Squarci | martedì 3 luglio 2012
Vincenzo Cioffi
Amabili fantasmi
“Buongiorno!”
La stanza era di quelle antiche, soffitto altissimo e due aperture nei muri, una finestra e un balcone.
“Buona journat Peppì, comm staj? T'è passat a toss?”
Il balcone affacciava su un frutteto, composto per la maggior parte di limoni ed arance, il terreno si stendeva ai piedi di un dolce pendio collinare, ricoperto di una folta macchia mediterranea.
“Sto bene Gennaro, e tu? Come ti senti oggi?”
La finestra dava sul giardino posteriore, una siepe di rose fungeva da recinto ad un rettangolo di terra, non più di quattro metri per nove, in un angolo un'enorme mimosa si ergeva imponente. Era lì da circa 2 secoli, il mio trisavolo lo aveva piantato per onorare la memoria di sua madre: Onna Mimosa. Il nomignolo le era derivato dall'usanza di portare un rametto della pianta nei capelli.
“ma tu t' sient Peppì parli italiano a fin du munn, nun fa comm e mè, a te papà t' ce mann a scola, vacc' nennì.”
“Sì, Gennaro non ti preoccupare, lo sai a scuola ci vado sempre.”
Nella stanza c'era un letto, messo in trasversale sotto la finestra, di fronte ad una vecchia televisione in bianco e nero. Sul muro opposto, alla destra della porta d'ingresso, si appoggiava un vecchio divano, rattoppato e con le molle sfondate. Sulla terza parete c'era un armadio di rovere, mangiato dalle tarme, scricchiolava ritmicamente, sembrava cedere da un momento all'altro.
“t'hanno mai ritt a storia e chill'omm chillu che jett a guerr a Troj? Quann zappav du professor mo cuntav semp stu fatt' tu 'o canusc'?”
“La storia di Ulisse, il re di Itaca!”
“Quann aropp a tant'ann s'arritiraj a cas' nisciun 'o canuscett pecchè parev nu viecch”
“Gennaro, la storia è andata così: Ulisse, 'o rre, stava presso la corte dei Feaci, i rre e natu paes, e raccontava la sua storia. I Feaci, quas chiangen, lo portano alla sua isola. Atena, a ddea, lo trasforma in un vecchio, accussì nun s'è canuscev, torna a casa dalla moglie e nessun lo riconosce così accir tutti quelli che stavano là pa' mugliera soja.”
“Si, ma comm se fa a nu canoscer a nu cristian quann o vir? Peppì io pur se t' vec tra cient'ann t' canosc' semp'”
“Ci sono certe malattie che...”
La faccia rugosa dell'uomo si contrasse in un'espressione di dolore, per un attimo negli occhi castani un lampo di lucidità si accese, veloce come una scintilla e scomparve altrettanto rapidamente. Guardava fuori, verso il mare, lontano dietro la curva dell'orizzonte si stendeva Napoli, sotto lo stesso cielo terso. I capelli candidi stavano prendendo un lieve colorito giallo. Alzò lievemente un braccio, tremava vistosamente, ed indicò un punto lontano, al di là delle sue reali capacità visive.
“chillu rre, Ulisse, 'o canuscev Napul'?”
“Si, ma quella è un'altra storia, avrai tempo domani di ascoltarla.”
“Peppì addò vaj? Sagli 'ncopp addu papà? Va' va' vir comm sta”
“Vabbene Gennà io vado allora, a domani”
“Statt buon”
Uscito dalla stanza mi abbandonai su di una sedia. Mio fratello mi raggiunse poco dopo.
“Come sta oggi il nonno?”
“Pensava che fossi zio Giuseppe, te lo ricordi? Quello che è morto da piccolo per la tubercolosi, c'è la foto nella stanza da letto al piano di sopra, quella con il nonno con il fucile in spalla e la beccaccia in mano, tiene il braccio sulla spalla di un bambino basso e con le occhiaie profonde, hai capito?”
“Sì sì”
“Morì pochi giorni dopo quella foto, il nonno ha sempre pensato che fosse colpa sua, del fatto che lo avesse portato a caccia.”
“Questo non lo sapevo”
Mio fratello aprì la porta della stanza, il vecchio all'interno si girò e guardò mio fratello.
“Giacomì e tu che c' fai ca'?”
Guardai il viso di mio fratello, zigomi alti, mascella squadrata, gli occhi verdi luminosi.
“Ti tocca il cognato oggi, mi raccomando!” Gli dissi.
Mi alzai e andai verso la pesante porta di legno intagliata. Mentre aprivo mi voltai un'ultima volta indietro.
“Se ci riesci, raccontagli la leggenda delle sirene.” Poi chiusi il battente.
Il nonno morì quella notte, con il sorriso sulle labbra e un’espressione serena.