Squarci | giovedì 7 giugno 2012
Valerio Bruner
Qui usa avarizia il suo soperchio
L’inverno non sarebbe stato clemente quell’anno. Se lo sentiva nelle vecchie ossa che scricchiolavano in maniera inquietante ad ogni passo che faceva. Gli era stato consigliato di restare a letto, sotto le calde pellicce che l’avrebbero difeso dal freddo pungente, ma non voleva. Nessuno avrebbe mai potuto capire che solamente in quella stanza all’ultimo piano della torre avrebbe trovato la cura ai suoi malanni.
Ormai trascorreva più tempo là che non nelle altre sessantadue che costituivano la sua residenza. Era una stanza non troppo grande, le cui fredde pareti di pietra a stento erano riscaldate dai ceri infilati nei pesanti candelabri in ferro battuto posti agli angoli della sala. Non poteva rischiare di accendere un focolare lì dentro, sarebbe stato troppo avventato. Era meglio indossare un pesante mantello foderato di pelliccia che mettere a repentaglio il contenuto di quella stanza nella torre occidentale.
Come faceva tutte le mattine si era alzato di buon’ora, aveva desinato rapidamente e si era avviato ansimante verso quegli stretti scalini in pietra malamente illuminati. Gli avrebbe fatto comodo avere un braccio amico al quale appoggiarsi – gli anni cominciavano a farsi sentire – ma non avrebbe permesso a nessuno di varcare quella soglia, mai. Arrivato in cima, infilò la chiave nella serratura e aprì la porta in legno rinforzato che lo separava dalla sua unica fonte di felicità. Tutto era ancora al suo posto. Accese le candele, sbarrò la porta e si sedette soddisfatto ad ammirare i suoi tesori.
Forzieri ricolmi di monete d’oro e argento erano ordinatamente disposti lungo la parete alla sua sinistra, un dono del capitano Ramón - comandante della Grazia Divina - che li avevi sottratti ad un veliero pirata abbordato al largo delle coste del Regno di Cipro. Sul lato opposto erano accatastate una decina di botti in legno di rovere che contenevano il succo delle pregiate vendemmie che ogni anno gli venivano inviate dalla Provenza. Costituivano la sua riserva personale e nessuno, tranne lui, poteva assaggiare quel delizioso nettare dal colore scuro e dal sapore corposo. Sul pavimento aveva elegantemente disposto preziosi tappeti in lana e seta provenienti direttamente da Gerusalemme. Appese alla parete c’erano le spade più preziose e raffinate che i fabbri del Regno di Castiglia potessero forgiare: topazi e pietre preziose incastonati sul pomo, impugnature in cuoio trattato e lame affilate sulle quali erano stati incisi complessi motivi a spirale. E poi splendidi arazzi raffiguranti scene di caccia, croci in oro massiccio incastonate di smeraldi – dono di Olaf III di Danimarca, quadri riccamente incorniciati che ritraevano episodi dalla
Bibbia e dai Vangeli - opera dei migliori pittori italiani - tessuti dal lontano Impero dei Tartari, arpe finemente lavorate in oro bianco e argento dall’Irlanda, corone e diademi dall’Inghilterra, distillati di malto dalla lontana Scozia e ancora anfore, sculture, pellami, tinture e volumi elegantemente rilegati.
Nonostante vivesse nel lusso e possedesse terre e ricchezze incommensurabili, nulla valeva quanto i tesori presenti in quella stanza. Erano la sua gioia più grande: esemplari rari o addirittura unici, donatigli dai suoi più fedeli seguaci e a volte rubati per lui da chissà quali luoghi remoti, macchiati del sangue di chissà quali principi o nobili. Non se ne sarebbe privato per niente al mondo.
Li ammirò estasiato per l’ennesima volta, traendo piacere dai giochi di colore che la luce delle candele creava sull’argento, sull’oro, sui rubini, sui topazi, sugli smeraldi. Un tripudio di colori vorticanti che rendevano quelle fredde mura un luogo caldo e accogliente. Lì, almeno per un paio d’ore, dimenticava gli affanni dell’età e delle responsabilità che gli gravavano sulle spalle. Odiava leggere le lettere e i messaggi che gli arrivavano ogni giorno riguardo le condizioni di fame e di miseria nelle quali vessava il popolino e detestava ancora di più allontanarsi dalla sua residenza per fare visita ai vari re, conti e vassalli che lo pregavano di onorare il loro desco con la sua presenza. Tutte quelle portate che gli servivano, le parti migliori della cacciagione, il frutto più maturo del raccolto, il dolce più delicato delle cucine, tutto questo non aveva per lui alcun significato: ciò che non si poteva stringere tra le mani non aveva nessun valore.
Qualcuno bussò alla porta distogliendolo bruscamente dalla sua contemplazione estatica. “E’ quasi ora Vostra Grazia” disse una voce in tono stridulo. Sentì i passi allontanarsi e solo allora si alzò riluttante dalla sua poltrona in morbido cuoio rosso dai bordi finemente istoriati in oro e argento. Si avviò verso la porta, ma prima diede un’ultima occhiata ai suoi tesori. “A più tardi miei diletti. Mi mancherete” disse mentre infilava e girava la pesante chiave di metallo nella serratura. Aprì la porta e discese a fatica i ripidi gradini che conducevano alla sala principale dove lo attendevano quattro ragazzini in tonaca bianca che lo avrebbero aiutato nella vestizione.
“Quale passo devo leggere oggi?” chiese a Monsignor Della Corte, un grasso prelato dall’espressione porcina.
“La parabola sull’avarizia e il ricco stolto, se vi compiace” disse quello porgendogli un vecchio volume divorato dalle tarme “è periodo di Natale e i fedeli devono essere istruiti alla carità e all’altruismo verso i poveri e gli ammalati.”
Odiava sopra ogni cosa quella domenica del mese quando la Basilica apriva le porte alla plebe sporca e ignorante che acclamava a gran voce il suo nome invocando su di sé la sua benedizione. “Dammi qua. Finiamo al più presto questa farsa” disse quasi strappando di mano il Vangelo dalle mani di Della Corte.
E così, nell’anno del Signore 1251, Innocenzo IV – centottantesimo discendente di Simone detto Pietro e rappresentante di Dio in terra– si avviò a passi lenti e biascicati verso la porta che conduceva all’altare maggiore della Basilica di San Pietro.