Squarci | martedì 14 agosto 2012
Vincenzo Cioffi
Dieci "Ave Maria" e un "Paternostro"
La puzza è la cosa peggiore, anche se in realtà non posso sentirla. Qui sotto ristagna, c'è solo una finestrella che fa prendere un po' d'aria, ma è davvero troppo poco. Non posso muovermi, ma conosco la cripta: vi si accede da un corridoio che spunta davanti alla teca di forma triangolare dove sono stipati alcuni amici, girando a destra c'è un piccolo corridoio tra due sbalzi di cemento che contengono la terra sacra. Il mio posto è l'ultimo in fondo a destra, tra le piastrelle blu.
Queste mattonelle nemmeno mi piacciono, ma la Signora Carmela ci teneva tanto. Diceva che così mi puliva meglio e si sentiva più a casa. La vedevo portarmi fiori e tenermi acceso un lumino. Ogni tanto mi diceva di proteggere Salvatore suo “che stava su a Nord” a far la guerra. Brava donna Carmela, se la prese una bomba mentre stava sopra all'aria aperta. La seconda guerra mondiale, molti si rifugiarono qui giù con me in quei tempi.
Ma se devo dire il vero sono sempre stato trattato con tutti gli onori. A differenza di molti altri riposo su un comodo cuscino e un velo mi tiene lontano gli insetti. Ora mi sto pure abituando ad essere chiamato Lucia. All'inizio mi dava fastidio, ho urlato e protestato inutilmente per anni.
“Mi chiamo Gaddo”
Con il tempo ci fai l'abitudine, un nome vale l'altro, non ha più senso oramai.
Arrivai a Napoli nel 1701 dal Ducato di Toscana, all'epoca avevo appena diciassette anni, ma ero un uomo fatto e formato.
Il mio primo assassinio fu un fornaio, che mi inseguì per la pagnotta che gli avevo preso dal banco. Tra viottoli e stradine mi ritrovai in un vicolo cieco. Il panetterie mi diede addosso, giù calci e pugni, pensavo che sarei morto quel giorno; invece riuscii a sfilargli il coltellaccio dalla cintola e lo affondai nel suo ventre più volte, non avevo più di otto anni, ma mi feci una fama. Fui al soldo di diversi signorotti per cui feci vari lavoretti, debitori, spasimanti indiscreti, persone scomode, passai molti uomini a fil di coltello lasciandogli un bel sorriso rosso sul collo. Avevo il rispetto, il desco non mi mancava mai e le servette, dai seni grossi e i fianchi larghi, non mi dicevano di no.
In quei tempi viaggiavo con padre Gregorio, la sua missione era portare le ossa di Matteo, figlio illegittimo di un funzionario dei re di Asburgo che viveva a Napoli. Mi avrebbero dato 20 scudi d'argento se fossimo arrivati sani e salvi. Accettai al volo; dovevo cambiare aria. Qualche giorno prima in una taverna, a causa di una donna che apriva troppo la bocca e ancor di più le gambe, avevo fatto fuori un tizio. Mi era stato detto che era l'attendente del Duca e che ora si chiedeva giustizia.
In viaggio eravamo in cinque: il prete, un servo giovane e rachitico, che troppo spesso divideva il letto con il sacerdote, una novizia che voleva prendere i voti tra le clarisse a Napoli, un grassoccio oste, che raggiungeva il fratello al porto per mettere su una locanda per marinai, ed io. Il viaggio fu lungo, ma tranquillo. Perdemmo l'oste in una locanda, il medico disse che si trattava di tisi, ci fece rallentare di una settimana; quando alla fine trapassò fu un sollievo per noi tutti, dispiacque solo alla fioriera in cui gettavo le medicine, i fiori seccarono presto e noi riprendemmo il viaggio.
Ecco che arriva Mariano, ogni giorno da almeno trent'anni viene a dirmi grazie. Non lo ferma niente. Pioggia, sole o vento lui c'è sempre. Mi porta dei fiori che l'umido della cripta fa marcire in fretta. Mi è grato perché la figlia Immacolata ha lasciato il pregiudicato eroinomane con cui stava prima e si è sposata con Gennarino, un onesto pizzaiolo. Non navigano nell'oro, ma almeno la famiglia non è dovuta entrare nel brutto giro della criminalità.
Si inginocchia ed inizia la sua solita nenia: dieci “Ave Maria” e un “Paternostro”.
Mariano non è il solo fedelissimo che ho. Oggigiorno non me ne sono rimasti tanti, ma fino a poco tempo fa c'era letteralmente la fila per me. Tra quelli attuali resta Mariaconcetta, con le sue settantacinque primavere, che viene almeno una volta a settimana e quando nessuno la vede mi inumidisce il velo con l'acqua fresca, per rinfrescare la mia anima al purgatorio, così dice lei. Poi sgrana il rosario di perle rosse della Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei ed inizia a recitare:
“Nel primo mistero...” e le consuete dieci “Ave Maria” e un “Paternostro”.
A Napoli mi adattai subito, un ricco mercante che aveva casa nei pressi del porto mi ingaggiò per difendere il deposito e scortare gli scaricatori che ci portavamo le merci. La paga era buona tanto da potermi permettere diversi piacevoli passatempi con le puttane più famose del molo. Fu questa la causa del mio stato attuale.
Dopo aver frequentato i bordelli per alcuni mesi, le ragazze ordinarie mi vennero a noia. Cercavo brividi nuovi dalle donne, iniziai così a provare donne più particolari. Rimasi estasiato quando la nana mi fece arrivare a urlare verso il cielo mentre mi montava e il solo pensiero della contorsionista che, mettendo le mani a terra e i piedi in aria, mi permetteva di prenderla in piedi, muovendo solo i fianchi, mi eccita ancora.
Fino a due secoli fa nell'ampia zona sotto la navata centrale della chiesa che mi sovrasta dicevano ancora messa. All'epoca era costume per i credenti adottare uno di noi e dargli la massima cura per poter poi un giorno riceverne grazie. Schiere di donne ci lavavano periodicamente e alcuni bambini erano incaricati di scegliere tra varie tibie e femori quelli che potevano essere i nostri.
A quei tempi la storia di Lucia iniziò a diventare leggenda ed ognuno aggiungeva particolari all'evento a suo piacimento. Divenne figlia unica del principe Ruffano Domenico d'Amore, costretta ad un matrimonio combinato, scappata e poi risposata all'uomo che amava, un vero macello. Però il culto restò e si intensificò nel tempo, fino ad assumere proporzioni inimmaginabili. Ma la verità è un'altra e molto più divertente.
Un giorno Donna Sofia, proprietaria di uno dei bordelli sulla strada, conoscendo le mie inclinazioni, mi disse che quella sera era arrivata una merce rara ed esotica. Su di una nave che portava spezie proveniente dall'Africa era giunta una ragazza dalla pelle nera come la fuliggine.
Non seppi resistere e, pagato quanto mi veniva chiesto, mi gettai nella stanza. La nera era poco più di una bambina e pianse per tutto il tempo senza guardarmi nemmeno in faccia. Ne rimasi molto deluso e mi ritirai.
Quella notte stessa fui scosso da tremiti ed ebbi la febbre molto alta. La mattina dopo a stento mi reggevo sulle gambe. Mi fu mandato un dottore che iniziò subito coi salassi, ma tutto sembrava inutile. In un brandello di lucidità dissi al medico.
“Donna Sofia, la puttana...nera...lei”
Il medico si presentò il giorno dopo con la ragazza di colore, che mostrava sintomi simili ai miei, ma molto più leggeri. Salassò entrambi per bene e ci diede estratti di digitale e vino caldo da bere. Inutile. Si pensò che fosse una stregoneria e quindi venne chiamato il parroco. Questi si convinse che la ragazza avesse dentro di sé Baal, demone delle pestilenze, così il giorno dopo tornò con tutto l'occorrente per portare avanti l'esorcismo. La bambina, terrorizzata dall'uomo vestito di nero che urlava in modo incomprensibile, si contorceva ed urlava e più lo faceva più il prete era convinto di stare nel giusto. Nell'apice del rituale il piccolo cuore della ragazza non resse e lei morì così, legata al letto. Il mio turno venne quella notte stessa, me ne andai con l'odore salmastro portato dal vento che entrava dalla finestra.
Il medico, pensando che potessimo essere infetti, decise di riservarci il trattamento degli appestati. Così su di un carro mortuario venimmo portati alla Chiesa di Santa Maria del Purgatorio all'Arco. Qui il gobbo addetto alla sistemazione dei corpi ci trascinò in una cripta dove ci conficcò un grosso chiodo nelle nuche, lasciandoci a penzoloni aspettando che il nostro corpo scolasse tutti i liquidi e non restasse che lo scheletro. Le nostre ossa furono buttate in una fossa con molte altre e per tanto tempo fu tutto buio.
Ora ci sono addirittura le visite guidate, centinaia di persone ogni giorno vengono qui giù e mi fissano nelle orbite vuote, annuendo sbalorditi a quello che le guide raccontano su di me. Qualcuno lascia una monetina o un piccolo pegno. Archeologi e antropologi mi hanno studiato a lungo, cercando di ricostruire la mia storia. Forse sono arrivati vicino alla verità o comunque hanno di certo capito che, in realtà, io non sono quello che tutti dicono io sia. Oramai però il mito è più forte della realtà ed io non tornerò mai più ad essere Gaddo.
Non so quanto tempo fosse passato prima che rinascessi come Lucia. Un giorno mi trovai a guardare negli occhi vispi di una bambina bruna. Una voce da qualche parte diceva:
“Brava sì, il Signore mi sta dicendo che quella che hai preso è una principessa innamorata.”
La voce era quella del prete, zio della ragazzina, ad ogni teschio che raccoglieva aggiungeva dettagli alla storia.
“Quella è la sua serva.” gli sentì dire mentre prendeva un altro di noi.
Alla fine il prete convinse la bimba che la principessa avrebbe voluto che lei giocasse con il gingillo tra le gambe dello zio. Mentre noi osservavamo immobili.
Qualche tempo dopo la bimba tornò, questa volta con la madre a cui raccontò la storia della principessa. La signora ne chiese conto al fratello, che per non rischiare la scomunica, confermò tutto dicendo che aveva dato ordine affinché venisse preparata un'apposita nicchia, dove mettere i due teschi.
Così nacque la storia che mi porta qui oggi, venerato e riverito come se fossi una principessa. Vicino a me un intero abito da sposa fa capire alle persone io chi sia. Ma la verità è un'altra: io sono Gaddo, tagliagole fiorentino, morto per colpa di una puttana nera come la fuliggine.
Ora recitate dieci “Ave Maria” e un “Paternostro”.