole da una differente epoca, una differente civiltà, una differente sessualità. Ancora una volta proprio il Giappone mi aveva raggiunto. Qualcosa si risvegliò in me, avrei voluto dire a tutti che a Napoli avevo un libro di giapponese e che in corpo avevo un mare di sillabe, che sapevo perfino dire qualcosa. Ma Alicudi aveva accuratamente sfilato via quella dimensione aggiuntiva della cultura come fosse una veste troppo vezzosa: qui i Paesi del mondo erano gli elementi. Parlavano, urlavano, picchiavano e questa lingua si parlava col corpo seminudo.
Prigionieri di Alicudi cominciammo tutti una dieta a base di capperi e fichi d’india. Eravamo tutti pieni di spine e quelle più invisibili e dolorose si sopportavano, sperando che non facessero infezione. Dopo il pasto, a turno e con la pinzetta di una delle ragazze, ci si toglieva le spine da lingua e gengive. E l’uno lo faceva all’altro. Resisteva una civiltà minima di mutuo soccorso che si occupava di un unico, anomalo, anello della catena: il dolore dell’alimentazione. Quanto dovevamo essere buffi e dolci se guardati dall’alto. Scimmiette.
La notte ad Alicudi era il nostro giorno. Il fresco ci rianimava e per certi versi la notte era luminosa quanto il giorno. Isolati su uno scoglio del basso Tirreno senza elettricità, il cielo di notte era chiaro e profondo, come non lo avrei mai più visto in vita mia. Era più il bianco delle stelle che il nero dell’abisso. La Via Lattea esisteva davvero ed era abbagliante e colorata… Perfino i percorsi sulle mulattiere erano agilissimi: il buio era una chiara certezza; di notte il pianeta stesso mi sembrava un’isola nel cosmo. Non era forse un mare quello che era in cielo? Poi d’improvviso, tutti stesi sulla spiaggia, una ragazza del gruppo ci chiede se anche noi non vedessimo qualcosa di strano in cielo. E sì. A ben vedere, prima uno e poi altri, il cosmo profondo era pieno di oggetti animati, non pulviscolo, non insetti, non aerei, non satelliti, non meteore… Uno, due, molti oggetti lontanissimi che navigavano la volta del cielo… Si spostavano fluidi e filanti ma poi si fermavano. Dopo una pausa tremolante sfilavano ancora via verso un diverso punto dello spazio, per poi ancora tremolare e magari scomparire dietro un orizzonte. Dopo qualche minuto di teorie, calò un rispettoso silenzio e non se ne parlò più, ogni notte avremmo visto quegli oggetti accettandoli come tutto il resto sconosciuto del cielo.
Una notte feci una passeggiata al molo, come per invocare la nave o per calmare il mare. La vecchia auto sbarcata sul molo era totalmente arrugginita nel giro di una decina di giorni. Il padrone le aveva anche lasciato i finestrini un po’ aperti come si usa in estate. La mareggiata e la salsedine se l’erano mangiata dentro e fuori… Alla luce della luna, fu una visione spettrale. Poi pensai al libro di Mishima che stavo leggendo: Giovanna d’Arco, San Sebastiano, l’amore per Sonoko… E ancora, agli oggetti volanti, ai bagliori verdastri del cimitero, ai mille gradoni di Alicudi che avevo salito e disceso. Poi ancora la visione, dalla poppa del traghetto, di Napoli che lentamente scivola via, la confusione della mia famiglia, la cravatta nera di mio padre. Mi sentii un buco nero e infinito in petto.
Tornai alla spiaggia e mi accucciai al mio posto. Mi sentii toccare con insistente dolcezza. Doveva essere Grazia, una ragazza di ventisei anni che mi aveva parlato poco ma che mi era sempre sembrata molto sorridente. In genere dormiva alle mie spalle. Che cosa voleva da un bambino come me? Mi voltai e invece era uno dei due Gianni. Lo mandai a quel paese, e lui a sua volta mi disse: - Ma che campi a fare? - Ottima domanda, pensai. Chiusi gli occhi per riposare un po’.
Quando li riaprii era ancora notte e avevo ancora il cielo stellato sopra di me. Stavolta il silenzio aveva una qualità diversa. Non c’era brezza e non c’era la voce delle onde, eppure il mare era a due passi, immobile, come congelato da un incantesimo. Ero sulla riva di una laguna circondato da palme basse, e più in lontananza da una vegetazione rigogliosissima. Agli occhi era tutto estremamente nitido, come se l’aria fosse stata risucchiata via dal mondo. Cercai di fare mente locale, era molto tardi nella notte. Poi mi toccai il petto d’istinto, nessun buco nero. Provavo una grandissima pace, un sollievo senza fine. Espirai profondamente, come per immettere un po’ d’aria in quel paesaggio così fermo. Poche ore prima avevo preso un passaggio in macchina da due ragazze, sulla strada costiera numero 6, da Yomitan-son. Erano passati diciotto anni dai tempi di Alicudi e adesso ero capitato in un villaggio dell’isola di Okinawa. Quanto era lontana Alicudi? Ci ero veramente stato? Cosa mi aveva portato fin qui? Mi sembrò di aver saltato da un’isola all’altra... Quasi non avevo più coscienza di tutto ciò che era accaduto tra le due isole, del mare di ricordi. Forse gli UFO di Alicudi erano proprio le immagini di persone che vivevano le loro vite, attratte da galassie irresistibili e sempre diverse. Mi voltai, una delle ragazze della macchina era stesa dietro di me, alle mie spalle. La guardai per bene, ed era evidente che aspettasse che le dicessi qualcosa. La tenni sotto agli occhi a lungo e poi, in italiano, per lei incomprensibile, dissi a mezza voce: la bella sconosciuta. Lei alzò spalle e sopracciglia.
- Come hai detto che si chiama questo posto? – le chiesi. - È bellissimo…
- Onna-son.
- Ma dài, “il villaggio delle donne”? Dici sul serio?
- No, si scrive diversamente. – e segnando nell’aria i tratti degli ideogrammi disse: - “On” è quello di “debito di gratitudine” e “Na” significa… risolvere?