Squarci | martedì 22 maggio 2012

Valerio Bruner

Ossessioni

Ideolipsía
Non riuscivo a smettere di pensare a lei. Era un chiodo fisso che non mi concedeva un attimo di tregua. Di notte l’angoscia diventava insostenibile. Mi abbandonavo sul letto, sperando che nessun sogno fosse venuto a tormentarmi ma, come l’inconscio prendeva il sopravvento sui sensi, la vedevo abbandonarsi alle carezze di un uomo senza volto, mentre con le gambe gli cingeva la vita, gemendo di piacere. Ahimè, fosse stato solo un sogno, lo avrei sopportato, ma purtroppo i desideri della marchesa di Dubois erano più che reali. Durante il Carnevale in particolare, quando ogni porco di Venezia si sentiva in dovere di infilarle qualcosa sotto le sottane al grido di “SEMEL IN ANNO LICET INSANIRE” (una volta all'anno è lecito impazzire).
Non che la cosa mi disturbasse più di tanto s’intenda, d’altronde tutta la ridicola commedia umana ruota intorno a quell’effimero attimo che dura il tempo di un orgasmo. Dunque, se un povero diavolo voleva raggiungere quell’attimo servendosi della marchesa, lo appoggiavo pienamente. Ciò che realmente mi indisponeva era che mai, nemmeno una volta, quella donna mi avesse guardato con la stessa cupidigia che riservava al ragazzo delle cucine o che mi avesse fatto mostra della stessa lascivia con la quale si appoggiava allo stalliere, chiedendogli di aiutarla a “montare in sella”. Rivolgeva sguardi ammiccanti anche a quell’oligofrenico di Padre Ballarin, fingendosi contrita ogniqualvolta entrava in confessionale, sapendo che il pio curato non avrebbe dormito la notte all’udire i suoi peccati carnali. Persino quell’omuncolo di suo marito, l’ultimo nella lista dei suoi amanti, poteva avanzare il diritto di penetrarla, un diritto che doveva durare ben poco visto lo scarso desiderio che l’anziano marchese nutriva per tutto ciò al di fuori dei suoi preziosi legionari romani in lega di stagno e piombo. Guardando quegli uomini non vedevo altro che rozzi animali sempre pronti ad accoppiarsi. “Mentecatti” riflettevo “non potete nemmeno immaginare quanto profondo ed intenso possa essere il piacere di una donna paragonato al vostro”.
Cosa avevo io in meno a loro? Le mie forme avrebbero fatto arrossire Venere in persona e sapevo come usarle per dare piacere a una donna. Ah, come dimenticare Lucia, la puttana del bordello di Ponte delle Tette, la prima donna alla quale avevo concesso i miei baci segreti. Mi piaceva scopare con lei e lo trovavo di gran lunga più appagante che farlo con quelle bestie pelose e barbute. Mi ci ero affezionata e andavo a trovarla quasi tutte le settimane, fino a quando un marinaio ubriaco le aveva aperto la gola con un coltello dopo averla violentata.
Poi c’era stata Pia, quella mia grassa cugina con qualche rotella fuori posto. Trascorrevo le giornate di agosto nella tenuta della sua famiglia a Martellago. Un giorno rubai una bottiglia di pregiato Chianti delle colline senesi A.D.1724 – così diceva l’etichetta - dalla cantina di suo padre e la convinsi a uscire per una cavalcata. Cavalcammo a lungo e quando fummo stanche ci fermammo a riposare ingollando sorsate di Chianti per calmare la sete. Forse fu colpa del vino o forse no, fatto sta che mi avvicinai a Pia e la baciai. Quella stupida vacca non si tirò indietro, credo non capisse nemmeno quello che stava per accadere. Le infilai una mano sotto le sottane e iniziai ad accarezzarla in mezzo alle gambe. Ma, come le spinsi dentro un dito, quella sembrò realizzare cosa era successo e iniziò ad urlare come un maiale allo scanno, cercando di articolare qualche frase tra i singhiozzi. Poi si alzò e fuggì via. Con il culone di Pia che si allontanava al galoppo, terminarono anche le mie gite a Martellago. Non l’ho più rivista, ma ho sentito che l’hanno data in sposa ad un mercante di spezie. Mi domando come se la sbatta un mercante di spezie a una grassona come Pia. Credo ne trarrebbe più piacere infilzandola con lo spiedo e bacchettandola col ginepro.
E dopo venne lei: la marchesa di Dubois, la donna che aveva reso la mia vita un inferno. La immaginavo nuda, distesa su quelle lenzuola di seta che amava tanto, sulle quali soleva trarre il proprio piacere, da sola o in compagnia. Amava il sesso, lo sapevo, e con il passare degli anni i suoi appetiti erano diventati più spavaldi e insistenti. Si era fatta scopare da tutta Venezia, dal doge al ciabattino, stando a quanto si mormorava. Per quello che faceva la amavo e allo stesso tempo la odiavo profondamente. Non potevo sopportare l’idea che altri, all’infuori di me, potevano darle piacere. Dovevo conquistare ad ogni costo la sua attenzione.
* * *
Era l’ultimo giorno del Carnevale e tutta Venezia era satura di una nauseabonda atmosfera di felicità e benessere. Tutti urlavano festanti, ingozzandosi come porci e applaudendo ai guitti che si cimentavano nel Volo dell’Angelo. Scesi di buon’ora e mi immersi nella folla alla ricerca di un volto capace di farmi dimenticare per un attimo la mia carnefice, ma più le guardavo e più realizzavo che nessuna di quelle insulse baldracche agghindate a festa avrebbe potuto sostituirla. L’unico sollievo alla mia ossessione mi era dato dalle maschere: androgine Baùte, così affascinanti nella loro asetticità, giovanotti travestiti da Gnaga e poi meravigliose Morette in velluto nero, talmente abili nel non lasciarsi cadere il bottone di bocca. E fu in quel frangente che
un lampo di genio mi attraversò la mente. “Chiunque” pensai “grazie a un buon travestimento, può assumere un’altra identità.” Così dal mascarero di calle delle Mercerie comprai tutto il necessario: una larva di gesso bianca, un tricorno e uno spesso tabarro di panno nero. Tornai di corsa a casa, fremendo nell’indossare quegli abiti. “Meraviglioso!” esclamai rimirandomi allo specchio “così travestita potrò avvicinare la marchesa non destando alcun sospetto sulla mia identità!”
Consumai un pasto leggero e non toccai vino, dovevo essere lucida. Ordinai alla servitù di preparami un bagno caldo, con oli profumati al sandalo e cannella. Mi asciugai e indossai il travestimento. Ero pronta e al calar del sole uscii di casa. Più mi avvicinavo a piazza San Marco, più la folla si infittiva in un tripudio di maschere e di colori. I passanti berciavano di gioia, scambiandosi complimenti sui propri costumi e danzando sulle note di una musica gitana. Giocolieri e saltimbanchi si esibivano in complicati giochi pirotecnici. E lì, in mezzo quella confusione, la vidi. Il costume che indossava andava al di là di qualunque mia aspettativa: un lungo peplo porpora con bordi dorati le ricadeva dolcemente fino ai piedi, cinti in calzari di morbido cuoio, i capelli acconciati in una lunga treccia, le ricadevano sulla spalla scoperta. Al suo fianco c’erano due dame vestite allo stesso modo, una in verde e l’altra in bianco. Tutte e tre indossavano le maschere tipiche del teatro greco.
Mi avvicinai a loro e mi profusi in un pittoresco inchino. “Dove andate così meravigliosamente vestite, mie signore?” esordii. Le tre si scambiarono dei sorrisi maliziosi, guardando lo sconosciuto che le aveva approcciate. La donna in verde prese la parola.
“Buon cavaliere mascherato, eravamo qui, sole, sperando di incontrare un gentiluomo che potesse scortarci per queste strade. Sa, abbiamo timore che qualche sgherro ci possa aggredire, non che la cosa mi dispiaccia personalmente” ed esplose in una fragorosa risata che le fece tremolare la gorgiera che aveva al posto del mento.
“Perdonate la mia amica spudorata, mio buon signore” s’intromise la marchesa “stanotte ha bevuto troppo e il vino le ha fatto dimenticare le buone maniere. Lasciate che mi presenti: io sono Erato, colei che suscita desiderio, Musa della poesia amorosa. Le dame che mi accompagnano sono invece Tersicore, Musa della danza” disse indicando la donna grassa “e Talia la festiva, Musa della commedia”. I suoi occhi non smettevano di fissarmi. “Di grazia sareste così gentile da scortarci fino alla prossima locanda? Siamo assetate e gradiremmo rinfrescarci con del buon vino.”
Si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: “Se vi dimostrerete galante, vi ripagherei volentieri con egual moneta.” Il suo alito profumava del vino aromatizzato,
fruttato e speziato ai fiori di arancio. Avrei voluto baciarla lì, seduta stante, assaggiare quella lingua che prometteva essere più dolce dell’ambrosia stessa.
“Ma certo mie Muse” risposi “seguitemi pure. Conosco una locanda non troppo distante da qui, dove il vino è amabile e la musica inebria i sensi. Prego, vi faccio strada.”
Arrivammo alla Leon, le feci accomodare e ordinai una caraffa di vino rosso. Di certo non era amabile e la musica era inebriante quanto quella che può suonare un nano stando in piedi su un tavolaccio di legno. Ma le tre signore non si lamentarono né dell’una né dell’altra cosa.
“Propongo un brindisi, amiche mie!” gridò Talia la festiva “A Dioniso, padre dell’ebbrezza, e al nostro cavalier galante che gentilmente ci ha offerto il frutto di questa ottima vendemmia!”
“A Dioniso e al cavaliere mascherato!” risposero le due in coro.
Inutile dire che la caraffa di ambrosia, nella quale galleggiava un capello, durò poco meno di un’ora. Tersicore e Talia, già ubriache , si alzarono e iniziarono a danzare al ritmo del violino del deforme musicista. La Musa grassa era talmente su di giri che prese in braccio il nano affondandogli la faccia tra le sue enormi tette. L’altra era seduta in braccio a un gigante tozzo e tarchiato e beveva vino dalla coppa di un altro. Se solo avesse saputo, la povera sciocca, che tipo di avventori frequentavano quella locanda, sarebbe schizzata via urlando e implorando pietà. Ma era tardi e da quei due di pietà non ne avrebbe di certo ricevuta.
La marchesa invece era rimasta lì, si era sollevata la maschera e mi fissava. Seppure ubriaca, non lo diede a vedere, anzi aveva conservato tutto il suo contegno. Sorrise e mi si avvicinò: “Sembra, buon cavaliere, che le mie compagne mi abbiano lasciato sola. Non le biasimo, in fondo è l’ultimo giorno di Carnevale e da domani entrambe torneranno confinate nelle loro gabbie dorate, a servire uomini sordi ai loro desideri.”
Fece scivolare una mano sulla mia gamba. “Torniamo a noi piuttosto. Se la mente non mi inganna, ricordo di aver promesso un’adeguata ricompensa alla vostra galanteria. Certo avete barato, il vino non era ambrosia e la musica non era quella di una cetra, ma siete stato cortese e io, prima che il giorno nuovo segni la fine del Carnevale, voglio ripagare la vostra gentilezza. Vi mostrerò di quali atti peccaminosi sa macchiarsi la bella Erato, serva di Dioniso e Afrodite.” Mi prese una mano e se la
infilò tra le gambe. Un gesto che era preludio di quei segreti che troppo a lungo mi erano stati celati.
“Conosco questo posto” proseguì “concedetemi un lieve vantaggio, ordinate un’altra caraffa di vino e poi seguitemi su per le scale. L’ultima camera sulla destra sarà l’alcova dei nostri piaceri” disse alzandosi lentamente dal tavolo.
Feci come mi aveva ordinato e mi avviai su per le scale dopo aver gettato uno sguardo a Talia e Tersicore ormai prede dei satiri della locanda. Non so dire di preciso cosa provassi in quegli attimi, sentivo la testa pulsare e vorticare freneticamente e non per colpa del vino. Per un attimo le scale parvero tremare e le pareti scomparire, ma durò una frazione di secondo. Arrivai alla porta, girai la maniglia ed entrai.
E lì alla luce di una candela, unico baluardo a difesa dell’oscurità che incombeva, c’era lei. Era nuda, distesa sul letto. Le fiamme della candela vorticavano sul suo corpo. Si era sciolta la treccia e i lunghi capelli neri le ricadevano sulle spalle in morbidi riccioli, aveva seni grandi e sodi e i capezzoli scuri come l’ebano.
“Allora, avete intenzione di restare fermo lì a fissarmi, mio Dioniso?” mi sfidò con un sorriso.
“Mi concederò a voi mia Musa a patto che mi permettiate di non togliere la maschera. Almeno per ora” la provocai.
“Acconsento. Spogliatevi ora, sì che possa ammirarvi.” Mi tolsi gli abiti e sciolsi la crocchia che mi legava i capelli. Non dimenticherò mai la meraviglia che si dipinse sul volto della marchesa di Dubois quando realizzò che ero una donna.
“Siete stato malvagio, cavaliere, a nascondermi la vostra reale identità. Dovrei imporvi di andarvene per la vostra menzogna” disse fingendosi offesa “ma non posso lasciare che un corpo così giovane e bello vada via, senza che lo abbia prima assaggiato. Venite qua, bambina.”
La accarezzai piano, sentii i suoi capezzoli inturgidirsi fra le mie dita, il suo antro aprirsi ai miei baci. Quando raggiunse l’apice del suo piacere urlò talmente forte che per un attimo temetti che la stanza ci sarebbe crollata addosso. Mi distesi al suo fianco e le passai un braccio intorno al collo, mentre con l’altra mano impugnavo il coltello che avevo nascosto nel mantello.
“Ora mia dolce fanciulla, mostratemi il vostro volto, sì che vi ricordi per sempre.” mi disse ancora ansimando. Mi tolsi la maschera. Immediatamente quello
sguardo, prima così carico di desiderio, si tramutò in una smorfia di orrore mista a stupore. Cercò di dire qualcosa, ma il terrore le aveva attanagliato talmente il cuore che dalle sue labbra non uscì alcun suono. La pugnalai al ventre, una, due, tre volte. Sentivo il sangue colarmi lungo le braccia, una sensazione che mi eccitò a tal punto che seguitai a pugnalarla ancora, ancora e ancora.
Mi fermai ad osservarla. Il suo corpo giaceva in una posa innaturale, il sangue colava giù lungo il letto, formando una pozza scura sul pavimento di legno. La sua bocca era rimasta contratta negli spasmi della morte e i suoi occhi, ormai privi di vita, erano aperti e rivolti al soffitto. Ora non sarebbe stata più di nessun altro. Mi avvicinai e baciai un’ultima volta quelle labbra che tanto avevo desiderato. Erano ancora calde.
“Ti amo mamma.”
Mi rivestii senza fretta, recisi una ciocca dei suoi lunghi capelli neri e la nascosi nella tasca del mantello, insieme al pugnale con cui le avevo dato il bacio della morte. Nessuno mi prestò attenzione mentre lasciavo la lurida locanda.
L’alba stava spazzando via le passioni e le sfrenatezze della notte e le calli di Venezia andavano pian piano svuotandosi. Dismesse le maschere della dissolutezza, la gente faceva ritorno alle proprie case a passi cadenzati, scanditi da un dolce rimpianto per i desideri lasciati incompiuti. L’aria fredda del mattino annunciava l’arrivo della Quaresima.


Su Valerio Bruner
Nato a Napoli nel 1987, si è laureato in “Lingue e Culture Comparate” presso l'Università di Napoli "L'Orientale". Interessato alla letteratura di ogni tempo e di ogni luogo, scrive poesie e racconti. È appassionato di cinema, di blues e di Bruce Springsteen. Attualmente scrive per le sezioni Esteri (Nord America) e Cultura per “il Levante” di Napoli. Scrittore di poesie e racconti, "La Ballata del Drago e del Leone" è il suo primo testo teatrale.

Sulla rubrica Squarci
Se la scrittura si serve di aghi e coltelli, se punge e lacera, se ogni pagina apre un varco in mezzo all'ovvio e al non detto, se la ragione ha bisogno di attimi di illucidità, se ogni testo si apre su un paesaggio interiore, se è un buco della serratura da cui spiare il mondo, se duole, se è una lama nella carne, se è una trama interrotta in un punto a caso, se la narrazione si spezza come un canto, se è una dissonanza, se semplicemente siete curiosi di sapere chi siamo. Estratti, ferite, fenditure di scrittura, un modo per sentire i nostri silenzi e leggere tra le righe di ciò che abbiamo in cantiere.

La Ballata del Drago e del Leone, di Valerio Bruner (Gli Ibischi, 2013)