L'aurora tra rosa e verde | martedì 2 settembre 2014
Alessandro W. Mavilio
I colori sono la filosofia
Dal mio punto di vista i colori sono la filosofia. Nel senso che i colori dello spettro visibile all’uomo sono una prima manifestazione prelinguistica – i colori sono la scomposizione della luce, nel senso più fisico e scolastico del termine come in quello metafisico.
Credo dunque che i colori, siano il primo, forse il secondo, vero fenomeno che abbia irradiato la mente umana, improvvisamente cosciente di sé stessa, poco dopo la sua ascesa dal mondo animale degli istinti di conservazione a quello umano di costante osservazione. I colori sono la prima scomposizione della esperienza della luce, della conoscenza innata e sovralinguistica: il senza forma, il senza nome, l’afono, per attingere a man bassa dal Tao Te Ching.
Se crediamo che “luce-coscienza” sia la prima e ultima ma anche eterna manifestazione dell’essere, al di là di vita e morte e di spazio e tempo (Bardo Thodol), allora i colori sono sia fisicamente che intuitivamente la grande unità già tagliata (ancora Tao Te Ching, ma cito a memoria).
I colori – ma primi tra essi il bianco e il nero – sono stati il primo immediato suggerimento di un mondo che promette infinita capacità di rivelazione, trasformazione ed evoluzione. Accennerei subito al fenomeno dell’iridescenza in Natura ma sarebbe qui un passo troppo ardito anche se molto vicino alle Northern Lights. Se dunque “il Tao è l’assenza (anche) di colore”, al primo taglio netto di questa formidabile unità ancestrale l’umanità conobbe e poi imparò a riconoscere, intellettivamente, il bianco e il nero, lo yin e lo yang, il maschio e la femmina e via dicendo. Le differenze fondamentali del mondo, in passato affidate alla gestione istintiva e risoluta della sottostruttura animale, debordarono certamente in una nuova area del comportamento che richiedeva osservazione, dunque tempo. Dagli effetti, certamente psichedelici (e li intendo in senso moderno), di questa prima fondamentale dicotomia cromatica non ci siamo mai più ripresi. Anzi, il mondo contemporaneo ancora si fonda su tale ingenua scoperta.
Riusciamo a immaginare “la vertigine da abisso” che i nostri antenati devono aver provato quando si rivelò dinanzi a loro la prateria ancora incontaminata dove i termini del vivere avrebbero… pascolato e si sarebbero poi moltiplicati? Un oceano certamente tutto uguale ma dove occorreva forzatamente imparare a nuotare: il mare del linguaggio. E quindi: il colore del dolore, il colore di me, il colore della fame… Certamente fu un’orgia sinestetica (o forse sinestatica?) che dovette innescare una discussione di importanza, profondità, durata e estensione bibliche. Che dura tutt’oggi.
Ovviamente questo mio approccio fa del senso della visione ottica il senso primario a cui riferirci ma, giusto per non lasciare incompleta questa intuizione, direi che se accettiamo la scoperta e il battesimo dei colori come il primo e urgente varo di una zattera della conoscenza nel mare dell’infinito conoscibile, pronunciabile, riconoscibile e tramandabile, allora certamente altre simili spedizioni sono salpate e ancora stanno navigando i mari dell’udibile, dell’annusabile, del toccabile. E barili pieni di nuovi termini regolarmente ci giungono dai quattro angoli del pianeta. Mi riferisco ai neologismi.
Cercherò però di limitare il discorso e con piacere abbraccio la discussione sulle aurore dei cieli del mondo.
Sono anche io un figlio di aurore rosate. Le trovo belle e rassicuranti. Quel rosa mi ricorda spesso il colore carnacino, il cielo che diventa forse un’immensa distesa di pelle… Ma sono da sempre anche un “nordofilo”. Ho avuto le mie avventure lapponi, ho più volte attraversato la Scandinavia – ma forse dovrei dire di avervi “strisciato” – e un filo invisibile continua a legarmi al Nord del mondo. Tuttavia non ho mai visto un’aurora nordica, se non in fotografia. Ma esaurita la meraviglia, direi che dovremmo porre le aurore nordiche tra altri fenomeni quali le colate laviche, le forti grandinate, le tempeste di fulmini. Non perché siano immediatamente pericolose, quanto per il fatto che portano con esse un carico di anomalia, e non a caso illuminano le lunghe, deprimenti notti subpolari.
È mia convinzione antica, fors’anche infantile, che lo spettro verde-marrone debba stare nel basso del quadro visivo, sotto l’orizzonte, e quello arancio-azzurro in alto. E quante volte, entrato in qualche edificio malsano, mi sono accorto di come la scelta di questi due spettri sia stata affidata al caso o alla mera disponibilità di materiale. Gli ospedali antichi, spesso con mattonelle azzurre o gialle che dal battiscopa salgono all’altezza del petto, per esempio. O certe scuole… Ohimè, poveri malati, poveri internati, poveri operai, poveri scolari. Quanti capogiri e quante ansie dovute forse a due colori mal assortiti, come se centinaia di migliaia di anni di vita selvatica fossero stati dimenticati con la stessa leggerezza di un’ubriacatura… E quante volte ho sognato che gli asfalti del mondo fossero verdi (o almeno ocra) e che i muri dei palazzi fossero nello spettro celeste.
Viceversa, ricordo che gli ambienti del servizio militare, sebbene insopportabili per le modalità della reclusione, avevano un’inaspettata proprietà calmante. E sempre ho pensato che fosse la dominante verde nel basso del quadro visivo.
Da uomo mediterraneo, credo con forza che ripetuti risvegli sotto una luce verde e con frequenti balenii non siano una condizione davvero naturale e sana.
L’uomo moderno nasce in un’Africa rigogliosa dai cieli misteriosi, forse anticamente molto nuvolosi e piovosi. Oggi quella stessa Africa è desertificata, ma i suoi cieli sono alti e tiepidi.
Il Nord di oggi offre un vividissimo verde in basso e cieli troppo spesso plumbei e aurore elettriche…
Credo dunque che Nord e Sud (ma sarebbe più corretto parlare dei cieli di antipodi e Equatore?) siano in una perfetta antitesi (preculturale, protoculturale e culturale) dinamica e concrescente.
E se da uomo mediterraneo credo che il Nord sia per il mondo ciò che per una casa è la sua soffitta, allora ne consegue che ci si debba recare generalmente per una visita veloce o un temporaneo isolamento… A cercare e raccogliere testimonianze di passaggi (vite) altrui imbevute di cieli alieni. E lo stesso sarà per coloro che sono nati nella soffitta. Da sempre scendono verso le nostre terre a vedere cosa esponiamo sulle bancarelle assolate.
Ma aldilà delle più facili immagini storiche o turistiche, la questione è se esistano, in virtù di tutti i cieli della Terra, due macro-pre-filosofie ancestrali che abbiano guidato, forse creato, la nostra capacità di tradurre il vedere quotidiano in un sistema di sensazioni, e poi sentimenti, tenuti miracolosamente insieme dal mastice delle lingue.
Credo di sì. Il cielo non è un telo di presepe. Con le sue bizzarrie meteorologiche, prove inconfutabili di insuperabile e instancabile maestria creativa e espressiva, il cielo è certamente stato e sarà una sorta di maestro e partner linguistico. Finché tutti insieme non si deciderà di partire e andare oltre di esso.