Squarci | giovedì 25 luglio 2013
Anna Pennaccione
La cuoca delle farfalle
Gloc gloc...
Dannato rubinetto, continuava a perdere. Trasse un profondo sospiro e con tutta l’aria di chi deve issarsi sulle spalle il peso del mondo, aprì gli occhi trafitta dal sole già alto su un nuovo giorno.
Già, un nuovo giorno. Sorrise amaramente pensando a dove si sarebbe recata di lì a poco; che senso aveva per il sole sorgere mentre, in una fredda e ferrea prigione dimenticata da un qualunque dio, si decideva il destino degli uomini come neanche le Parche avrebbero fatto? Rei sospirò mestamente nel porsi quell’interrogativo, chiuse la porta di casa con un colpo secco e si avviò alla fermata dell’autobus.
Era nervosa, come sempre prima di un incontro, si costrinse a riprendere il controllo. Anni e anni di quello strano lavoro e ancora non riusciva ad abituarsi, osservò le immagini offertele dal finestrino del bus puntando lo sguardo su questo o quell’albero. La concentrazione era fondamentale, aveva scelto lei quel lavoro? O il contrario? Non aveva mai saputo rispondere, l’unica certezza era l’imprevedibilità di quella roulette che era la vita. Percorse il breve tratto che la separava dalla sua meta con una calma esasperante, passo dopo passo, metodica e attenta come se sotto di lei vi fosse un campo minato. Resisteva, una samurai, un’amazzone piccola e fiera.
“Sono qui per Goldwin” l’uomo in divisa la squadrò per una frazione di secondo, poi replicò “Lei è la signora Blanchard?” “Sì”.
“Mi segua” le fece strada lungo un sudicio corridoio impregnato di puzzo di urina appesantito dall’afa di quell’estate “Sa, è raro che si richieda il suo servizio, nonostante questo, i miei colleghi l’hanno vista tutti almeno una volta. Ero curioso in maniera spasmodica, confesso. Com’è fare un lavoro atipico come il suo?” Rei fissò il suo interolocutore e con un tono velato di acidità rispose “Un lavoro come un altro. Com’è assistere alla morte di un uomo? Com’è vedere la vita scivolare via da un uomo, depositare un ultimo bacio leggero come un soffio e poi abbandonarlo?”. Se lo domandava da sempre, come facevano gli uomini a osservare inerti i deserti dell’umana carità bruciare? Non tollerava quel tono leggero e quell’area di strafottenza, proprio non le riusciva. Il tipo in divisa le lanciò una sguardo carico di risentimento, come se gli avesse appena urlato contro il viso che era una bestia , non le rispose e non le chiese più niente, la lasciò con il suo “cliente” e poi sparì dalla vista di quella donna fin troppo altezzosa.
Rei si accomodò in quella stanza asettica, a quel tavolo separato da uno spesso vetro, pronta a ricevere il giovane che aveva richiesto il suo servizio.
Fu sorpresa quando lo vide, non si aspettava un volto tanto giovane. La dolorosa evidenza nel constatarlo le provocò sgomento e disgusto, disgusto per il poco valore che spesso si dava alla vita. “Salve”, fece il giovane ,“Io sono John Goldwin. Lei è la signora Blanchard, giusto?” Rei annuì “Si starà chiedendo perché ho chiesto di lei, sarò onesto, mi ha sorpreso sentire di lei dai miei compagni di cella” una nota di amara ironia calò sulla parola compagni .
-“Sa come la chiamano qui da noi?”
-“No, come?”
-“La cuoca delle farfalle… Ne è sorpresa?” chiese lui notando lo stupore che si era palesemente dipinto in volto.
-“Sì, mi chiedo come mai, lei in grado di dirmi il motivo?”
-“Certamente, come lei saprà, alcune farfalle vivono solo un giorno dopo la metamorfosi. Il processo di formazione è però molto più lungo, dunque, per fargliela breve, le farfalle siamo tutti noi poveri diavoli col destino segnato. Mi hanno detto che di solito lei, prima di cucinare per noi l’ultimo pasto, ascolta racconti della nostra vita. Racconti che ci obbligano a fare un bilancio finale, ci fanno quasi nascere di nuovo, ci mettono in condizione di rientrare nel bozzolo per rammentare pezzi, frammenti, brandelli di tutto ciò che di umano ci apparteneva e abbiamo dimenticato. O anestetezzato in un angolo recondito della coscienza, ha capito cosa intendo. Le persone con cui ho parlato sostenevano che lei si servisse di questi racconti per decidere cosa servirci in seguito, inoltre, mai una volta che lei abbia domandato sul perché siamo qui. Se è così, per quale ragione non lo fa? E perché cucina per noi, quando potrebbe andare in uno di quei ristoranti d’alta classe? Non per farmi gli affari suoi, ma il compenso qui è pessimo…” .
Cavolo quanto parlava quel tipo! Sapere come veniva chiamata le aveva fatto gelare il sangue nelle vene, non si era mai vista così. “la cuoca delle farfalle”, quel soprannome inatteso le ronzava in testa e le sbatteva con veemenza contro le tempie, le doleva la testa. Fece uno sforzo per calmare il dolore e con il tono più pacato che riuscì a trovare disse “Non chiedo perché non è la parte corrotta di voi che mi interessa, il mio compito è cercare di allietare le vostre ultime ore. Vuoi sapere il perché dei racconti? Io non ho radici, non le ho mai avute, madre giapponese e padre francese, cresciuta in Italia e trapiantata in America. Prima di arrivare ad essere dove mi vedi adesso, ero una foglia gettata al vento, senza passato né futuro. Distruttiva e sempre in cerca di un appiglio, cucinare è l’unica cosa che mi è sempre appartenuta” – fece una pausa e trasse un lieve sospiro per spronarsi a continuare – “Sembrerà egoistico da parte mia, ma, mi nutro dei vostri racconti. Ognuno di voi, prima di andare verso l’obbligato trapasso, mi lascia qualcosa di prezioso e che io non ho mai avuto: ricordi stabili. Li prendo in custodia, come testimone di un vostro passaggio sulla terra. Sapere del perché siete qui, inquinerebbe l’idea che mi sono fatta del ragazzino che si arrampicava sugli alberi, o dell’uomo che ha abbracciato sua figlia con tanto affetto”.
Il ragazzo la guardò ammirato, lo sguardo limpido di quella donna sarebbe stata l’ultima cosa bella vista in questo mondo che tanto ama vendersi al miglior offerente. Sorrise suo malgrado e con sincero trasporto le disse “No, affatto. Trovo sia molto profonda come cosa, perché lo ha detto a me? Si trova qui solo da dieci minuti…”
-“Nessuno me l’aveva mai chiesto, tutto qui. Signor Goldwin, adesso, le dispiacerebbe raccontarmi qualcosa? Un qualche ricordo d’infanzia, un’immagine che le è rimasta impressa nitidamente nella memoria”. John restò con una mando sotto il mento, lo sguardo meditabondo e l’altra mano che tamburellava sul freddo tavolo. Aspettava che il ricordo lo colpisse in pieno, che arrivasse chiaro e reale. Eccolo lì. “ Un bambino stava scappando a nascondersi nel granaio, l’aveva fatta grossa, un uomo lo inseguiva perché aveva rubato una mela dal suo frutteto. Rossa, lucente e succosa, quanto di più buono avesse mai mangiato. Vedeva dalle fessure alle pareti del granaio il cielo del tramonto screziato di rosa, violetto e arancio, era proprio un bel posto, il migliore al mondo per quegli occhi tanto innocenti e fiduciosi, ma a volte aveva paura. Quell’uomo beveva molto e spesso sentiva delle grida e degli schianti provenire dalla sua camera da letto, la mamma piangeva e gridava…poi usciva come se niente fosse accaduto; cadeva spesso la sua mamma. Per le scale, in giardino, o magari sbatteva contro le porte. Quel giorno, il giorno della mela, fu la sua mamma a salvarlo. Quando l’uomo scovò il bambino , lei si frappose tra lui e quell’orco che, brandendo una cintura, stava avventandosi sul suo bambino. L’uomo inveì contro la donna, urlandole ogni genere di insulto, aggredendola con calci e pugni. Il piccolo vide la sua mamma afflosciarsi come una busta di carta vuota, il volto gonfio e scarlatto e non un alito di vita a scuoterle le membra. Il sole era tramontato”.
Rei era sgomenta, quanto dolore in quel racconto, quanta sofferenza e quanta infanzia rubata. Non le venne in mente nulla di più orrendo, l’uomo era una specie in via d’estinzione. La bestia quella in netta crescita, pensò che tutti hanno insito nel proprio animo un lato di quella bestia. L’abilità stava nel tenerla a bada e non lasciarla mai uscire, avrebbe divorato in un sol boccone la parte umana.
“Che ne è stato del bambino?”, John si riscosse dai suoi pensieri e con calma studiata rispose “Ha vissuto con quell’uomo fino a qualche anno fa, poi…” mosse l’indice sulla gola con un eloquente gesto.
-“Poi?”
-“Poi l’ha ucciso, ha vendicato sua madre. Quell’essere andava in giro dicendo che la donna, la sua donna, era caduta per l’ennesima volta e finita più volte con la testa contro le scale. Per anni accusò il bambino, sosteneva fosse colpa sua e della sua ingordigia: se non avesse preso la mela, la mamma non l’avrebbe difeso e lui non avrebbe dovuto punire quell’impertinenza”. Rei temeva di conoscere la risposta alla sua domanda successiva ma l’urgenza di sapere le premeva, “Dov’è il bambino ora?”- silenzio, solo la luce del neon col suo ronzare scandiva i secondi –“Qui, davanti a lei”.
Quando lasciò quel luogo si sentiva vuota, incorporea, come aveva potuto per anni non voler sapere niente riguardo le colpe di quegli uomini? Certo erano sempre crimini, sapere l’avrebbe però aiutata a conoscerli davvero e si chiese se lei che aveva tanto vissuto nell’omertà con coscienza, non fosse come tutte le persone che circolavano lì e le provocavano pura e selvaggia repulsione. Capì di dover cambiare, compiere un lavoro come il suo significava farsi carico di tutto, stava maturando pian piano e tutto nell’arco di un pomeriggio. Le era servita la franchezza di un giovane per conoscersi meglio e imparare ad accettare tutto di se stessa, mancanza di radici inclusa.
Tre giorni dopo John Goldwin lasciò questo mondo, l’ultima cosa che avevano toccato le sue labbra era stata una torta di mele, mangiandola era riuscito ad espiare le sue colpe e a tornare ragazzino. Riassaporò anche la dolcezza di sua madre, era tornato puro ed innocente. La cuoca delle farfalle l’aveva fatto uscire dal bozzolo e, in quell’unico giorno, l’aveva sfamato. C’era stato uno scambio tra esseri umani tanto diversi eppure così uguali, uno scambio tra soggetti smarriti che si erano magicamente ritrovati.