Squarci | domenica 22 gennaio 2006
Mauro Bergonzi
Il Monaco e il Pettirosso
Da quando l'avevano nominato aiuto-bibliotecario del monastero, il Monaco Dotto era al settimo cielo. Finalmente poteva immergersi indisturbato nella lettura dei polverosi manoscritti in cui gli Antichi avevano indagato i profondi misteri della natura.
Certo, egli non disdegnava la vita del monastero, la recitazione dei testi sacri che infondeva un'onda di devoti pensieri nella mente e la meditazione silenziosa, quando lo spirito riposava in se stesso per sondare i segreti del cuore. Da novizio aveva anzi praticato con fervore la meditazione silenziosa, traendone anche una certa soddisfazione; ma poi altri interessi avevano prevalso: dopotutto, che senso aveva starsene seduti tutto il tempo senza pensare a nulla? Com'era possibile apprendere qualcosa di nuovo da una testa ‘vuota’, senza pensieri?
Col tempo s'era convinto che il sapere degli Antichi, tramandato per secoli e secoli in libri ponderosi grazie all'accumularsi di esperienze fatte dalle menti più dotte dell'umanità, contenesse segreti capaci di spalancare le porte della vera conoscenza a chi ne possedesse la chiave. E il Monaco Dotto continuava diligentemente a studiare, bramoso di appagare la propria sete di conoscenza.
Le condizioni erano tra le più favorevoli, adesso. Come aiuto-bibliotecario, disponeva di molto tempo libero. Infatti le sue mansioni si limitavano a tenere in ordine i libri e riporre con cura negli scaffali quelli consultati. E siccome non erano molti, a quei tempi, i monaci che sapessero leggere - e ancor meno quelli interessati ad oziare in biblioteca - gli restava sempre molto tempo libero per i suoi studi. Inoltre, data la sua alta qualifica, era dispensato da parecchie di quelle mansioni - come per esempio aiutare in cucina, coltivare l'orto, predicare al villaggio, e così via - che di solito occupavano in gran parte la giornata degli altri monaci.
C'era un confratello, in particolare, che il Monaco Dotto aveva a volte distrattamente notato proprio perché sembrava il suo opposto. Svolgeva le mansioni più umili e frequentava solo tre luoghi, in cui il Monaco Dotto non metteva quasi mai piede: la cucina, l'orto e la sala di meditazione. Non lo incontrava mai né ai pranzi importanti, né ai riti svolti in pompa magna, e tantomeno in biblioteca. Il suo saio era pulito, ma tutto consunto: evidentemente possedeva solo quello. Le sue mani forti mostravano i calli dei lavori pesanti, però molto armoniosamente si ricomponevano nei periodi di meditazione silenziosa. Il Monaco Dotto dentro di sé l'aveva soprannominato 'il Monaco Analfabeta', perché - non avendolo mai visto leggere - nulla faceva supporre che fosse istruito. Per il resto, lavorava sodo in cucina o nell'orto, ma - mistero dei misteri - sembrava sempre molto contento di questa sua umile condizione.
Il Monaco Dotto, fortunatamente dispensato da occupazioni materiali, poteva invece immergersi per ore ed ore nella lettura dei manoscritti più preziosi e segreti, ricchi di arcane illustrazioni. L'ambiente della biblioteca era poi ideale: fresco d'estate, caldo d'inverno, sormontato da svettanti volte che garantivano luce sufficiente per leggere, ma non talmente intensa da turbare la concentrazione. Al di là delle ampie finestre ad ogiva, un bel panorama di campi e montagne dava spaziosità alla lettura, e la serena fiammella dei lumi ad olio accompagnava le silenziose ore della notte.
Unico rumore durante il giorno, oltre al frusciare della brezza fra i rami dei salici, era l'allegro cinguettìo degli uccelli. Il Monaco Dotto non ne era disturbato. Amava anzi questi esseri d'aria, leggeri e variopinti, le cui gaie inflessioni sembravano quasi parole di un magico testo scritto in cielo, da leggere e decifrare come i suoi polverosi manoscritti.
Tra l'altro, aveva fatto amicizia con un pettirosso, che tutti i giorni era solito affacciarsi timidamente sul limitare della finestra attigua al banco di lettura.
Era strano e misterioso, quel pettirosso. Il Monaco Dotto non riusciva mai a sorprenderlo nell'istante in cui giungeva. Quando si avvicinava l'ora dell'appuntamento, di tanto in tanto distoglieva lo sguardo dalla lettura per vedere se arrivava, ma non scorgeva mai nulla. Poi, all'improvviso, alzava di nuovo gli occhi ed eccola lì, sul davanzale, quella tenera palletta di piume variopinte, con la testina reclinata e due occhi acuti come spilli che lo fissavano neri neri. Che cosa pensava? Che tipo di comunicazione può instaurarsi - si chiedeva il Monaco Dotto - fra due mondi così diversi, che pure ogni giorno, per pochi istanti, s'incontrano, sfiorandosi appena? I suoi libri non gli davano alcuna risposta.
Immancabilmente, il Monaco Dotto a questo punto poggiava sul davanzale un seme di girasole. Uno solo, perché aveva notato che l'uccellino non ne accettava mai di più. Il pettirosso allora guardava prima lui, poi il seme, poi ancora lui, e infine, con movimento rapidissimo, prendeva il seme. Dopodiché se ne volava via per non tornare più fino all'indomani.
"Perché non viene mai due volte?" si chiedeva il Monaco Dotto, "Come può sfamarsi con un solo seme? Va a cercare cibo altrove? Tanto varrebbe tornare qui. Ma allora forse non è tanto il seme a interessarlo, quanto lo strano incontro tra due esseri così estranei e diversi?". Anche su questo non poteva trovare risposta nei libri, ai quali comunque il Monaco Dotto ritornava con rinnovato gusto dopo questa breve e piacevole divagazione.
* * *
Un giorno in cui tirava un vento gelido e tagliente, il Monaco Dotto si accinse a leggere uno dei testi più antichi e profondi, preso dagli scaffali chiusi dei libri preziosi e inaccessibili. Da lungo tempo pregustava questo momento. Accese il camino per riscaldarsi, chiuse le finestre da cui entravano spifferi glaciali, accese il lume - perché le nuvole nere e compatte avevano oscurato la luce del giorno - e tutto soddisfatto cominciò a leggere.
Il libro trattava delle strane creature che abitano l'aria, le nubi, gli abissi marini, le grotte e le oscure viscere della terra. Descriveva bizzarri funghi e cristalli che crescono solo in recessi mai rischiarati dalla luce del sole. Studiava il senso arcano celato nelle variegate venature di certe pietre nascoste in grotte profonde, passando poi a sondare il mistero dei princìpi ultimi della natura, il linguaggio segreto che ne regola il corso armonioso.
Il Monaco Dotto era talmente affascinato da questi argomenti, talmente assorto nella lettura, che nemmeno fece caso ai tuoni e ai fulmini dell'immane tempesta che intanto squassava la campagna intorno al monastero. La grandine cadeva fitta, picchettando sulle imposte della finestra chiusa.
Si sentiva ben protetto, lì al calduccio, con la luce del lume ad olio che arrivava giusto fino all'orlo della pagina illustrata da interessanti simboli ed arcane figure, lasciando tutto il resto sotto un protettivo ombrello di penombra che facilitava la concentrazione. Era talmente assorto nella lettura, da non poter certamente far caso, sotto lo scroscio dei chicchi di grandine sul vetro, a un più tenue, disperato picchiettìo dietro la finestra chiusa...
Lesse fino a tardi e poi, ancora tutto infervorato dalle riflessioni suscitate in lui dall'antico manoscritto, se ne andò subito a dormire.
* * *
Quella notte fece un sogno:
Camminava per l'orto con un libro prezioso sottobraccio. Man mano che avanzava, però, il libro si faceva sempre più grosso e pesante, quasi intrasportabile. Troppo gravavano gli ori e i gioielli che ne fregiavano la preziosa rilegatura.
A un certo punto, dovette fermarsi a prender fiato, e lì incontrò il Monaco Analfabeta che lo guardava tutto sorridente. Questi indicò la terra e disse:
- Anche le pietre preziose che adornano il tuo libro vengono dalla terra, sai?-
Il Monaco Dotto voleva replicare che il valore del libro non risiedeva negli ornamenti esteriori, ma nelle parole. Però, quando lo aprì per mostrarne il contenuto a conferma della propria asserzione, si rese conto che, per quanto si sforzasse, non riusciva a leggervi nulla. Quella scrittura gli era del tutto ignota, i segni e i caratteri non avevano per lui alcun senso; anzi, più li guardava, e più si facevano confusi, instabili, sembravano muoversi da soli, contorcersi, per trasformarsi infine in tanti vermi nauseanti, che ora stavano velocemente divorando tutta quella carta preziosa...
Con un gesto di ribrezzo, il Monaco Dotto lasciò cadere il libro al suolo. L'altro rise di cuore. Poi, sempre con quella sua aria cordiale e serafica, si accucciò a terra per indicare un punto dell'orto e disse:
- Vieni a vedere!-
Il Monaco Dotto si accostò un po' titubante e con meraviglia si accorse che lì c'erano tante cose da scoprire: sassolini di variopinti colori, fiammanti foglie rosse e gialle, un ciuffetto di tenera lattuga accanto ad una pozzanghera d'acqua, un nero lombrico lustro lustro che s'infilava per un pertugio sotto terra, e uno splendido fiore d'iris, che sbocciava proprio dove marcivano alcune foglie morte. Ed era come se tutto questo avesse un senso profondo per lui, come se fosse il linguaggio dimenticato di una scrittura antica e sapiente...
* * *
Il Monaco Dotto si svegliò accarezzato dai primi raggi del sole, che nasceva proprio allora in un cielo tersissimo come soltanto può esserlo dopo una tempesta.
Di buon umore, si recò subito in biblioteca a proseguire la lettura interrotta. Per far circolare un po' d'aria nell'atmosfera polverosa della sala, aprì la finestra e restò impietrito alla vista di un misero fagottello sul davanzale, ancora zuppo e tutto arruffato: era il suo amico pettirosso che non ce l'aveva fatta a superare la notte, sotto il freddo e la grandine della tempesta.
Il cuore gli si serrò in petto in una morsa di ghiaccio. Sentì come se dentro di sé qualcosa - non sapeva dire cosa - si fosse irrimediabilmente spezzato, come se il suo rapporto stesso con la vita fosse in pericolo. Si sentiva solo, senza forze, arido.
Ma perché, poi? Per una semplice bestiolina morta? Eh, si! Doveva ammetterlo, si sentiva anche un po' in colpa, perché sapeva bene che, se il giorno prima non fosse stato così avido di conoscenza ed assorto nella lettura, si sarebbe ricordato del suo piccolo amico là fuori, tutto solo e indifeso al freddo della tempesta e avrebbe udito il suo flebile richiamo di aiuto. Invece... Ma, dopotutto, lui era impegnato in qualcosa di molto importante, stava indagando i misteri più profondi della natura: in confronto a tanta scienza, che cos'è l'effimera vita di un insignificante pettirosso, come tanti altri destinato comunque ad una breve esistenza? Eppure...Eppure qualcosa dentro di lui stava gridando un'altra verità: che persino in un effimero pettirosso è presente la vita intera, con i suoi misteri più profondi...
Il Monaco Dotto rimuginava questi tetri pensieri mentre teneva in mano quell'ammasso di piume bagnate, ormai quasi incolore.
Decise di seppellire il pettirosso in un angolino dell'orto. Scavò una buchetta nella terra umida e scura e vi depose il suo piccolo, misterioso amico. Dopo averlo ricoperto, stava per andarsene quando sentì qualcosa nella tasca del saio: era l'ormai inutile seme di girasole che teneva in serbo per i loro incontri quotidiani e che aveva dimenticato di dargli il giorno prima. Soprapensiero, lo gettò sul mucchietto di terra appena smossa e se ne andò, cercando di dimenticare tutta la faccenda.
Ma qualcosa dentro di lui non dimenticava. Quando rientrò nella biblioteca, tutto era immerso nella penombra. I suoi passi eccheggiavano fra le volte. Rabbrividì e per la prima volta quel luogo tanto amato gli parve estraneo, freddo, vuoto. Si sentì solo.
* * *
Da quel giorno qualcosa cambiò in lui. Non riusciva più a concentrarsi nella lettura. Era come se, d'improvviso, i libri che leggeva non lo interessassero più come prima. Le meraviglie che descrivevano, i misteri che svelavano, gli sembravano ora tutte cose astratte, superflue, senza spessore, adatte solo alle polverose sale di ammuffite biblioteche. Ma a che serve tutta quella scienza, se non è nemmeno capace di capire il linguaggio e i bisogni di un pettirosso?
Svogliatamente, eppure quasi febbrilmente, il Monaco Dotto andava cercando nei libri qualche argomento che lo scuotesse, che riaccendesse in lui l'antica fiamma dell'entusiasmo. Ma invano. Qualcosa era veramente andato perduto.
Passarono i mesi, e il Monaco Dotto aveva ormai dimenticato il suo piccolo amico. Preferiva tenere la finestra sempre chiusa adesso, perché i rumori della natura lo disturbavano. Soprattutto il cinguettìo degli uccelli gli evocava qualcosa di vagamente spiacevole; a volte aveva come l'impressione che, con i loro suoni esultanti, quegli esseri felici si prendessero gioco di lui, al quale era preclusa per sempre la leggerezza del volo.
* * *
Un giorno che il Monaco Dotto camminava, come al solito, con la testa fra le nuvole, tutto assorto in tristi pensieri, nei paraggi della cucina andò quasi a scontrarsi con il Monaco Analfabeta, sognato (e dimenticato) tanto tempo prima. L'altro lo guardò, sorrise e, senza dir nulla, gli offrì un ravanello. In situazioni normali, il Monaco Dotto non avrebbe mai accettato del cibo dalle mani probabilmente sporche di un umile sguattero; ma questa volta, preso alla sprovvista, senza sapere bene nemmeno lui perché, accettò.
Il ravanello aveva un sapore fresco e frizzante, gli diede quasi una scossa salutare al naso. Lo svegliò. Anche lui sorrise e disse:
- Grazie -.
- Prego -, rispose l'altro, porgendogli una tazza di tè che reggeva con l'altra mano. Il Monaco Dotto bevve tutto d'un fiato: era caldo e corroborante.
- Grazie -, ripeté.
- Prego -, rispose l'altro, e aggiunse sibillino:
- La tazza è vuota, e per questo può riempirsi. Il mozzo è cavo, e per questo la ruota gira. Se la mente è vuota come il vasto cielo, che cosa mai non potrà contenere? Quale conoscenza le sarà preclusa? Allora, perché non vieni a meditare con me?".
Meditare? Da quanto tempo il Monaco Dotto non frequentava più la sala di meditazione! Aveva dimenticato persino la parola! Star seduto senza far niente e soprattutto senza pensare a niente gli era sembrato una totale perdita di tempo: come trarre conoscenza da una zucca vuota, che non contiene nulla? L'unica via era cercarla nei libri di chi sa. Però, vista la situazione quasi disperata in cui si trovava, visto che i libri gli sembravano ormai un mondo chiuso e vuoto, accettò l'invito di buon grado, attratto dal sorriso del compagno e dalla luce rassicurante dei suoi occhi.
Il Monaco Dotto sedette per più di un'ora, e fu come tornare a casa dopo un lungo esilio. Era come se tutte le ore passate da novizio in fervida meditazione fossero state dimenticate per un magico incantesimo ed ora tornassero a vivere nel presente, illuminandolo e prendendone a loro volta luce. Era come se la pace e il silenzio coltivati anni prima non fossero andati veramente perduti, ma, dopo un lungo letargo passato in un cantuccio, adesso, ancora freschi e delicati come allora, gentilmente riprendessero vita, aria e spazio nella sua mente. E tutto quello che aveva appreso, ecco che ora lo dimenticava. E tutto quello che aveva dimenticato, ecco che ora lo riscopriva come se fosse nuovo, come se lo incontrasse per la prima volta.
Comprese che il libro più meraviglioso, l'unico libro che possiamo veramente leggere, è ciò che la vita ci porge di momento in momento; che le azioni, gli incontri, i sentimenti, le cose che vediamo, udiamo, tocchiamo, sono parole di un linguaggio misterioso, che ci è dato di comprendere se solo il nostro cuore sa prestarvi attenzione.
Comprese che il fugace incontro quotidiano col pettirosso, l'incrociarsi degli sguardi, l'innocente atto di offrire ed accogliere, svelavano più sul mistero della vita che non tutte le parole di quei libri preziosi, capaci solo di indicare ciò che lui già aveva direttamente sotto il proprio sguardo.
Comprese che persino il desiderio di conoscere i misteri della natura, come tutti i desideri, ci chiude alla vita che bussa, ci chiude alla compassione e all'amore.
Comprese che la felicità dei giorni passati in biblioteca non era dipesa dagli aridi libri, ma proprio da quei piccoli incontri col pettirosso, attraverso cui il soffio della vita bussava discretamente alla finestra del suo cuore, per ricordargli che in ogni incontro sono racchiusi tutti gli incontri con gli innumerevoli 'altri' che si specchiano in noi, che soffrono e gioiscono con noi, in un dare e un prendere senza fine.
Quando riaprì gli occhi e si alzò, il Monaco Dotto era un altro. Guardò l'amico accanto a sé e quasi non lo riconobbe: come se gli fosse caduto un velo agli occhi, ora non scorgeva più le mani callose, gli abiti consunti, l'aria dimessa; vedeva piuttosto gli occhi intensi e profondi, la nobiltà del portamento, la luce del volto calmo e pacifico. Allora ricordò il sogno di tanto tempo prima e finalmente ne comprese il significato.
Ringraziò il nuovo amico con un profondo inchino ed uscì. Avvertiva il bisogno di respirare aria fresca, camminare sentendo la terra sotto i piedi, udire suoni gioiosi, recuperare il contatto con la vita attraverso le cose semplici e meravigliose di tutti i giorni. Come un bambino. Perché era un bambino, adesso. E aveva tante cose da scoprire, da imparare: cose che erano sempre state sotto il suo sguardo, ma che la meccanicità dei gesti abituali e la cortina dei pensieri gli avevano sempre celato. Si sentiva appena nato, e doveva imparare di nuovo a camminare su questo vasto mondo sconosciuto.
Prese il sentiero che conduceva all'orto. Nuvole candide veleggiavano maestose nel cielo sconfinato, quasi accecanti per la luce di quella tersa giornata. Il vento agitava le fronde dei salici e gli uccelli cantavano. Da quanto tempo non gioiva più del loro gaio cinguettìo! E come si sentiva grato di poterlo fare di nuovo! Da quanto tempo non percorreva quel bel sentiero? Come se per qualche ragione lo avesse inconsapevolmente evitato. Da quanto tempo? Ma si, da quando...
Arrivò all'orto col cuore che gli batteva forte - non sapeva nemmeno lui se di gioia o nostalgia - e guardò verso un angolo appartato dell'orto.
Un altissimo girasole dai colori sgargianti si ergeva come un inno di lode alla vita.