Squarci | martedì 14 agosto 2012
Vincenzo Cioffi
L'alba
Del mio ultimo respiro ricordo l'alba. Il balcone del secondo piano affacciava ad Est. La casa era stata costruita su di un piccolo terrapieno a ridosso di una collina. Il sole sorgeva lanciando bagliori arancioni sul mare. Uno spettacolo meraviglioso, la prima volta che lo vidi me ne innamorai. Avevo scelto il mare per la mia fuga. Un paesino costiero, con poche migliaia di anime, incastonato su due golfi.
L'alba mi aveva riportato a quel giorno, alla mia fuga. Allora l'amore era ancora qualcosa di limpido dentro di me e la vita era un caleidoscopio di emozioni. Lei mi tradiva e questo mi spezzava il cuore, ma non mi aspettavo quello che trovai in quella casa. Una famiglia, Luisa aveva una famiglia! L'avevo seguita per giorni e finalmente aveva trovato quell'appartamento. La casa era in un vicolo, al primo piano. Non ci avevo messo molto a convincere il portiere che ero un'amica di Luisa e che le stavo preparando una festa a sorpresa. Mi era bastato accavallare lentamente le gambe fasciate dalle calze nere e lasciare intendere che gli avrei lasciato una lauta mancia. Appena mi diede le chiavi in mano finsi una telefonata e uscendo in strada simulai una passeggiata nervosa finché lui non si distrasse, poi mi fiondai in una ferramenta e duplicai tutto. Tornai nell'androne e, restituendo la chiave, dissi al portiere che tutto era annullato. L'uomo sembrò visibilmente sollevato. Mi disse che non gradiva l'andirivieni notturno, dato che, con i tagli condominiali, di sera non c'era nessuno a far la guardia. Il portone veniva chiuso e attivati i citofoni esterni.
Aspettai il sabato notte, quando risse da bar e incidenti stradali tenevano occupate le forze dell'ordine.
Lei dormiva affianco ad un uomo. Lui morì dormendo, mentre un palmo di lama gli affondava nel cuore. Aprì gli occhi in un grido muto e lasciò la sua vita nella pozza rossa sul lenzuolo.
Luisa urlò, una sola volta prima di riconoscermi.
“Giovanna, cosa hai fatto?” Disse con la voce rotta dal pianto.
Ci vollero 21 pugnalate per farla tacere, 21 colpi per placare la mia ira. Tutto quello che rimase del mio amore era un cadavere martoriato ai piedi del letto matrimoniale.
Nel corridoio fuori dalla stanza una ragazzina mi guardava, avrà avuto al massimo 5 anni. Mi inginocchiai davanti a lei e le arruffai i riccioli biondi. Assomigliava al padre e non aveva colpe. Misi il coltello insanguinato ai suoi piedi e uscii. Con una sigaretta in bocca mi incamminai verso il sole che sorgeva.
Fino a ieri avevo convissuto con i sensi di colpa. La lettera aveva cambiato tutto. Era vergata in una calligrafia elegante e femminile.
“Cara Giovanna,
sono Cristina, la figlia di Luisa, vent'anni fa ci incontrammo, una notte, nel buio della mia vecchia casa. Non avevo memoria di quell'accaduto fino alla settimana scorsa, quando, leggendo un vecchio libro di mia madre, ho trovato una foto. Eravate voi due insieme e tutto mi è tornato alla mente. La mia vita, dopo tutto quello che mi hai fatto, è stata dura: analisi, case famiglia, ma devo dirti grazie. Grazie a te ho trovato la vocazione, all'età di 17 anni ho preso i voti ed ora sono la più giovane badessa del convento delle suore Paoline.
Spero che tu abbia perdonato te stessa per quello che hai fatto. Io l'ho fatto e il Signore, nell'alto dei cieli, avrà misericordia di te.
In fede.
Cristina.”
I nodi me li aveva insegnati mio nonno. Saltai quando vidi il sole sorgere, il cappio si strinse attorno al collo. Scalciai solo una volta mentre la vescica si rilassava con il sopraggiungere della morte. Appesa al balcone del secondo piano a vedere l'alba.