Squarci | domenica 24 giugno 2012
Vincenzo Cioffi
I casi della vita
Aaron sedeva su uno scomodo sgabello da bar. Davanti a lui, sul legno macchiato da liquore e vomito, un bicchiere old time pieno di bourbon. Nel liquido marroncino l'ultimo cubetto di ghiaccio andava lentamente a fondo, come la sua vita; ma con meno danni. Indossava i suoi classici jeans stinti e una camicia a grossi quadri, bianchi e verdi, leggermente sgualcita, infilata nei pantaloni tenuti fermi da una cintura di pelle nera con un fibbia argentata rettangolare, decorata con incisioni in rilievo di uno scorpione e una bottiglia di tequila.
La barista gli rivolse uno sguardo ammiccante, in un'altra vita avrebbe impiegato non più di dieci minuti per convincerla a farsi una sveltina nel vicolo dietro al bar. Ma non quella sera. Se si guardava alle spalle non vedeva altro che stronzate del genere, fatte in posti simili e con compagnie diverse. Sempre i peggiori degli ambienti in cui si trovava: per natura non riusciva a stringere rapporti con persone che non avessero un passato burrascoso, una collezione di scheletri nell'armadio e un paio di squilibri mentali. Quella vita volgeva al termine, lenta e inesorabile.
Al bancone c'erano solo due astanti, lui escluso. Un energumeno, panciuto e nerboruto, con un vistoso tatuaggio sul bicipite: una pin-up seduta sopra un teschio; dall'altro lato, una ragazza riccia beveva una birra direttamente dalla bottiglia, lanciando di tanto in tanto occhiate annoiate all'orologio e alla porta. Aspettava qualcuno. Un altro sbandato che evidentemente aveva deciso di darle buca, e per lei sarebbe stato meglio così, dato il genere di persone che si incontra in bar come quello. Meglio perderli che trovarli, tipi così.
La barista lo fissò di nuovo, accennando un sorriso malizioso. Labbra coperte da un sostanzioso strato di rossetto troppo sgargiante, come quelle, spinsero Aaron ad abbassare di molto il tempo stimato per potarsela a letto.
«Ti posso aiutare in qualche modo, gioia?» gli disse, avvicinandosi.
Lui per tutta risposta si alzò e si diresse a passo lento verso la toilette. Non aveva bevuto abbastanza e sapeva che trovarsi faccia a faccia con uno specchio sarebbe stato un brutto momento di autocoscienza, ma poiché dover spiegare alla ragazza troppe cose su di lui sarebbe stato altrettanto difficoltoso e autobiografico decise di limitare al minimo i contatti umani Si fermò davanti allo specchio ed esaminò il riflesso: capelli corti, scompigliati e barba di un giorno gli davano un'aria da duro. Le occhiaie profonde, tipiche di chi ha bevuto troppo e dormito troppo poco, lo rendevano il cliente perfetto per quel tipo di bettola.
Si spruzzò dell'acqua in faccia e guardandosi ancora disse: “Sorridi, uomo finito, il peggio è la morte!”.
Tornò sui suoi passi, ma all'uscita dalla porta la situazione era cambiata: il grosso tizio si era avvicinato alla ragazza e le aveva cinto le spalle con il braccio tatuato. Le sue intenzioni erano chiare e lei non sembrava voler cedere alle sue avances. La mente di Aaron iniziò una veloce stima della situazione... Il tipo era almeno due volte più robusto nonché più alto di lui, e l'aria di chi è avvezzo alla rissa da bar: uno che non ti stupirebbe se tirasse fuori dai suoi pantalacci lerci un coltello a scatto o un butterfly, o peggio una pistola. Ma Aaron aveva tirato di boxe e anche con un certo successo; data la visibile ebbrezza del suo avversario, forse anche un po' grazie al bourbon che lui stesso aveva mandato giù, giudicò possibile una vittoria.
Nel momento in cui la mano del molestatore si posò sulla coscia della ragazza e ne iniziò la risalita, capì che il momento di agire. La sua reazione fu subitanea, tutto il suo corpo era proteso in avanti pronto a uno scatto che sarebbe culminato in un diretto al volto dell'uomo con tutta la forza e la spinta che poteva ottenere. Ma prima di lui agì la ragazza. Sfilandosi agilmente dalla presa alle spalle assestò un calcio piazzato dietro al ginocchio dell'assalitore. E quando questi fu genuflesso, tenendogli le mani dietro la testa, gli sferrò una ginocchiata in pieno volto, rompendogli il naso. L'uomo si alzò e barcollò verso l'uscita con la vista annebbiata dall'alcool e dal sangue, le mani a coppa sul volto e coperto di vergogna.
Aaron esclamò: «Grande il tuo karate!».
«È krav maga» gli sorrise la ragazza. Poi gli fece cenno di sedersi affianco. Lui accetto l'invito e chiese a gesti alla sbigottita barista un altro giro di drink.
Lou e Mary stavano assieme da un anno. Quella sera era la loro sera. Lou era venuto a prenderla con il suo furgone. Lei si stava ancora preparando, per farsi attendere e desiderare. Si era sistemata i capelli neri in due codini ai lati della testa, infilato una mini di jeans con l'orlo sfilacciato e una T-shirt con un motivo psichedelico. Una perfetta figlia dei fiori, proprio come piaceva a Lou, anche se lei si era stancata sia di quella vita da hippy sia di lui, più che mai intenzionata a lasciare entrambi (solo non vedeva il motivo di farlo subito, perdendosi la sorpresa che lui aveva detto di averle preparato).
Alla fine stabilì di esser pronta e uscì. Appena si fu seduta, lui mise in moto il Volkswagen e imboccò la strada per il parco. Giunti a destinazione, Lou parcheggiò sul promontorio che affacciava su tutta la città, ma ignorò il panorama davvero mozzafiato. Passarono sul retro del furgone. Lui prese da una ghiacciaia un pacco da sei birre, ne staccò prima una per lei, poi ne tenne una per sé. Rimise in fresco le altre. La guardò. Seduti così, a gambe incrociate, Mary iniziò a chiedersi per quale dannato motivo si fosse messa con quello lì. Non era certo bello, con i capelli lunghi da rasta e la faccia di eterno bambino. Un tipo, di sicuro, ma bello no.
Tutta quella menata della vita anni Settanta, poi, era davvero ridicola. Dietro la movimentazione e la guerra sociale c'era la carta di credito dei suoi: la madre primario di un clinica privata, il padre talentuoso avvocato difensore di criminali e taglia-gole. Sicuramente non il migliore esempio di proletariato. Tra gli altri difetti, Lou aveva pure un'ossessione morbosa per il sesso, la quale – fosse stata aiutata almeno da una dose di abilità – non sarebbe stata nemmeno tanto male; tuttavia a letto lui era una frana e, anche se dotato, era comunque un imbranato.
Un paio di volte, da quando stavano lì seduti, l'aveva visto fissarle gli slip. Intuiva che prima di consegnarle il suo regalo, qualunque cosa fosse, lei avrebbe dovuto accontentarlo. Decise di essere arrendevole. Non aspettò oltre e aprì le gambe di fronte a lui. Piantò i talloni a terra e flesse le ginocchia in modo da far prendere alle mutandine quella piega sexy che mostra lembi di pelle poco accessibili, di solito, alla vista. Lou armeggiò con la patta e appena fu libero dai vestiti si spinse su di lei. Scostandole appena i vestiti la penetrò spingendo con tutta la forza delle sue anche. A ogni assalto il respiro di lui diventava più forte; lei decise di estraniarsi concentrandosi solo sui brividi di piacere che le arrivavano alla mente, finché non fu annebbiata dall'estasi.
Margaret sedeva su di uno scomodo sgabello da bar. Davanti a lei, sul legno macchiato da liquore e vomito, una bottiglia di birra. Da quando la barista l'aveva stappata non aveva bevuto nemmeno un sorso, ma solo finto di farlo. Da quando era entrata in polizia aveva imparato diverse cose.
Regola numero uno: stare in un bar senza bere o con un bel bicchiere d'acqua davanti era come entrare a sirene accese e pistola spianata. Quindi fingere era molto più appropriato, dietro una bottiglia scura in modo che nessuno potesse accorgersi del trucco. Lasciava che il liquido bagnasse le labbra, poi posava la bottiglia e deglutiva. Semplice, efficace e anonimo, esattamente ciò che le serviva. Regola numero due: il tuo abbigliamento dice chi sei. Comodo jeans nero, top abbinato, giacca di pelle abbottonata all'ultima asola in modo da nascondere la fondina laterale con la pistola. Vestiti adatti per una ragazza che ha accalappiato un uomo che frequenta quei bar. \\\\\\\\\\\\\\\
Al bancone con lei altre due persone. Le analizzò per vedere se costituivano una minaccia, un impiccio o si trattava di semplici clienti. Nel posto più lontano da lei sedeva uno, al novanta per cento camionista o biker. L'uomo sfoggiava un vistoso tatuaggio sul braccio, un donna seduta sul teschio, un ottimo disegno fatto di sicuro da un professionista e un altro più piccolo e quasi sbiadito dietro l'orecchio: un asso di picche... di certo un tatuaggio da carcere, a significare che al gabbio si era fatto riconoscere come uno forte, da portargli rispetto. Il tizio poteva costituire una minaccia, ma era al quinto o sesto bicchiere e non avrebbe avuto comunque la lucidità e la destrezza di sopraffarla.
Nel posto più vicino a lei c'era invece un ragazzo, aria da duro, abiti casual ma di buona marca. Di solito ceffi così che frequentavano quei bar erano di due tipi: uomini legati in qualche modo al crimine, magari agenti esterni o consulenti, oppure falliti cronici. C'era anche la possibilità che fosse un collega, venuto con la stessa sua idea. Decise di tenere d'occhio il tipo e cercare di inquadrarne meglio la posizione.
Ripassò a mente il fascicolo dell'uomo che aspettava: Ramon Suarez, origine sudamericana, incriminato per spaccio internazionale di droga, omicidio premeditato, concorso in attività terroristiche, traffico internazionale di armi, uomo dei cartelli colombiani con contatti con la famiglia Reinosa. Quella sera Margaret era là per sperare di incontrarlo, quel bar era di proprietà di Suarez e ovviamente rappresentava una facciata per affari molto più loschi. Una soffiata del loro uomo all'interno gli aveva rivelato che era in arrivo un grosso carico di armi ed esplosivi: il suo obbiettivo, ora, era adescare Ramon e una volta riuscita a entrare nelle sue stanze avrebbe cercato qualche informazione sul luogo e sull'orario della consegna.
A servire dietro al bancone c'era una dai capelli biondi tinti e il trucco pesante, palesemente attratta dal ragazzo seduto a poca distanza da lei. Aveva tutta l'aria di una ragazza sprovveduta, illusa dalla vita e finita a servire in quel posto per poter tirare avanti. Continuava a mangiarsi con gli occhi il nuovo arrivato. Margaret era sicura che se lui l'avesse chiesto, quella si sarebbe lasciata prendere sul bancone davanti a loro. Gli disse qualcosa, ma lui si alzò e si diresse a passi lenti verso il bagno.
Le mensole su cui erano poggiate le bottiglie erano fissate a uno specchio che in questo momento rimandava la sua immagine. Si guardò, aveva i capelli rossi mossi pettinati con la fila nel mezzo, gli occhi verdi evidenziati da un sottile strato di trucco, non sembrava affatto una piedipiatti. Ai lobi portava orecchini a filo di argento lavorato, al collo un piccolo ciondolo con uno zircone. Il suo aspetto le aveva creato dei problemi durante il primo periodo in polizia, i colleghi tendevano a non prenderla sul serio e a cercare di scoparsela. Aveva dovuto raggiungere un numero record di arresti e rompere la mascella a uno stronzo di collega che pensava di poterle toccare il seno e andarsene impunito.
Il camionista si alzò dal suo posto e iniziò a caracollare verso di lei, lo sguardo arrogante. A ogni passo sentiva più forte l'odore dei guai che si confondeva con l'afrore di lui, un misto di gin e sigari. Arrivò a cingerle le spalle e con la voce cavernosa e impastata dall'alcool le sussurrò all'orecchio: «Ti va di divertirti, piccola?».
Fece un lunga pausa per inspirare una boccata dal suo sigaro, poi riprese: «Ho una stanza nel motel qui affianco, sali che ti regalo la notte della tua vita, bambina».
Margaret non era per nulla preoccupata da quel tipo. Fin da bambina, il padre, colonnello dell'esercito, le aveva fatto prendere lezioni di krav maga, lo stile di lotta da strada a cui sono addestrati i corpi speciali dell'esercito israeliano.
«L'uomo che ti fa aspettare non ti merita, tesoro» continuò l'omone poggiandole una mano sulla coscia, per poi farla risalire lentamente. Lei partì d'istinto: si sfilò dalla presa alle spalle e assestò un calcio piazzato dietro la coscia, diretto sul nervo ischiatico, con la precisa intenzione di farlo inginocchiare. La cosa le riuscì con facilità. Poi, tenendogli ferma la testa, sferrò una violenta ginocchiata alla spina nasale fratturandogli l'osso frontale. L'uomo si alzò barcollando e si diresse verso l'ingresso, dolorante e stravolto.
«Grande il tuo karate!» le disse, guardandola con rispetto, il ragazzo di ritorno dal bagno.
La ragazza sorridendo gli rispose: «È krav maga». Poi lo invitò a sedersi, grata di poter parlare con qualcuno per ingannare l'attesa. Tuttavia si vide costretta a rifiutare l'offerta di un altro drink...
Mary e Lou erano seduti sui sedili anteriori. Lui le aveva chiesto un pompino proprio lì davanti perché, stando alle sue parole, voleva godere di lei e del panorama assieme.
Mary odiava far sesso orale con lui, che aveva la stramaledetta abitudine di tenerle una mano dietro la testa e spingerlo fino in fondo, fin quasi a soffocarla. Ma quella era la loro sera e lei voleva il suo dannato regalo.
Lou guardava le luci della città davanti a lui attraverso le palpebre semichiuse, mentre brividi di piacere gli percorrevano il ventre piatto e la spina dorsale. Adorava quando lei lo faceva e non riusciva a capire perché facesse sempre tante storie. Ma quella sera voleva il pacchetto completo e non avrebbe accettato un “no” come risposta. E poi le aveva preparato una sorpresa che l'avrebbe sballata di sicuro, quindi la sua richiesta era più che giustificata.
Mary gli sentì dire: «La tua sorpresa è laggiù amore mio» un attimo prima che il caldo fiotto amaro le arrivasse in gola costringendola a mandar giù quella roba disgustosa.
Elise era in piedi dietro al bancone del bar. Davanti a lei sul legno, macchiato di liquore e vomito, i drink di tre clienti. Lei non doveva essere al lavoro, grugnì. Quella avrebbe dovuto essere la sua serata speciale con Frank... Che cosa era accaduto?, si chiese, lottando con ricordi ostili e sanguinanti.
Tornò indietro di qualche ora e si rivide... Aveva già preparato tutto, sarebbe andata a casa sua presto, prima che lui smontasse dal cantiere, e gli avrebbe preparato il suo piatto preferito: maccheroni al formaggio cotti al forno. Poi si sarebbero stesi sul letto e dopo qualche coccola, lei avrebbe sfoggiato il suo nuovissimo babydoll. E chissà che non fosse quella l'occasione per sentirsi finalmente chiedere in moglie...
Alle undici di quella mattina aveva comprato tutto l'occorrente, presa la metro per raggiungere il suo appartamento, bussato alla signora Teresa, l'inquilina del piano di sotto che teneva le chiavi di riserva. La vecchia con il suo bel sorriso le aveva dato la chiave, poi le aveva offerto un the perdendosi nel raccontare un po' di storie dei suoi tempi.
Quando la memoria fece una pausa, riuscì a liberarsi e salì al piano di sopra. Girò la chiave nella toppa, richiuse con cura, ma sentì un rumore provenire dal salotto. L'appartamento era al buio, perché tutte le imposte erano state calate. Un altro rumore. Ebbe paura, si fece forza. Si avviò cauta verso il salotto, aprì la porta sperando non cigolasse e... si trovò di fronte la faccia di Frank con gli occhi socchiusi e grondante sudore. Stava in piedi, affannato, dietro quella troia della figlia della signora Teresa, sbattendosela di gusto.
Trattenne a stento un conato di vomito, poi il tempo parve collassare, rallentando innaturalmente. Lui la mise a fuoco e, quasi saltando, si scostò da lei, balbettando. Lei alzò la testa gridando, lui la fissò ansimando ancora. Lui tentò di avvicinarsi con l'erezione ancora evidente; lei, ruotando il busto, scagliò la busta della spesa contro la sua faccia...
Lui urlò qualcosa, lei urlò qualcos'altro. Poi andò via di corsa sbattendo la porta e scagliando a terra tutto quello che trovava sotto mano. Non voleva rivederlo mai più, quindi aveva chiesto a Susy di cambiare turno e poter lavorare quella sera. Preoccupata dalla sua voce concitata, la sua amica aveva accettato senza chiedere spiegazioni.
Elise passò per casa prendendo la strada vicino al fiume. Ferma lungo l'argine si slacciò la collanina con il pendente a forma di cuore, l'arrotolò attorno al cellulare e scagliò tutto nell'acqua. Una volta a casa, divelse letteralmente il telefono dal muro e chiuse fuori il mondo. Poi indossò la sua divisa di lavoro e raggiunse il bar con discreto anticipo e un intento: tradire quel bastardo di Frank col primo uomo passabile che fosse entrato nel locale.
Ahimè, la serata non si preannunciava però delle migliori. Il primo cliente a entrare fu un tipo grosso, probabilmente un camionista. Aveva una T-shirt nera sbiadita coperta da un gilet di jeans e un pantalaccio pieno di tasche e tasconi. Era brutto e sembrava un poco di buono, ma si sedette al bancone e ordinò una tequila. La tracannò d'un fiato, ne chiese subito un'altra. Elise era un po' spaventata da quell'uomo e non vedeva l'ora che entrasse qualcun altro lì dentro. Dopo qualche minuto la porta si aprì di nuovo e arrivò un ragazzo, massimo trentacinque anni. Bello.
Lei ammise che avrebbe volentieri portato a termine con lui la serata. Gli sorrise e prese il suo ordine. La terza cliente fu una donna molto attraente. Elise quasi immediatamente la odiò: rappresentava una minaccia ai suoi intenti e non voleva che l'unico maschio decente fosse attratto da lei. Quella però ordinò una birra e rimase sulle sue.
La barista guardava il ragazzo, concentrato sul suo bicchiere quasi come se dentro ci potesse trovare le risposte alla vita. Alla fine decise di farsi avanti. Si avvicinò a lui con il suo sorriso migliore e sporgendosi sul bancone, in modo da mostrare la sua generosa scollatura, chiese: «Ti posso aiutare in qualche modo, gioia?».
Per tutta risposta quello si alzò e con passi lenti si diresse verso il cesso, lasciandola basita. Non l'aveva degnata nemmeno di una risposta, andando via senza dir niente. Senza manco guardarla. Furibonda, pensava a un modo per fargliela pagare, quando la sua attenzione fu catturata dall'energumeno che, bofonchiando qualcosa, si era alzato dal suo posto puntando la ragazza. Elise intuiva quando una cosa stava per finire male e quella situazione ci stava andando vicino. Ramon le aveva insegnato come risolvere queste cose. Nel vano sotto la cassa sonnecchiava un revolver di grosso calibro. Al primo accenno di rissa non doveva far altro che prenderlo e puntarlo contro il pericolo, facendo scappare via tutti, ma senza fare del male a nessuno. Cercò di avvicinarsi alla pistola, ma prima che potesse prenderla vide la ragazza riuscire a stendere il tipo, volteggiando per aria con strane mosse.
Fu allora che il bel ragazzo uscì dal bagno esclamando: «Grande il karate!» o qualcosa del genere.
E fu subito dopo che la ragazza bella sorridendo gli rispose: «È krav maga» o qualcosa di simile.
Poi lo sconosciuto le fece segno di portare un altro giro di drink, ma la tipa tosta rifiutò scuotendo il capo. In quell'esatto momento Elise capì di aver perso la sua conquista.
Lou mise l'erba nel grinder a forma di palla otto nera, e iniziò lentamente a girare. Stacco un pezzo di cartone dal pacchetto di sigarette e lo arrotolò a cilindro. Prese una sigaretta e leccò lungo la striscia di chiusura. Strappò la carta e si mise il tabacco in una mano, mentre con l'altra riapriva il grinder. Fece cadere l'erba insieme al tabacco, mischiando al meglio con le dita. Estratta una cartina, sistemò il miscuglio e poi, con estrema praticità, iniziò a rullare. Quando accese lo spinello, il primo tiro gli inondò la bocca del sapore dolciastro e il fumo inondò l'abitacolo del furgone. Infilò la canna tra anulare e mignolo, chiuse la mano a pugno e poggiò l'altra intorno in modo da creare una chiusura ermetica. Accostò la bocca all'apertura formata da indice e pollice e aspirò forte: il fumo confluì nei suoi polmoni troppo velocemente e fu scosso da un colpo di tosse. Poi girò la pipa improvvisata verso Mary, che a sua volta fece un lungo tiro. Per lei quella serata stava andando troppo per le lunghe, e ora stava cercando le parole adatte per dirgli che tra loro era tutto finito. Stava quasi per mettere in mezzo il discorso quando Lou, aspirata un'ultima boccata, disse: «È ora di andare, prendiamo il tuo regalo».
Girò le chiavi, mise in moto il furgone e si diresse verso la città, che lentamente scivolava verso il sonno.
Bruce sedeva sopra uno scomodo sgabello da bar. Davanti a lui, sul legno macchiato da liquore e vomito, la bottiglia di tequila. La barista l'aveva lasciata piena, ma oramai ne rimaneva poco più di un bicchierino. Dalla notte precedente tutto nella sua vita sembrava andare a puttane. Stava sull'interstatale con l'autocisterna, grazie al nuovo lavoro del cazzo che danno agli ex galeotti, per reintegrarli nella società. Stronzate. Guidava tranquillo pensando ai fatti suoi, convinto di riuscire a ricontattare al più presto gli amici del vecchio giro per rimettersi in affari, per ritornare ad essere Spades il duro e non più Bruce il camionista. Quando abbassò lo sguardo sul quadro vide la spia del check accesa, danni a quella carriola. Sperava di non doversi fermare per quell'imprevisto e premendo l'acceleratore a tavoletta continuò per la sua strada. Poi il dannatissimo telefonino aziendale iniziò a squillare, con quell'irritante motivetto della compagnia telefonica; lasciò che andasse avanti per un po', e quando finalmente rispose dall'altro capo della linea si sentì la voce metallica di Jasmine: «Il computer di bordo ha inviato la segnalazione di guasto. Controlli il quadro e mi dica se la spia arancio con la chiave inglese è accesa».
Il sì fu laconico.
«Bene, cioè no. Le sto inviando sul navigatore l'indirizzo di un motel sovvenzionato dove potrà posteggiare la vettura e attendere domattina l'arrivo del servizio tecnico.»
Sai che palle pensò, una nottata in una stanza di merda, dodici ore di ritardo e chissà quale altra rottura di coglioni. Seguì le indicazioni fino al motel, stranamente il posto non era sull'autostrada, ma in centro città. Non sembrava affatto adeguata a poter ospitare "la sua vettura", dato che si trattava di una autocisterna di duemila litri piena di gas metano. Era ancora a cinquecento metri dall'albergo quando vide un uomo che, sbracciandosi, faceva segno di seguirlo. Inforcò la strada che gli indicava e poi il viale privato; e scoprì che alle spalle della strada c'era un larghissimo spazio tra un bar e il motel adibito a parcheggio. Guardandosi intorno non vide altre macchine. Posteggiò nei paraggi del bar, scese a sistemare le formalità con il ragazzo che gli aveva indicato la strada, che era anche il portiere. Chiese la sveglia per il mattino seguente, salì a vedere la stanza, quindi decise che un drink lo avrebbe rilassato, e si avviò al bar.
A quel bancone c'erano altri due clienti, barista a parte. Aveva voglia di scopare e la tipa in jeans non sembrava affatto male. Anche la barista aveva qualche numero, ma gli ricordava quella troia di Amber e non voleva finire di nuovo dentro per una donna. L'altro tipo era uno stronzetto di città, uno di quei cazzoni che pensano di essere cazzuti perché sanno dare qualche pugno o si sono sballati uno o due volte. Voleva vedere se si tirava la tipa su in camera, una donna del genere per stare in un posto come quello o era una facile o una mignotta. In ogni caso non doveva essere difficile. Si versò l'ultimo goccio di tequila e accese il sigaro, guardò di nuovo la sua preda, si preparò ad andare dalla ragazza. Proprio in quel momento anche il ragazzo si alzò per andare al cesso.
Bruce le cinse le spalle e le sussurrò all'orecchio: «Ti va di divertirti, piccola?».
Attese che lei gli rispondesse o che almeno di voltasse a guardalo, ma sembrava che facesse la preziosa. Tirò una boccata dal sigaro e aggiunse: «Ho una stanza nel motel qui affianco, sali che ti regalo la notte della tua vita, bambina».
La tipa sembrava persa nei suoi ragionamenti o forse si trattava di un silenzio-assenso. In ogni caso decise che era meglio svegliarla a modo suo.
«L'uomo che ti fa aspettare non ti merita, tesoro...» disse poggiandole la mano sulla coscia e iniziando pian piano a farla risalire. Questo avrebbe di certo svegliata la principessa sul pisello.
La reazione fu immediata. Sentì un forte impatto contro la sua coscia che lo spinse in ginocchio, poi vide l'ombra che si abbatteva sulla sua faccia. Il sapore del sangue caldo in gola lo soffocava, lo vide scivolargli dal labbro e cadere a goccioloni sul pavimento. Con la mano si coprì istintivamente il naso. Sapeva quando considerarsi sconfitto e quella era di sicuro una sconfitta. Si avviò barcollando verso l'uscita con la vista appannata dal trauma. Non si voltò indietro e con la mano sulla maniglia fece per uscire.
Lou guidava verso la periferia della città, conosceva le strade a menadito e la sua guida era piuttosto spericolata. Si avviavano verso un luogo poco frequentato della città, quasi all'imbocco dell'autostrada, dove non c'era nulla a parte qualche bettola e uno squallido motel. Il panorama all'esterno dell'abitacolo mutava lentamente: gli alberi e il verde accanto al parco avevano ceduto il posto alle vetrine dei negozi e alle insegne luminose del bar, con il popolo della notte impegnato nella sua movida, poi a cancelli di fabbriche e magazzini, qualche barbone che dormiva agli angoli, l'illuminazione che si faceva più rada.
Mary si chiedeva cosa diamine potesse mai esserci per lei in quel sobborgo che assomigliava sempre più a una discarica a cielo aperto. Non poteva scegliersi un ragazzo normale? Uno che le comprasse un braccialetto o una collana, magari un anello..., perfino una cena romantica al ristorante sembrava meglio che sesso, birra e canne dentro un furgone, con la promessa di un regalo che proprio non immaginava.
All'incrocio, il mezzo prese una strada che costeggiava un motel e si infilò in un parcheggio ricavato nello spazio posteriore tra un bar e l'albergo affianco. Il posto era deserto a parte una grossa autocisterna. Lou parcheggiò lontano dal bar.
«Aspettami qui, io vado dietro a preparare un po' di cose» disse a Mary con fare misterioso.
Si infilò nel retro del furgone e iniziò ad armeggiare con qualcosa. Dal rumore che faceva, sembrava vetro; poi si sentirono degli strappi, come di stoffa, e un puzzo oleoso di benzina. Mary non prestava molta attenzione, concentrata sulle parole da dirgli per scaricarlo del tutto; Lou, dal canto suo, era troppo preso ed eccitato. Aveva cercato per mesi il luogo e l'orario adatto.
Ora era tutto pronto.
Dall'autoradio uscivano a volume altissimo le note di Samba pa ti. Con il braccio poggiato al finestrino, la sigaretta in bocca, Ramon pensava a come concludere in fretta quell'affare. Carlos gli aveva consegnato il miglior lanciarazzi in commercio: un RPG con tanto di munizioni, che faceva gola dai Narcos alla Mala, per non parlar dei Talebani. E ora stava lì, nel bagagliaio del suo grosso SUV nero, aspettando che un negro del cazzo venisse a comprarlo per fare strage di una banda rivale.
Lui non aveva sensi di colpa. Per lui la vita umana aveva sempre un prezzo: quella sera era centomila in contanti. Avrebbe fatto lo scambio nel parcheggio del motel, ecco il motivo per cui aveva comprato il bar lì vicino, un parcheggio incassato tra i palazzi, senza telecamere e poco trafficato. Ci si vedeva di rado qualche autocarro, qualche vettura degli sfortunati clienti dell'albergo, o il furgone di ragazzi eccitati che scopavano ubriachi, fumati o impasticcati. L'acquirente si chiamava Lawrence, un tipo tosto che era stato dentro già due o tre volte: omicidio... lesioni... pare che una volta avesse mozzato la testa del capo della banda rivale e l'avesse esposta nel parco giochi dove giocavano i figli del tipo. Esattamente non il tipo di uomo che vorresti far aspettare o incazzare.
Spinse sull'acceleratore. Mancavano pochi chilometri al posto dello scambio e, prima di trovarsi davanti a un grosso negro assassino figlio di puttana, voleva farsi almeno un drink o due. Svoltò la macchina all'incrocio, imboccò il viale del parcheggio. Quella sera, notò, una grossa autocisterna sostava accanto al retro del bar e un furgone era parcheggiato dall'altro lato. Posteggiò tra i due veicoli a ragionevole distanza da entrambi: la cisterna copriva la visuale dalla strada e questo giocava a suo favore; per l'altra macchina non si preoccupava, se avessero deciso di mettere fuori la testa al momento sbagliato, avrebbe pregato il cliente di occuparsene e tutto sarebbe andato per il meglio.
Sentì voci provenire dal bar. In più la coppia parcheggiata lì avanti stava di certo litigando. E non c'era molto tempo... Doveva risolvere tutto e consumare entro dieci minuti al massimo. E questo, di per sé, bastava a farlo incazzare come un bue castrato...
Mary era saltata nel retro del furgone. Lou aveva tre bottiglie piene ai suoi piedi, colme di benzina e tappate con un pezzo di straccio imbevuto.
«Cazzo fai, Lou?» gli ringhiò contro.
«È il tuo regalo, amore. Stasera puniremo uno di questi cani capitalisti che inquinano con i loro sporchi SUV l'aria che respiriamo tutti!»
«Ah tu sei pazzo, uomo! Vorresti far saltare una cazzo di macchina? Per farmi un regalo?!»
«Sicuro, baby. Sarà il nostro battesimo del fuoco!»
«Fanculo Lou, tu e le tue idee del cazzo!»
«Mary...»
«Io ti lascio, figlio di puttana! E pensare che ti ho preso quel coso in bocca sperando in chissà quale regalo. Stronzo!»
«Amore, aspetta. Ascoltami.»
Uno stridor di gomme annunciava l'arrivo d'un'auto a velocità sostenuta.
«Dammi solo una possibilità, ti scongiuro. Assisti allo spettacolo e se dopo vorrai lasciarmi, e andare per la tua strada, non sarò io a fermarti. Per favore, Mary.»
Lei ci pensò su. Fosse andata via adesso, avrebbe dovuto attraversare a piedi tutta la città a notte tarda e da sola. E la curiosità di vedere cosa cazzo avrebbe combinato stava prendendo il sopravvento...
«D'accordo, fa' la tua cazzata. Ma poi riportami a casa e non farti mai più vedere né sentire. E giusto per la cronaca, quello che stai per fare è per te, non per me, bastardo egoista.»
Lui annuì. Poi infilò il passamontagna e prese una delle bottiglie incendiarie. Uscì dal furgone, s'acquattò nell'ombra, raggiunse l'auto. Attese.
Quando il guidatore scese dall'abitacolo, dirigendosi verso il bar, tese i muscoli e si tenne pronto.
Ramon era a meno di due metri dall'auto quando con la coda dell'occhio intravide una scintilla. Si girò di scatto, estraendo la pistola dal retro dei pantaloni. Quando vide uno col viso coperto che aveva in mano una specie di molotov, e puntava la sua macchina, senza pensare prese la mira e fece fuoco.
Lou era prontissimo. Tirò fuori la zippo e accese la miccia. Lanciò la bomba, ma in quell'istante sentì due tuoni violenti provenire dalla notte vicina a lui. Una sensazione di vuoto lo colpì allo stomaco e sentì il petto andargli a fuoco. Il grido Viva la revolucion! gli morì in gola. Poi ci fu un fragorosissimo bianco.
Margaret scattò non appena sentì gli spari. Sfoderò la pistola e intimò agli altri di mettersi al riparo. Corse verso l'uscita posteriore, mentre la porta si spalancava sotto la spinta di Ramon che correva paonazzo con la pistola in pugno, bestemmiando qualcosa tra i denti. La donna sparò un colpo netto che prese lo spacciatore in mezzo agli occhi e lo spedì schiena all'aria, quindi prese la via della porta da dove veniva la luce rossastra di qualcosa che bruciava. Nel parcheggio vide il SUV nero in fiamme e lì accanto un ragazzo steso in una pozza di sangue. Il suo cervello lavorava in fretta per ricostruire l'accaduto. Prese il cellulare per chiamare squadra medica e pompieri. Compose il numero d'emergenza e alla voce della centralinista diede il suo grado e matricola. Il tono della sua voce bastava a tradire l'urgenza della chiamata. Quando sentì la prima esplosione capì che l'auto non avrebbe retto a lungo. Stava all'altezza dell'autocisterna, quando scorse la cosa luminosa che viaggiava a velocità folle verso di lei. L'esperienza fu veloce a farle riconoscere di cosa si trattava e l'istinto le suggerì che ormai era spacciata. Una lacrima le scese sul viso mentre pensava: «Testata HEAT standard: il materiale esplosivo concentra la sua forza esplosiva su di un rivestimento interno generalmente di rame che durante l'esplosione si frammenta, fonde e genera un getto sottilissimo e incandescente con lo scopo di sfondare la corazza...».
O meglio, questo sarebbe stato il pensiero completo, se avesse avuto il tempo di pensarlo. Perché se le testate montate sui vecchi sistemi RPG sono troppo piccole per danneggiare i mezzi corazzata, sono abbastanza forti per sfondare la cisterna piena di gas a pochi passi da lei.
Non ci fu rumore, non sentì l'esplosione. Fu come se mani invisibili le strappassero ogni filamento di carne pezzetto dopo pezzetto, faceva male, ma non poteva urlare. Tutto fu rosso e scomparve.
Mary non voleva nemmeno guardarla quella scena. Giocava con il suo cellulare. Sentì due forti boati e vide la luce prodotta dal fuoco. È tutto finito, pensò, mentre si girava a guardare l'auto. Non scorse Lou, ma in compenso vide partire qualcosa dal bagagliaio del SUV. Era veloce e infuocato e non le piaceva per niente, poiché sembrava venire verso di lei. Una stella cadente rasoterra.
Aprì la portiera e si gettò fuori dal furgone. Sentì un forte odore di carne bruciata e un senso di freddo per tutto il corpo, poi si impose di spingere le sue gambe al limite, ma non sembravano voler rispondere. Colse la vampata di fuoco che le si avviluppava intorno come le spire di un serpente. Il suo corpo si consumò piano nell'abbraccio di quelle fiamme.
I tre rimasti nel bar non capirono molto di quanto stava accadendo intorno a loro. Elise gridò e si accasciò sul bancone quando la tipa sparò al suo datore di lavoro. Aaron cercò di aiutarla saltando dietro al bancone per sostenerla, mentre il grosso energumeno dalla porta faceva retro-front per capire cosa stava succedendo. La prima esplosione fu piccola e pensarono fosse un altro colpo di pistola. Aaron affidò la barista al camionista e si diresse verso la porta da dove era scomparsa Margaret. La seconda esplosione fu più forte, e per un istante i tre si guardarono negli occhi. Bruce, come se si risvegliasse da un lungo sonno urlo con quanto fiato aveva in corpo: «Cisterna, Gas!».
Ma era tardi. Il missile aveva già centrato il bersaglio, facendo esplodere ogni cosa.
Nessuno di loro sentì le sirene dei soccorsi e dei vigili del fuoco.